Un famoso TG, nell'edizione della sera, trasmette immagini, girate durante l'incidente probatorio avente ad oggetto l'audizione protetta dei minori.- Condannato il Direttore ed il giornalista.
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 12 dicembre 2013 – 22 gennaio 2014, n. 2887
Presidente Teresi – Relatore Pezzella
Ritenuto in fatto
1. La Corte d'Appello di Milano, pronunciando nei confronti degli odierni ricorrenti M.C. e B.A. , con sentenza del 6.7.2012 (dep. l'11.7.2012), in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Monza il 16.11.2010, revocava le statuizioni civili a favore di R.A. e D.G. , condannava gli imputati alla rifusione delle spese della proseguita difesa delle altre parti civili, e confermava la sentenza di condanna del M. e della B. all'ammenda di Euro 3420 (pena così convertita), oltre al risarcimento del danno.
Il giudice di prime cure aveva condannato gli imputati, intervenuta l'estinzione del reato per oblazione dichiarata con separata sentenza in relazione al capo a) dell'imputazione, per il reato di cui al capo b) in relazione agli artt. 110, 81, 734 bis cod. pen., perché, in concorso tra loro e con altre persone allo stato ignote (le quali mettevano a loro disposizione i filmati processuali nella consapevolezza che erano destinati alla pubblicazione), con la trasmissione tv nell'ambito del TG5, divulgavano le generalità e l'immagine dei minori F.N. , MO.Cr. , D.D. e R.V. , della scuola materna (omissis) , in ipotesi d'accusa persone offese (tra gli altri) dei reati di cui agli art. 416, 572, 609 bis, ter, quater, septies e octies cod. pen., senza il consenso dei rispettivi genitori esercenti la potestà genitoriale; in (omissis) .
Era accaduto che il Tg5, diretto da M.C. , nell'edizione serale di maggiore ascolto (quella delle 20) aveva trasmesso alcune immagini, riprese nel corso dell'incidente probatorio avente ad oggetto l'audizione protetta dei minori sopra indicati, nell'ambito del caso giudiziario che ebbe a riguardare la scuola materna (omissis) . Nello specifico le immagini ritraevano i colloqui tenutisi il 12 luglio di quell'anno tra taluni dei minori presunti abusati e una psicologa dell'Istituto di neuropsichiatria infantile di (…), incaricata, con altri specialisti, di accertare le condizioni psichiche dei minori coinvolti al fine di verificarne la loro capacità testimoniale. Il M. veniva chiamato a rispondere della messa in onda quale direttore del telegiornale e responsabile del sito Internet della medesima testata, la B. quale autrice del servizio.
2. Avverso tale provvedimento il M. e la B. hanno proposto separati ricorsi per Cassazione nei termini di legge, con l'ausilio, dei propri difensori, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.:
Il M. :
a. violazione dell'art. 606 lett. b) cod. proc. pen. in ordine alla ritenuta sussistenza dell'elemento materiale del reato di cui all'art. 734bis cod. pen. nonché violazione dell'articolo 606 lett. e) cod. proc. pen. in ordine alla mancanza e alla contraddittorietà della motivazione con cui si è affermata la sussistenza dell'elemento oggettivo di fattispecie, anche in relazione a quanto disposto dall'art. 533, comma 1, cod. proc. pen..
Escluso già dai giudici di merito che fossero state divulgate le generalità dei minori, e pacificamente ritenuto che le immagini siano andate in onda con l'accorgimento tecnico del cosiddetto "taglio di immagine", punto nodale della decisione è, secondo il ricorrente, quello della riconoscibilità delle immagini e della loro riconducibilità ai minori.
Tanto l'istruttoria dibattimentale che la sentenza di primo grado hanno riconosciuto che i bambini si muovono sulla scena trasmessa, frutto di estrapolazioni e tagli di montaggio, che non sono mai ripresi in volto ed in primo piano, e anche che essi sono ritratti prevalentemente di fianco e di spalle.
Sulla scorta di tali rilievi si trattava di verificare, dunque, secondo la tesi di cui in ricorso, se le videosequenze trasmesse dal Tg5 del 18 luglio 2007 potessero essere qualificate come immagini ai sensi e per gli effetti dell'illecito contestato agli imputati, integrando dunque la fattispecie obiettiva del reato di cui all'articolo 734 bis del codice penale.
La linea difensiva degli imputati era stata che ciò non fosse accaduto, in quanto nel concetto di immagine, rilevante ai fini della contravvenzione ex art. 734bis cod. pen., dovrebbe essere necessariamente insito il carattere della riconoscibilità obiettiva del minore rappresentato, che a loro avviso mancava in concreto nel caso in esame.
A dimostrazione di ciò veniva evidenziato come, pacificamente, i bambini comparsi nel servizio del telegiornale fossero tre, mentre c'erano stati quattro genitori che avevano riferito di avere riconosciuto in uno di essi il proprio figlio.
La logica conseguenza sarebbe dovuta essere, ad avviso del ricorrente che, anche a voler accettare un concetto di riconoscibilità dell'immagine già sussistente allorquando la stessa sussista in un più ristretto ambito familiare, tale riconoscibilità in concreto non c'era se è vero che addirittura c'è sicuramente un genitore che erroneamente ha creduto di vedere nel video il proprio figlio.
