Capo di prima classe della Marina Militare colpevole dei reati di insubordinazione con violenza, minaccia e ingiuria, attuata con un tagliacarte.
Cassazione penale sez. I 08/07/2015 ( ud. 08/07/2015 , dep.15/09/2015 ) Numero: 37295
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIORDANO Umberto - Presidente -
Dott. TARDIO Angela - Consigliere -
Dott. CASSANO Margherit - rel. Consigliere -
Dott. MAZZEI Antonella P. - Consigliere -
Dott. SANDRINI Enrico Giusepp - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
A.I. N. IL (OMISSIS);
avverso la sentenza n. 115/2014 CORTE MILITARE APPELLO di ROMA, del
17/12/2014;
visti gli atti, la sentenza e il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA del 08/07/2015 la relazione fatta dal
Consigliere Dott. MARGHERITA CASSANO;
Udito il Procuratore Generale militare in persona del Dott. FLAMINI
L.M., che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Fatto
RITENUTO IN FATTO
1. Il 25 febbraio 2014 il Tribunale militare di Verona dichiarava A.I., Capo di prima classe della Marina Militare in servizio presso il Comando Servizi base di (OMISSIS), colpevole dei reati di insubordinazione con violenza, minaccia e ingiuria (art. 81 cpv.
c.p., art. 186 c.p.m.p., comma 1, art. 189 c.p.m.p., commi 1 e 2, art. 47 c.p.m.p., n. 2) - così diversamente qualificato il reato originariamente contestato - ed, esclusa l'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 1, riconosciuta la circostanze attenuante di cui all'art. 48 c.p.m.p., n. 3 e tenuto conto dell'aumento per la continuazione, lo condannava alla pena, condizionalmente sospesa, di un anno e cinque mesi di reclusione; concedeva il benefico della non menzione nel certificato del casellario giudiziale.
2. Il 17 dicembre 2014 la Corte militare d'appello, in parziale riforma della decisione di primo grado, appellata dal Procuratore militare e dall'imputato, escludeva l'attenuante di cui all'art. 48 c.p.m.p., n. 3 e, per l'effetto, rideterminava la pena in un anno e otto mesi di reclusione militare. Confermava nel resto la decisione di primo grado.
3. La Corte riteneva integrato il reato di insubordinazione con violenza, ravvisando nella condotta tenuta dall'imputato un tentativo di offendere con le armi. Con riguardo alla richiesta del Pubblico Ministero di qualificare il fatto come insubordinazione con violenza realizzata mediante tentativo di omicidio o tentativo di lesioni gravi o gravissime, la Corte osservava che, nel caso di specie, l'azione era stata bloccata nella fase iniziale, quando l'imputato, pur avendo alzato la mano per colpire, non aveva potuto imprimere la direzione, la forza e la velocità dalle quali si sarebbero potute desumere con ragionevole sicurezza le conseguenze lesive del colpo.
Pertanto, mentre appariva piuttosto agevole la realizzazione con il tagliacarte di lesioni lievi o lievissime, al contrario la realizzazione di eventi lesivi di maggiore gravità appariva realizzabile solo da parte di chi aveva una particolare determinazione criminale.
Circa la richiesta difensiva di derubricazione del reato contestato sub a) in insubordinazione con minaccia, la Corte argomentava che la stessa non appariva accoglibile alla luce delle testimonianze di M. e della parte offesa L. che descrivevano entrambi la condotta dell'imputato come diretta a colpire fisicamente la vittima.
I giudici d'appello non ritenevano fondata la richiesta difensiva di assoluzione, per insussistenza del fatto, dal reato di insubordinazione con ingiuria, atteso che la parte offesa non aveva escluso di avere udito pronunciare frasi offensive nei suoi confronti, ma aveva semplicemente affermato di non ricordarne il contenuto.
La circostanza attenuante di cui all'art. 48 c.p.m.p., n. 3, riconosciuta in primo grado, veniva esclusa sulla base delle seguenti considerazioni. Il mancato adempimento, da parte del Maresciallo L. (superiore in grado all'imputato), dell'incarico di censire gli estintori costituiva un mero antefatto. Il L., pur se irritato dal sollecito effettuato per iscritto dal subalterno, aveva tenuto un atteggiamento misurato e composto, esprimendo solo la pretesa, fondata, di potere concludere il proprio discorso prima che A. prendesse la parola. L' A., invece, aveva serbato un atteggiamento non conveniente nei confronti di L. per un'autonoma scelta e non perchè indotto da atteggiamenti del superiore non conformi alla disciplina militare. La Corte sottolineava, infine, che l'imputato ha subito quattordici punizioni disciplinari, alcune delle quali correlate a comportamenti irrispettosi nei confronti di un superiore.
L'attenuante della provocazione veniva esclusa, non risultando modi non convenienti della persona offesa.
4. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia, l'imputato, il quale formula le seguenti censure.
