Un uomo adesca una sedicenne attraverso Facebook e le propone di prostituirsi per feste private. Va in carcere.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 3 – 16 luglio 2014, n. 31184
Presidente Squassoni – Relatore Gazzara
Ritenuto in fatto
Il Gip presso il Tribunale di Roma, con ordinanza del 10/1/2014, ha applicato la misura della custodia cautelare in carcere a carico di A.S., indagato per il reato ex art. 56 e 600 bis co. 1 cod. pen., per avere tentato di indurre la minore M.P., di anni 16, adescata su internet, tramite un profilo Facebook altrui, fraudolentemente utilizzato, a prostituirsi, partecipando a feste private, in cui avrebbe dovuto esibirsi indossando solo un perizoma ed intrattenere i partecipanti, lasciandosi palpeggiare dagli stessi.
Il Tribunale di Roma, chiamato a pronunciarsi sulla istanza di riesame interposta nell'interesse dei prevenuto, con ordinanza del 30/1/2014, ha confermato il mantenimento della misura in atto.
La difesa del S. ha proposto ricorso per cassazione con i seguenti motivi:
- vizio di motivazione in ordine alla fattispecie del reato astrattamente ipotizzata, in quanto la condotta ascritta, come emerso dal contenuto degli atti di indagine, di certo, non può farsi rientrare nella sfera dell'art. 600 bis co. 1, ma semmai nella ipotesi prevista dal co. 2 della stessa disposizione codicistica;
- assoluta sproporzione tra i fatti così come contestati e la custodia intramuraria applicata, apparendo illogico e contraddittorio che una misura meno afflittiva non possa garantire le esigenze cautelare ritenute sussistenti.
Considerato in diritto
Il ricorso è inammissibile.
In estrema sintesi con il primo il motivo di annullamento si contesta la qualificazione giuridica dei fatti, ad avviso dei ricorrente inquadrabili più propriamente nella meno grave ipotesi, residuale, di cui al co. 2 dell'art. 600 bis cod.pen., anche alla luce della recente pronuncia resa da questa Corte (S.U. 14 aprile 2014, n. 16207).
Il Tribunale ha evidenziato come la condotta del prevenuto, obiettivamente desumibile dai termini dell'approccio informatico e dai ripetuti contatti, anche di persona, con la minore sia stata la seguente: il S. ha tentato di convincere la P. a partecipare, dietro compenso e previa selezione, a feste private durante le quali la minore avrebbe dovuto prestarsi ad atti sessuali (palpeggiamenti), con qualunque dei partecipanti lo volesse. L'opera di convincimento a tale scopo, tesa a superare le obiezioni e le resistenze morali della minore, è stata insistente e prolungata, espressa sia tramite conversazioni sul network, sia durante l'incontro presso la Cattedrale, sia in seguito, con pressanti richieste di prendere una decisione e fornire una risposta.
Il prevenuto ha, dunque, cercato di blandire, incoraggiare e condizionare il processo volitivo della vittima in relazione a prestazioni sessuali retribuite con un numero indeterminato di potenziali clienti, non riuscendo nell' intento per cause indipendenti dalla sua volontà; elementi, questi cristallizzanti l'ipotesi di reato contestata.
Del pari manifestamente infondata si palesa la eccepita sproporzione tra i fatti ascritti al prevenuto e la misura cautelare massima in atto.
Sul punto, con un discorso giustificativo del tutto esaustivo ed esente da vizi logici, il decidente evidenzia la pericolosità sociale della personalità dell'indagato, che rende particolarmente intenso il pericolo di recidiva specifica, valutando la natura del reato contestato, rispondente ad istinti difficilmente comprimibili e controllabili, e le modalità seriali ed insidiose con le quali il S. agisce per adescare in "rete" il soggetto minorenne.
In dipendenza delle superiori considerazioni, ad avviso dei giudice di merito, la custodia cautelare in carcere è da considerare l'unica adeguata a fronteggiare tale pericolo, poiché, peraltro, l'abitazione del S. rappresentava il centro di riferimento della attività criminosa, vista, altresì, la facilità di accesso ad internet, anche mediante una semplice connessione da utenza cellulare, al di fuori di ogni possibilità di controllo.
Tenuto conto, di poi, della sentenza del 13/12/2000, n. 186, della Corte Costituzionale, e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che il S. abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, lo stesso, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., deve essere condannato al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di euro 1.000,00.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di euro 1.000,00; dispone che copia del presente provvedimento sia trasmessa al Direttore dell'istituto Penitenziario competente, a norma dell'art. 94, co. 1 ter, disp. att. cod. proc. pen.
17-07-2014 14:56
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