Ad avviso del ricorrente le incongruenze già presenti nel ragionamento del tribunale non sarebbero state corrette dal giudice di appello, ma anzi quest'ultimo sarebbe incorso in ulteriori contraddizioni.
La Corte d'appello, ad esempio, dopo avere affermato che il filmato consente senza ombra di dubbio di giungere alla identificazione dei piccoli che si muovono sulla scena, poco più avanti precisa che non vi è stata alcuna certezza che i piccoli le cui immagini sono state diffuse fossero solo tre. Il dubbio sul numero - come rileva il ricorrente - diventa una vera e propria incertezza sul nome, tanto è vero che poi la Corte conclude che "ovviamente però la perdurante incertezza sulla effettiva ripresa proprio delle piccole R. e D. comporta la revoca delle statuizione civili poste a favore dei rispettivi genitori".
Secondo il ricorrente un'interpretazione rispettosa della ratio della norma impone un approccio restrittivo nell'esegesi degli elementi di fattispecie, per il quale la corretta lettura del concetto di immagine non può prescindere dalla concreta identificabilità del soggetto ritratto all'interno di una cerchia sociale di apprezzabili dimensioni: di tal che, l'immagine di cui è vietata la divulgazione, ai sensi dell'articolo 734 bis del codice penale, sarebbe solo quella caratterizzata da una intrinseca ed oggettiva riconoscibilità.
In tal senso non ci si potrebbe mai accontentare, pur in un'accezione debole del concetto di riconoscibilità (accentuandone il profilo potenziale, riferendo il riconoscimento ad un ambito sociale più o meno ristretto) di una semplice autoriconoscibilità, come neppure di una riconoscibilità circoscritta a quei soli soggetti che sono stati, in prima persona, testimoni dei fatti cui le immagini si riferiscono. In questi casi, infatti, se una possibilità di riconoscimento sussiste, essa non deriverebbe dall'immagine divulgata, ma dal ricordo e/o dall'autopercezione che il soggetto possiede di sé o delle persone che con lui hanno preso parte ad un dato accadimento.
Avrebbe errato, dunque, la Corte di appello quando ha desunto la riconoscibilità astratta dal riconoscimento in concreto operato da chi aveva assistito all'incidente probatorio, laddove dalle testimonianze (ad esempio nel caso del genitore della F. ) emergeva chiaro che al riconoscimento si era giunti anche dalla conoscenza di alcuni particolari in ordine al tipo di pettinatura, l'incedere o dai soggetti ritratti, che potevano essere conosciuti solo da chi a quegli eventi aveva preso parte, ancorché come accompagnatore.
b. violazione ex art. 606 lett. b) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 42, comma 2, e 43, comma 1, primo alinea, c.p. e 192 cod. proc. pen. per avere ritenuto sussistente il dolo (eventuale) e in relazione agli artt. 51 cod. pen. e 21 Cost. per avere negato rilevanza - ai fini della valutazione del profilo soggettivo di fattispecie - all'esercizio del diritto di cronaca.
Il ricorrente censura la sentenza anche in relazione alle considerazioni svolte in punto di elemento psicologico.
Si sostiene infatti che, per come formulata nel capo d'imputazione, l'ipotesi di reato contestata agli imputati presupponesse una commissione cosciente e volontaria dell'illecito. Pur agendo, infatti, sulla base di una fattispecie contravvenzionali (punibile pacificamente a titolo sia di dolo che di colpa), la Procura avrebbe secondo il ricorrente operato una precisa scelta di campo, costruendo l'accusa in termini dolosi. Di talché, l'accertamento del dolo doveva necessariamente formare oggetto di prove di vaglio giudiziale, non potendosi pretermettere la verifica di uno degli elementi costitutivi della fattispecie contestata.
Nel condividere l'argomento, ad avviso del ricorrente, il tribunale aveva disatteso gli argomenti addotti dagli imputati per escludere la responsabilità dolosa ritenendo che nel caso di specie sussistesse il dolo.
Ciò sarebbe avvenuto, ad avviso del ricorrente, secondo una lettura non condivisibile della testimonianza di V.P. , e sulla base di una serie di pregiudizi sul valore giornalistico del servizio trasmesso dal Tg5.
L'impostazione, oggetto di precise e motivate censure nell'atto d'appello, è stata ribadita anche all'esito dei gravami. Nel fare ciò, tuttavia, ad avviso del ricorrente, i giudici del merito non solo si sarebbero platealmente discostati dalle risultanze istruttorie, ma avrebbero usato una accezione di dolo eventuale che - appiattendosi sulla sterile formalismo dell'accettazione del rischio - avrebbe trascurato il reale contesto dell'azione e si sarebbe discostata dai consolidati parametri esegetici in punto di elemento psicologico del reato.
Un esame sereno delle risultanze istruttorie e del contesto d'azione avrebbe evidenziato - secondo il ricorrente - come in alcun modo poteva sostenersi che il M. e la B. avessero accettato il rischio di trasmettere immagini riconoscibili di minori vittime di reati sessuali, e tanto meno che gli stessi avessero agito pensando "esclusivamente al successo della testata".