Lamenta inosservanza ed erronea applicazione della legge penale con riferimento alla ritenuta sussistenza del fatto tipico di insubordinazione mediante violenza, di cui mancavano gli elementi costitutivi, e alla mancata qualificazione giuridica del fatto come insubordinazione con minaccia, tenuto conto del comportamento della parte offesa e dell'assenza dell'elemento soggettivo del reato contestato.
Denuncia erronea applicazione della legge penale con riguardo al mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 48 c.p.m.p., n. 3, nonchè vizio di motivazione e travisamento della prova circa i doveri gravanti rispettivamente sull'imputato e sulla parte offesa alla luce del regolamento di disciplina (D.P.R. n. 545 del 1986).
Deduce violazione di legge e vizio della motivazione in relazione al mancato riconoscimento dell'attenuante della provocazione.
Da ultimo lamenta violazione di legge, vizio della motivazione e travisamento della prova in ordine alla ritenuta configurabilità del delitto contestato al capo b) pur in assenza di una diretta percezione delle espressioni offensive da parte della persona offesa.
Diritto
OSSERVA IN DIRITTO
Il ricorso è manifestamente infondato.
Il suo esame impone una premessa metodologica.
1. Alla luce della nuova formulazione dell'art. 606 c.p.p., lett. e), così come novellato dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che la motivazione della pronunzia: a) sia "effettiva" e non meramente apparente, ossia realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia "manifestamente illogica", in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell'applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente contraddittoria, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso per cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Sez. 6, n. 10951 del 15 marzo 2006). Non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità nè che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica l'analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l'individuazione, nel loro ambito, di quei dati che - per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un'unica spiegazione - sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento.
E', invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l'esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l'intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione.
Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti "atti del processo". Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della motivazione e sulla permanenza della "resistenza" logica del ragionamento del giudice. Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell'ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l'iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.
1.2. La categoria logico-giuridica del travisamento della prova deve essere tenuta distinta da quella concernente il vizio di travisamento del fatto. La prima, infatti, a differenza del secondo, implica non una rivalutazione del fatto, che è incompatibile con il giudizio di legittimità, ma la constatazione che esiste una palese divergenza del risultato probatorio rispetto all'elemento di prova emergente dagli atti processuali e che, quindi, una determinata informazione probatoria utilizzata in sentenza, oggetto di analitica censura chiaramente argomentata, è contraddetta da uno specifico atto processuale, pure esso specificamente indicato. La recente riformulazione dell'art. 606 c.p.p., lett. e), ad opera dell'art. 8 della 1. n. 46 del 2006, non confermando l'indeclinabilità della regola preclusiva dell'esame degli atti processuali ed ammettendo un sindacato esteso a quelle forme di patologia del discorso giustificativo riconoscibili solo all'esito di una cognitio facti ex actis, colloca il vizio di travisamento della prova, cioè della prova omessa o travisata, rilevante e decisiva, nel peculiare contesto del vizio motivazionale, attesa la storica inerenza di esso al tessuto argomentativo della ratio decidendi (Sez. 6, 20 marzo 2006, rv. 233621; Sez. 1, 9 maggio 2006, rv. 233783; Sez. 2, 23 marzo 2006, rv. 233460; Sez. 5, 11 aprile 2006, rv. 233789; Sez. 4, 28 aprile 2006, rv. 233783; Sez. 3, 12 aprile 2006, rv. 233823). In virtù della novella legislativa del 2006 viene ad assumere, pertanto, pregnante rilievo l'obbligo di fedeltà della motivazione agli atti processuali/probatori, risultandone valorizzati i criteri di esattezza, completezza e tenuta informativa e, al contempo, rafforzato quell'onere di "indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto" a sostegno del singolo motivo di ricorso, che già gravava sul ricorrente ai sensi dell'art. 581 c.p.p., lett. c).
Il vizio di prova "omessa" o "travisata" sussiste, peraltro, soltanto quando l'accertata distorsione disarticoli effettivamente l'intero ragionamento probatorio e renda illogica la motivazione, per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio trascurato o travisato, secondo un parametro di rilevanza e di decisività.
1.3. Esaminata in quest'ottica la motivazione della sentenza impugnata si sottrae, all'evidenza, alle censure che le sono state mosse, con il primo, il secondo e il quarto motivo di ricorso dal ricorrente, che ha denunciato, da un lato, la carenza, l'illogicità e l'intrinseca contraddittorietà della motivazione e, dall'altro, ha ricondotto alla categoria logico-giuridica della prova "omessa" o "travisata" non l'omessa pronunzia su un significativo dato processuale o probatorio nè la palese divergenza del risultato probatorio rispetto all'elemento di prova emergente dagli atti processuali, bensì l'erronea valutazione di attendibilità e concludenza dell'elemento probatorio, avvenuta in violazione delle regole ermeneutiche che devono presiedere la struttura logica della motivazione in fatto.
