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Sentenza

Una donna agli arresti domiciliari esce da casa, con zoccoli e pigiama, per buttare la spazzatura negli appositi contenitori. La Cassazione conferma la condanna.
Una donna agli arresti domiciliari esce da casa, con zoccoli e pigiama, per buttare la spazzatura negli appositi contenitori. La Cassazione conferma la condanna.
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 13 maggio – 25 agosto 2014, n. 36123
Presidente Di Virginio – Relatore Di Salvo

Ritenuto in fatto

1. O.C. ricorre per cassazione avverso la sentenza della Corte d'appello di Napoli, in data 7-5-12, con la quale è stata confermata la sentenza di condanna emessa in primo grado, in ordine al delitto di cui all'art. 385 cod. pen.
2. La ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione poiché ella è stata costretta ad allontanarsi, per pochi attimi, dall'abitazione presso la quale si trovava agli arresti domiciliari, per la necessità di gettare i rifiuti negli appositi contenitori, posizionati a pochi metri dall'alloggio, attesa la mancanza di persone che convivessero con lei. Ed infatti la donna venne vista dalla polizia giudiziaria, nei pressi dell'abitazione, con gli zoccoli ai piedi e un pigiama da notte: segno che ella non aveva alcuna intenzione di allontanarsi dall'immobile e, ancor meno, di sottrarsi ai controlli di polizia giudiziaria, onde manca anche l'elemento psicologico del reato. Sotto il profilo putativo, poi, va riconosciuta la scriminante di cui all'art. 51 cod. pen. avendo l'imputata agito nella convinzione di tutelare il proprio diritto a vivere in un ambiente libero dai rifiuti. Si chiede pertanto annullamento della sentenza impugnata.

Considerato in diritto

1. La doglianza formulata è manifestamente infondata. Va infatti ribadito il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo il quale ogni allontanamento,ancorchè limitato nel tempo e nello spazio, realizza il delitto di cui all'art. 385 cod. pen. (ex plurimis, Sez. 6, 26 -5- 1990, Nataletti, Cass. pen. 1992, 645 ; Sez. 6, 27-4-1998, Bemi, Cass. pen 1999, 2144), anche se il soggetto venga sorpreso nelle immediate vicinanze dell'abitazione ( Cass. Sez. 6, 7-1-2003, n. 15741, Rv. 226808; Sez 6, 18-12-2007, n. 3212, Riv. Pen. 2008, 758). L'elemento soggettivo si esaurisce nel dolo generico, ad integrare il quale è sufficiente la coscienza e volontà di allontanarsi dal luogo in cui si è ristretti, con la consapevolezza di trovarsi legalmente agli arresti domiciliari o nelle altre situazioni che fungono da presupposto del reato (Cass., Sez. 6, 10-2-2005, n. 20943). Non occorre dunque alcuna specifica volontà di sottrarsi ai controlli da parte delle Forze dell'ordine. A nulla rilevano i motivi che hanno determinato la condotta dell'agente ( Cass. Sez. 6, 6-3-2012 n. 10425, Rv. 252288). Colui che si trovi sottoposto alla misura autocustodiale ha,d'altronde,la possibilità di chiedere al giudice l'autorizzazione ad allontanarsi dalla propria abitazione per provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita: ciò che l'imputata, secondo quanto risulta dalla motivazione della sentenza impugnata, non ha fatto.
2. Non può nemmeno riconoscersi la scriminante putativa dell'esercizio dei diritto poiché l'art. 284 cod. proc. pen. costituisce norma extrapenale integratrice dei precetto ex art. 385 cod. pen. e dunque, essendo in esso incorporata, è da considerarsi legge penale. Ne deriva che l'errore di interpretazione sulla portata precettiva dell'art. 284 cod . proc. pen. non scusa, ai sensi dell'art. 5 cod. pen., risolvendosi in ignoranza della legge penale e cioè della norma incriminatrice di cui all'art. 385 cod. pen. Ignoranza non certamente inevitabile, nell'ottica delineata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 364 del 24-3-1988, dato che il divieto di uscire dall'abitazione, per chi sia ristretto agli arresti domiciliari, e la necessità di chiedere, all'uopo, un'autorizzazione al giudice competente costituiscono prescrizioni assai semplici, di comune cognizione per chi sia sottoposto alla misura autocustodiale,anche perché connotate da una intrinseca coerenza con la natura di quest'ultima, sì da essere agevolmente comprensibili per coloro che siano ad essa assoggettati.
4. Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro mille, determinata secondo equità, in favore della Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di E. 1000 in  favore della cassa delle ammende.
Avv. Antonino Sugamele

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