Come già evidenziato nell'atto d'appello, poi, ad avviso del ricorrente avrebbe dovuto essere tenuto nella debita considerazione la sussistenza della scriminante dell'esercizio del diritto di cronaca.
c. violazione dell'art. 606 lett. b) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 40 e 110 c.p. e 192, comma 1, e 533, comma 1, cod. proc. pen. per aver ritenuto sussistente e provato al di là di ogni ragionevole dubbio il contributo causale delle condotte (commissive) ascritte agli imputati).
Sul punto in particolare, dopo aver ricordato il particolare statuto penale dell'attività radiotelevisiva di cui alla legge 6 agosto 1990 n. 223, viene contestata la parte in cui la Corte d'appello ha creduto di poter risolvere il problema della mancata contestazione nella forma dell'omesso controllo ritenendo provata in capo agli imputati una condotta commissiva, eziologicamente efficiente rispetto alla divulgazione delle immagini, laddove dalla istruttoria non era emersa nemmeno la prova che il M. avesse visionato - approvandolo - il servizio per come uscito dalla sala di montaggio;
d. violazione dell'articolo 606 lett. b) cod. proc. pen. in relazione agli artt. 62bis, 133 e 175 comma 2 c.p. nonché dell'articolo 606 lett. e) cod. proc. pen. per aver negato la concessione delle attenuanti generiche e del beneficio della non menzione della condanna, con motivazione illogica contraddetta dal testo della sentenza.
La B. :
a. erronea interpretazione della legge penale (art. 606 co. 1 lett. b) cod. proc. pen.): erronea interpretazione dell'art. 734bis cod. pen.; concetto di divulgazione dell'immagine della persona offesa.
Il concetto di riconoscibilità - secondo la ricorrente - non deve essere inteso in senso assoluto, ma con riferimento al comune fruitore dell'immagine.
La cautela dell'agente (in caso di servizio giornalistico, il giornalista o il montatore) deve essere quindi valutata rispetto ad una diffusione e visione "normale" del filmato, non già rispetto ad una indagine approfondita ma artificiosa o ad un esame con fermo immagine, magari effettuato da chi già conosce la persona offesa e la situazione riprodotta.
In tal senso andrebbe censurata la sentenza in quanto fonda l'affermazione di responsabilità sul riconoscimento ad opera di soggetti che già conoscevano i fatti immortalati.
La tutela penale ex art. 734bis cod. pen. è apprestata invece rispetto ai terzi: ai normali telespettatori, siano essi totalmente estranei, siano essi persone che pure già conoscono le persone offese ma che non sanno essere le stesse coinvolte come persone offese in un procedimento per uno dei reati indicati dalla norma incriminatrice.
b. erronea interpretazione della legge penale (art. 606 co. 1 lett. b) cod. proc. pen.): erronea interpretazione degli artt. 51 e 734bis cod. pen. e ritenuta insussistenza del diritto di cronaca.
La ricorrente sul punto censura la sentenza della Corte d'Appello ribadendo che quello previsto dall'art. 21 della Costituzione è un diritto di rango costituzionale per il quale è erroneo affermare, come ritenuto dalla Corte d'Appello, che non possa mai trovare applicazione alla contravvenzione di cui all'art. 734bis cod. pen. Non esistono, infatti, ad avviso della ricorrente, limiti legislativi o logici in senso contrario, laddove la scriminante, invece, è pacificamente applicabile al più grave delitto di diffamazione.
Sarebbe, invece, ragionevole, alla stregua dell'interpretazione datane dalla giurisprudenza di legittimità in tema di scriminante del diritto di cronaca in caso di diffamazione a mezzo stampa, individuare caratteri e limiti dell'esercizio del diritto di cronaca anche nel caso - come quello in questione - di divulgazione dell'immagine ai sensi dell'articolo 734 bis del codice penale.
In altri termini, così come a determinate condizioni possono essere diffusi scritti o servizi giornalisti e filmati diffamatori, allo stesso modo dovrebbero poter essere diffuse, sempre a determinate condizioni, le immagini in violazione del divieto di divulgazione prescritto da tale norma. Ragionando per analogia rispetto ai limiti individuati in tema di diffamazione, anche in questo caso l'esercizio del diritto di cronaca non potrebbe che postulare la verità del fatto rappresentato e l'interesse pubblico alla notizia.
Questione più complessa appare, invece, quella della forma espressiva, o meglio delle modalità tecniche, posto che si tratta di immagini (e quindi di fotografie e di filmati). Sempre ragionando in parallelo con la diffamazione, si potrebbe pertanto affermare, ad avviso della ricorrente, che la scriminante in questione possa trovare applicazione in ambito giornalistico quando siano adoperati gli accorgimenti tecnici, come quelli posti in essere nel caso che ci occupa, volti ad evitare, attraverso operazioni di taglio da parte del montatore, che vadano in onda immagini nelle quali i soggetti sono raffigurati in volto, lasciando soltanto le immagini nelle quali gli stessi vengono ripresi di spalle o di fianco.
c. contraddittorietà della motivazione (art. 66 co. 1 lett. e cod. proc. pen.). Revoca delle statuizioni civili e contraddittoria mancata assoluzione per i fatti corrispondenti.