2. I giudici di merito, con spiegazione immune da vizi logici e giuridici, hanno evidenziato, sulla scorta delle prove acquisite (deposizioni della parte offesa L. e del teste oculare M.) che l'imputato non si limitò all'ostentazione della mano armata, lasciandola sospesa in aria in modo intimidatorio, bensì pose in essere atti esecutivi diretti a ledere. Al riguardo hanno sottolineato che A., una volta sollevata sopra il capo la mano che impugnava il tagliacarte, intraprese con l'articolazione braccio- mano un rapido movimento dall'alto verso il basso, descrivendo una traiettoria che indirizzava la parte acuminata dello strumento al corpo-spalla della persona offesa, secondo una dinamica percepita dai presenti come tipica del "fendente-picconata" e realisticamente idonea a raggiungere il bersaglio per causare effetti lesivi, senza che peraltro ciò si verificasse grazie al pronto intervento di Mi. e alla pronta reazione di L..
Hanno, inoltre, correttamente argomentato, sulla base delle testimonianze acquisite e ritenute motivatamente intrinsecamente attendibili, la sussistenza degli elementi costitutivi del delitto contestato al capo b).
In realtà il ricorrente, pur denunziando formalmente una violazione di legge in riferimento ai principi di valutazione della prova di cui all'art. 192 c.p.p., comma 2, non critica in realtà la violazione di specifiche regole inferenziali preposte alla formazione del convincimento del giudice, bensì, postulando un preteso travisamento del fatto, chiede la rilettura del quadro probatorio e, con esso, il sostanziale riesame nel merito, inammissibile invece in sede d'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione, allorquando la struttura razionale della sentenza impugnata abbia - come nella specie - una sua chiara e puntuale coerenza argomentativa e sia saldamente ancorata, nel rispetto delle regole della logica, alle risultanze del quadro probatorio, indicative univocamente della coscienza e volontà del ricorrente di tenere un comportamento di insubordinazione con violenza, minaccia, ingiuria, di offendere il prestigio, l'onore e la dignità e di minacciare un ingiuisto danno al superiore gerarchico, Maresciallo L.S..
2. Anche il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
La sentenza di secondo grado, all'esito di una puntuale disamina critica delle motivazioni della decisione di primo grado che aveva riconosciuto l'attenuante di cui all'art. 48 c.p.m.p., n. 3, ha spiegato le ragioni per le quali le considerazioni del primo giudice non erano condivisibili sia in fatto che in diritto. Al riguardo, con argomentazione immune da vizi logici e giuridici e fondata sull'esame del materiale probatorio raccolto, ha valorizzato:
la natura dell'incarico conferito dal Comandante B. all' A., incarico che non investiva quest'ultimo di un "comando" ci la facoltà di impartire ordini nei confronti di chi, come L., avrebbe dovuto collaborare nello svolgimento di tale attività;
il mantenimento delle rispettive posizioni gerarchiche da parte di L. e di A.;
il mancato rispetto, da parte dell'imputato, della normativa disciplinare concernente il comportamento da tenere nel rapporto con un superiore;
l'irrilevanza dal mancato adempimento, da parte di L., dell'impegno di censire gli estintori, costituente un mero antefatto;
la correttezza del comportamento tenuto da L. in occasione dell'incontro con il subalterno, comportamento improntato al rispetto delle prescrizioni in tema di disciplina militare e mai trasceso in parole o in atti impropri.
Sulla base di tali considerazioni la Corte militare d'appello ha motivatamente disatteso le conclusioni del primo giudice, osservando che A. aveva commesso il fatto non in conseguenza dei modi non convenienti del superiore, ma per una sua erronea concezione in merito alle norme di comportamento da osservare nei rapporti interpersonali.
3. Alla luce dei rilievi svolti al paragrafo che precede il Collegio ritiene manifestamente infondato anche il terzo motivo di ricorso.
Ai fini della configurabilità dell'attenuante della provocazione occorrono: a) lo "stato d'ira", costituito da una situazione psicologica caratterizzata da un impulso emotivo incontenibile, che determina la perdita dei poteri di autocontrollo, generando un forte turbamento connotato da impulsi aggressivi; b) il "fatto ingiusto altrui", costituito non solo da un comportamento antigiuridico in senso stretto, ma anche dall'inosservanza di norme sociali o di costume regolanti l'ordinaria, civile convivenza, per cui possono rientrarvi, oltre ai comportamenti sprezzanti o costituenti manifestazione di iattanza, anche quelli sconvenienti o, nelle particolari circostanze, inappropriati; c) un rapporto di causalità psicologica tra l'offesa e la reazione, indipendentemente dalla proporzionalità tra esse (Cass., Sez. 1, 8 aprile 2008, n. 16790, rv. 240282).
Alla luce di tali principi, la sentenza impugnata ha correttamente escluso la sussistenza dei presupposti per l'applicazione della provocazione, tenuto conto dell'assenza di elementi probatori obiettivi e univoci dimostrativi della condotta della parte offesa idonea a fondare il riconoscimento dell'attenuante in questione.
4. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di prova circa l'assenza di colpa nella proposizione dell'impugnazione (Corte Cost. sent. n. 186 del 2000), al versamento della somma di mille Euro alla Cassa delle Ammende.
PQM
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di mille Euro alla Cassa delle Ammende.
Così deciso in Roma, il 8 luglio 2015.
Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2015
08-11-2015 15:57
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