La sentenza impugnata si paleserebbe contraddittoria, ad avviso della ricorrente, in quanto, mentre dal punto di vista delle statuizione civili ha revocato la condanna rispetto alle due persone offese R. e D. sul presupposto che non vi era certezza che le immagini di queste due minori fossero state divulgate, a tale sostanziale riduzione del capo d'imputazione non ha poi fatto riscontro la pronuncia assolutoria relativamente alla contestata divulgazione quanto meno rispetto a tali due minori.
Infatti il capo di imputazione aveva specificamente indicato quale condotta incriminata la diffusione dell'immagine di quattro diverse persone. In altri termini, il riconoscimento dell'impossibilità di individuare le immagini di due delle persone offese e che ha comportato la revoca delle statuizione civili nei confronti di queste ultime, non poteva non comportare, sul versante penalistico, la conseguente pronuncia assolutoria l'rispetto alle stesse.
d. Mancanza di motivazione (art. 606 co. 1 lett. e cod. proc. pen.) in ordine alla censura svolta con l'atto di appello relativamente alla riferibilità all'imputata B. della condotta contestata Secondo la ricorrente B. la sentenza impugnata non ha effettivamente motivato circa la riferibilità ad essa della condotta contestata. Nonostante fosse stato oggetto di specifico motivo di appello la Corte di appello infatti, dopo aver individuato l'elemento soggettivo nel dolo eventuale, non tratta - come secondo l'assunto di cui in ricorso avrebbe dovuto - in modo distinto la posizione del direttore e quella dell'autrice del servizio. Semplicemente si limita ad un rapido riferimento alla sentenza di primo grado e alla testimonianza del teste V. .
I ricorrenti chiedevano pertanto:
M. : in via principale, previo riconoscimento delle denunciate violazione di legge, che questa Corte di Cassazione volesse annullare senza rinvio l'impugnata sentenza e prosciogliere entrambi gli imputati perché il fatto non sussiste, perché non costituisce reato o, comunque, perché gli imputati non lo hanno commesso; in subordine, previo riconoscimento dei vizi e delle censurate carenze motivazionali, annullare l'impugnata sentenza del rinviare la causa ad altra sezione della corte d'appello di Milano per una nuova mutazione dei fatti.
B. : l'annullamento della sentenza impugnata con i provvedimenti di conseguenza.
In data 8.11.2013 veniva poi presentato atto di remissione di querela e dichiarazione di revoca della costituzione di parte civile nell'interesse di: MO.Se. , in proprio e nella qualità di esercente la patria potestà sul minore MO.Cl. ; F.M. , in proprio e nella qualità di esercente la potestà sulla minore F.N. ; R.A. , in proprio e nella qualità di esercente la patria potestà sulla minore R.V. : D.G. , in proprio e nella qualità di esercente la patria potestà sulla minore D.D. .
Considerato in diritto
1. Il proposto ricorso è manifestamente infondato e pertanto ne va dichiarata l'inammissibilità
2. Entrambi i ricorrenti, non senza evocare in larga misura censure in fatto non proponibili in questa sede, si sono, infatti, per lo più limitati a riprodurre le stesse questioni già devolute in appello e da quei giudici puntualmente esaminate e disattese, con motivazione del tutto coerente e adeguata che non è stata in alcun modo sottoposta ad autonoma e argomentata confutazione.
E' ormai pacifica acquisizione della giurisprudenza di questa Suprema Corte come debba essere ritenuto inammissibile il ricorso per Cassazione fondato su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici.
La mancanza di specificità del motivo, infatti, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, dal momento che quest'ultima non può ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell'art. 591 comma 1, lett. c) cod. proc. pen., alla inammissibilità della impugnazione (in tal senso Sez. 2, n. 29108 del 15.7.2011, Cannavacciuolon non mass.; conf. Sez. 5, n. 28011 del 15.2.2013, Sammarco, rv. 255568; Sez. 4, n. 18826 del 9.2.2012, Pezzo, rv. 253849; Sez. 2, n. 19951 del 15.5.2008, Lo Piccolo, rv. 240109; Sez. 4, n. 34270 del 3.7.2007, Scicchitano, rv. 236945; Sez. 1, n. 39598 del 30.9.2004, Burzotta, rv. 230634; Sez. 4, n. 15497 del 22.2.2002, Palma, rv. 221693).
In tal senso devono essere disattese le doglianze riguardanti la testimonianza del V. , il contributo causale delle condotte dei due imputati, così come la questione, anch'essa fattuale, riguardante il riconoscimento dei propri figli da parte di quattro genitori, su cui la Corte territoriale ha ampiamente e coerentemente motivato.
3. Manifestamente infondato è anche il motivo di ricorso con il quale entrambi i ricorrenti contestano un'erronea applicazione della legge penale laddove i giudici del merito hanno ritenuto sussistente l'elemento oggettivo del reato di cui all'articolo 734bis cod. pen..
I ricorrenti si soffermano sul concetto di "non riconoscibilità" delle immagini divulgate, che ha costituito il punto nodale su cui le difese hanno improntato la loro richiesta di annullamento della sentenza impugnata e, conseguentemente, di assoluzione dei propri assistiti.
Orbene, anche sul punto i giudici di merito hanno coerentemente e logicamente motivato.
La Corte d'appello di Milano ha ricordato che con l'articolo 734bis cod. pen. il legislatore ha introdotto nell'ordinamento una norma destinata alla protezione della riservatezza delle persone offese da atti di violenza sessuale e che tale protezione non contempla alcuna eccezione, se non il consenso della medesima persona offesa. Ha anche sottolineato come la condotta, pacificamente, almeno sul piano della astratta applicazione della norma, possa essere indifferentemente consumata a titolo di dolo o di colpa, rientrando nel novero delle contravvenzioni.
Il legislatore - si legge ancora nel provvedimento impugnato - "ha voluto apprestare una particolare tutela ai soggetti già vittime (pur se presunte) di abusi, impedendo che costoro potessero rimanere vittime di un ulteriore abuso, consistente nella diffusione delle loro generalità o della loro immagine (se riconoscibile, certo, che, altrimenti, non ne sarebbe seguito alcun danno, alcuna offensività della condotta)".
Va qui ricordato che, successivamente, a rafforzare tale tutela, è intervenuto anche l'art. 52 comma quinto del Dlgs. 196/2003 sulla privacy che ha previsto che "Fermo restando quanto previsto dall'articolo 734-bis del codice penale relativamente alle persone offese da atti di violenza sessuale, chiunque diffonde sentenze o altri provvedimenti giurisdizionali dell'autorità giudiziaria di ogni ordine e grado è tenuto ad omettere in ogni caso, anche in mancanza dell'annotazione di cui al comma 2, le generalità, altri dati identificativi o altri dati anche relativi a terzi dai quali può desumersi anche indirettamente l'identità di minori, oppure delle parti nei procedimenti in materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone".
4. Ritiene, tuttavia, questa Corte Suprema che occorra fornire una risposta su quale sia l'ambito di tutela offerto dalla norma di cui all'articolo734 bis del codice penale.
L'art. 734 bis cod. pen., aggiunto dall'art. 12 L. 15 febbraio 1996, n. 66 (e modificato prima dall'art. 8 L. 3 agosto 1998, n. 269 e poi dall'art. 9 L. 6 febbraio 2006, n. 38) punisce "chiunque, nei casi di delitti previsti dagli articoli 600 bis, 600 ter, 600 quater, anche se relativi al materiale pornografico di cui all'articolo 600 quater, 600quinquies, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies e 609 octies, divulghi, anche attraverso mezzi di comunicazione di massa, le generalità o l'immagine della persona offesa senza il suo consenso.
In assenza di consenso della persona offesa, dunque, l'illiceità della condotta s'incentra sull'attività di "divulgazione", consistente nel portare a conoscenza di un numero indeterminato di persone notizie riservate (nel caso che ci occupa le generalità o l'immagine di "qualsiasi" persona offesa di quegli specifici reati), con ogni modalità, prevedendosi espressamente che ciò possa avvenire "anche attraverso mezzi di comunicazione di massa", tra cui rientrano, evidentemente, non soltanto i mass media tradizionali (stampa, televisione, radio), ma anche quelli diffusisi con le nuove tecnologie (siti web, blog, social network, mailing list).
Si tratta di un reato contravvenzionale, quindi procedibile d'ufficio, e pertanto nessuna conseguenza in ordine alle statuizione penali può avere l'intervenuta remissione di querela e la successiva revoca della costituzione di parte civile da parte dei genitori in proprio e nell'interesse dei minori.
Ma occorre proprio soffermarsi sulla scelta del legislatore di punire il reato in questione come contravvenzione.
L'opzione in tal senso appare chiaramente ispirata a prescindere dall'effettiva realizzazione di un danno. Si è voluto che in alcun modo potesse aggiungersi al già grave danno di essere stati parte offesa dei gravi reati indicati nella norma il rischio di portare a conoscenza di quei fatti la collettività.
Ebbene, per far ciò, il legislatore del 1996 ha optato per l'introduzione di un reato di pericolo. La condotta di divulgazione dei dati o dell'immagine è vietata - e la sanzione a titolo di contravvenzione sottrae la stessa alla possibilità di estinzione del reato attraverso la remissione di querela - perché potrebbe essere fonte di pericolo per la parte offesa di essere riconosciuta in quanto tale rispetto a reati che finiscono, nel comune sentire collettivo, per essere in qualche modo infamanti anche per chi li subisce. Pertanto, la sussistenza nel caso concreto di tale ulteriore danno non deve essere accertata. Ciò che il giudice deve accertare è, invece, soltanto il verificarsi di quel comportamento (la divulgazione delle generalità o delle immagini) che il legislatore ha ritenuto normalmente pericoloso per il bene-interesse tutelato dalla norma.
Il legislatore, dunque, incrimina un fatto ritenuto, in base ad una valutazione generale ed astratta, pericoloso per un determinato bene giuridico. E lo fa con una contravvenzione, mostrando, come si dirà di qui a poco, di non voler richiedere soltanto l'esistenza del dolo.
Non condivisibilmente, ad avviso di questa Corte, gli sforzi difensivi si sono appuntati sul concetto di riconoscibilità dell'effige dei soggetti di cui siano state divulgate le immagini e sull'ampiezza della platea di coloro che avrebbero potuto dare un nome ai volti dei bambini della scuola di XXXXXXX.
La tutela offerta dall'art. 734bis cod. pen., infatti, "copre" tutti i casi in cui, non solo attraverso il volto, ma in qualunque altro modo (da un profilo, da un'immagine dal di dietro, da un vestito indossato) si possa risalire alla persona offesa dei reati indicati dalla norma.
In tali situazioni siamo nell'ambito, in ogni caso, di materiale non divulgabile.
Coerente, dunque, appare la motivazione della corte territoriale laddove evidenzia che occorre tener conto che le immagini trasmesse dalla televisione e reperibili nei siti internet (il servizio in questione era stato pubblicato anche sul sito Web del Tg5) non sono solo oggetto di visione immediata, ma sono anche registrabili, rivedibili e trattabili tecnicamente nelle più varie forme.
Pertanto è logico affermare, come si legge nella motivazione del provvedimento impugnato, che un filmato, come quello oggetto del presente giudizio, che mostra riprese fatte con telecamere installate in un locale di pochi metri quadrati, in cui gli individui che si muovono in uno spazio ristretto sono ripresi non solo di schiena, ma seppure per pochi attimi (peraltro perfettamente fissabili anche dalle più comuni apparecchiature), anche di profilo (com'era avvenuto per almeno tre delle piccole vittime, come ha potuto appurare anche la Corte d'appello rivedendo in camera di consiglio più volte il filmato è dandone atto in motivazione), ha consentito di giungere alla identificazione dei piccoli che su tale scena si muovono.
Ricorda la Corte d'appello di Milano che peraltro ciò era stato riconosciuto anche dall'Autorità garante per la protezione dei dati personali, nel provvedimento di divieto dell'ulteriore diffusione del filmato stesso.
Peraltro non pare sussistere, in tale passaggio argomentativo della corte territoriale, la lamentata contraddittorietà della motivazione.
Gioverà ricordare che il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale della decisione di cui si saggia la oggettiva tenuta sotto il profilo logico argomentativo, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, cfr. vedasi questa Sez. 3, n. 12110 del 19.3.2009 n. 12110 e n. 23528 del 6.6.2006).
Ancora, la giurisprudenza ha affermato che l'illogicità della motivazione per essere apprezzabile come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Sez. 3, n. 35397 del 20.6.2007; Sez. Unite n. 24 del 24.11.1999, Spina, RV. 214794).
Più di recente è stato ribadito come ai sensi di quanto disposto dall'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), il controllo di legittimità sulla motivazione non attiene né alla ricostruzione dei fatti né all'apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell'atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: a) l'esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; b) l'assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento, (sez. 2, n. 21644 del 13.2.2013, Badagliacca e altri, rv. 255542)
Il sindacato demandato a questa Corte sulle ragioni giustificative della decisione ha dunque, per esplicita scelta legislativa, un orizzonte circoscritto.
Il vizio della manifesta illogicità della motivazione deve essere evincibile dal testo del provvedimento impugnato. Com'è stato rilevato nella citata sentenza 21644/13 di questa Corte la sentenza deve essere logica "rispetto a sé stessa", cioè rispetto agli atti processuali citati. In tal senso la novellata previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal testo del provvedimento impugnato, anche da "altri atti del processo", purché specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha infatti trasformato il ruolo e i compiti di questa Corte, che rimane giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto.
Avere introdotto la possibilità di valutare i vizi della motivazione anche attraverso gli "atti del processo" costituisce invero il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosiddetto "travisamento della prova" che è quel vizio in forza del quale il giudice di legittimità, lungi dal procedere ad una (inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove), prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti per verificare se il relativo contenuto è stato o meno trasfuso e valutato, senza travisamenti, all'interno della decisione.
In altri termini, vi sarà stato "travisamento della prova" qualora il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste (ad esempio, un documento o un testimone che in realtà non esiste) o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale (alla disposta perizia è risultato che lo stupefacente non fosse tale ovvero che la firma apocrifa fosse dell'imputato). Oppure dovrà essere valutato se c'erano altri elementi di prova inopinatamente o ingiustamente trascurati o fraintesi. Ma - occorrerà ancora ribadirlo - non spetta comunque a questa Corte Suprema "rivalutare" il modo con cui quello specifico mezzo di prova è stato apprezzato dal giudice di merito, giacché attraverso la verifica del travisamento della prova.
Per esserci stato "travisamento della prova" occorre che sia stata inserita nel processo un'informazione rilevante che invece non esiste nel processo oppure si sia omesso di valutare una prova decisiva ai fini della pronunzia.
In tal caso, però, al fine di consentire di verificare la correttezza della motivazione, va indicato specificamente nel ricorso per Cassazione quale sia l'atto che contiene la prova travisata o omessa.
Il mezzo di prova che si assume travisato od omesso deve inoltre avere carattere di decisività. Diversamente, infatti, si chiederebbe al giudice di legittimità una rivalutazione complessiva delle prove che, come più volte detto, sconfinerebbe nel merito.
Se questa, dunque, è la prospettiva ermeneutica cui è tenuta questa Corte, le censure che i ricorrenti rivolgono al provvedimento impugnato, anche sotto questo profilo, si palesano manifestamente infondate, non apprezzandosi nella motivazione della sentenza della Corte d'Appello di Milano alcuna illogicità che ne vulneri la tenuta complessiva.
I ricorrenti non contestano l'illogicità della motivazione o il travisamento di una specifica prova, ma sollecitano a questa Corte una diversa lettura dei dati processuali non consentito in questa sede di legittimità .
Ma la Corte d'appello di Milano non solo motiva in maniera logica e coerente, ma fa di più.
I giudici del gravame danno conto di avere essi stesso provveduto alla visione del filmato più volte e di avere riconosciuto "almeno tre" delle piccole vittime. E aggiungono che nessuna rilevanza ha sul piano penale il fatto che i quattro genitori affermino di avere riconosciuto a suo tempo (non essendo stato, come rileva la Corte, nuovamente mostrato agli stessi filmato in dibattimento) i propri quattro figli, laddove i protagonisti del filmato sembrano essere tre.
I giudici del gravame non si contraddicono, ma coerentemente con l'affermazione di avere essi stessi riconosciuto "almeno tre" delle vittime, rilevano che non vi è alcuna certezza che i piccoli le cui immagini siano state diffuse fossero solo tre, ma come ciò sia solo frutto di un'impressione tratta da chi in epoca successiva ha visto il filmato.
La Corte territoriale ricorda, però, come il reato si configuri anche nel caso in cui sia riconoscibile anche una sola delle piccole vittime, tanto più quando la condotta sia stata, ai fini sanzionatori, unitariamente considerata. E aggiungono che l'istruttoria dibattimentale svolta in primo grado ha comunque consentito di raggiungere la certezza circa l'esatta identificazione di due piccoli. E perciò concludono, coerentemente, che non avrebbe avuto senso riaprire l'istruttoria, non ritenendo né necessario né opportuno, ai fini penali, il riconoscimento di tutte le vittime.
Chiaramente e coerentemente vengono, però, revocate le statuizione civili a favore dei minori per i quali non vi sia certezza della divulgazione delle immagini.
Va aggiunto, inoltre, che non sarebbe stato peraltro possibile, come oggi viene nuovamente richiesto a questa Corte, in ragione del ridotto numero di bambini per i quali c'è una certezza di individuazione, incidere "al ribasso" anche sulla pena. Per il motivo, come ricordato dai giudici del gravame del merito, che ci si è mossi nei limiti edittali minimi della stessa.
5. Manifestamente infondate sono anche le censure che attengono alla motivazione sulla sussistenza dell'elemento psicologico in capo agli odierni ricorrenti.
La Corte territoriale ha correttamente motivato sul punto laddove ha ricordato che il legislatore ha previsto la punibilità sia "di chi avesse, scientemente, voluto provocare la divulgazione di tali dati, sia di chi tale conseguenza avesse determinato con condotta negligente, impotente o imperita".
I ricorrenti, per contro, mostrano di aderire a quell'orientamento per cui, pur se di natura contravvenzionale (e, dunque, astrattamente punibile anche a titolo di colpa), si ritiene che il reato di cui all'art. 734bis cod. pen. sia configurabile esclusivamente come doloso.
Chi opina in tal senso lo fa sul presupposto che il concetto stesso di divulgazione, riferito a questo specifico tipo di informazioni, implicherebbe nell'agente un atteggiamento psicologico che non può, nella quasi totalità dei casi, che essere consapevole della loro particolare natura e quindi diretto volontariamente all'offesa apportata.
Un'impostazione siffatta non è condivisibile.
La ratio legis è quella di tutelare i soggetti coinvolti da ogni divulgazione. E prescinde dalla volontarietà della stessa. Ugualmente punibile, sarebbe, ad esempio, una pubblicazione che avvenga per colpa consistita nell'imperizia di chi prepara un servizio televisivo convinto che ne sta curando il montaggio mentre lo sta mandando in onda. O di chi, su internet, inoltri per errore un allegato o un messaggio.
Ci si può dunque spingere ad affermare che è ormai chiara negli anni, a seguito degli interventi normativi succedutisi a partire dalla fine degli anni Novanta (vedasi, ad esempio, anche l'art. 52, comma quinto, D.Lgs. n. 196 del 2003) la volontà del legislatore di affermare un vero e proprio "diritto all'anonimato" per chi sia vittima di determinati reati, anche solo secondo una prospettazione accusatoria, e che tale diritto debba essere garantito - salvo l'espresso consenso della medesima persona offesa, peraltro difficilmente verificabile - impedendo la "divulgazione", con ogni mezzo, delle generalità o dell'immagine della persona offesa - sebbene maggiorenne - da atti di violenza sessuale.
In ogni caso, pur dopo aver chiarito che la fattispecie è contravvenzionale - in quanto tale punibile anche a titolo di colpa - la corte territoriale ha coerentemente e logicamente motivato in ordine alla sussistenza in capo ai due imputati del dolo eventuale, consistito nell'aver accettato il rischio, pur di bruciare sul tempo la concorrenza nella divulgazione del filmato, che le piccole vittime potessero essere riconosciute o riconoscibili.
In proposito legittimamente la corte di secondo grado ha richiamato per relazionem la sentenza del giudice di prime cure, dichiarando di condividerla.
Va ricordato che per giurisprudenza pacifica di questa Suprema Corte, in caso di doppia conforme affermazione di responsabilità, deve essere ritenuta pienamente ammissibile la motivazione della sentenza d'appello per relationem a quella della sentenza di primo grado, sempre che le censure formulate contro la decisione impugnata non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi.
Il giudice di secondo grado, infatti, nell'effettuare il controllo in ordine alla fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è chiamato ad un puntuale riesame di quelle questioni riportate nei motivi di gravame, sulle quali si sia già soffermato il prima giudice, con argomentazioni che vengano ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate.
In una simile evenienza, infatti, le motivazioni della pronuncia di primo grado e di quella di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell'appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, di guisa che le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (confronta l'univoca giurisprudenza di legittimità di questa Corte: per tutte Sez. 2 n. 34891 del 16.05.2013, Vecchia, rv. 256096; conf. sez. III, n. 13926 del 1.12.2011, dep. 12.4. 2012, Valerio, rv. 252615: sez. II, n. 1309 del 22.11.1993, dep. 4.2. 1994, Albergamo ed altri, rv. 197250).
Nella motivazione della sentenza il giudice del gravame di merito non è tenuto, inoltre, a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. sez. 6, n. 49970 del 19.10.2012, Muià ed altri rv.254107).
La motivazione della sentenza di appello è del tutto congrua, in altri termini, se il giudice d'appello abbia confutato gli argomenti che costituiscono l'"ossatura" dello schema difensivo dell'imputato, e non una per una tutte le deduzioni difensive della parte, ben potendo, in tale opera, richiamare alcuni passaggi dell'iter argomentativo della decisione di primo grado, quando appaia evidente che tali motivazioni corrispondano anche alla propria soluzione alle questioni prospettate dalla parte (così si era espressa sul punto sez. 6, n. 1307 del 26.9.2002, dep. 14.1.2003, Delvai, rv. 223061).
E' stato anche sottolineato di recente da questa Corte che in tema di ricorso in cassazione ai sensi dell'art. 606, comma primo lett. e), la denunzia di minime incongruenze argomentative o l'omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, non possono dar luogo all'annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma è solo l'esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell'impianto argomentativo della motivazione (sez. 2, n. 9242 dell'8.2.2013, Reggio, rv. 254988).
Peraltro, nel caso in esame la Corte di Appello di Milano non si è limitata a richiamare la sentenza di primo grado, ma ha evidenziato come gli odierni ricorrenti - in ciò confutando un motivo di appello che pure viene oggi riproposto a questa Corte di legittimità - abbiano materialmente concorso tra loro nella messa in onda del servizio. È stato ricordato nel provvedimento impugnato, ad esempio, come M. non solo fosse il direttore responsabile delle testate (video ed internet) che hanno diffuso l'immagine, ma che era anche stato il diretto protagonista della confezione del servizio, insieme alla coimputata B. . La corte territoriale, infatti, ricorda sul punto come il vicedirettore V. avesse testimoniato che egli si era dovuto occupare di tutte le altre notizie, mentre i due odierni ricorrenti predisponevano il pezzo su (OMISSIS) poi andato in onda.
6. Se quello sin qui delineato è il quadro normativo in cui ci si muove, appare evidente come non possa esserci spazio alcuno per una scriminante qual è quella dell'esercizio del diritto di cronaca.
Qui non si tratta, come avviene per la diffamazione, di trovare un punto di equilibrio, attraverso gli aspetti della verità, dell'interesse pubblico e della continenza espressiva, per bilanciare il generale diritto alla tutela della propria reputazione e quello della collettività ad essere informata.
Nel caso dell'art. 734bis - come in quello dell'art. 114 cod. proc. pen. o del più volte citato art. 52 Dlg. 196/2003 - siamo, infatti, di fronte ad un vero e proprio divieto, rivolto proprio, in primis, a quegli operatori dell'informazione, che rivendicano il diritto di dare delle notizie di pubblico interesse.
Il bilanciamento tra gli interessi in gioco, con la scelta di vietarle, in tale ambito limitato, l'ha già fatta, in altri termini, il legislatore.
Peraltro correttamente la Corte di appello di Milano rileva come dall'espletata istruttoria sia emerso come il sacrificio della privacy delle vittime sia stato operato non sull'altare dell'interesse generale bensì su quello della tempestività del servizio giornalistico, al fine di dare la notizia per primi, quindi esclusivamente per il successo della testata. Pertanto, come ricordano i giudici del gravame del merito, l'interesse giornalistico nel caso di specie non era quello di riferire un fatto, laddove che ci fosse un procedimento penale in corso per dei supposti atti di violenza sessuale avvenuti nella scuola di (OMISSIS) era circostanza ormai nota, ma proprio quello di mostrare le immagini di un atto giudiziario e, al suo interno, quelle del perito e delle piccole vittime. Non preoccupandosi gli imputati come si legge nella sentenza impugnata - di commettere, pur di pubblicare la notizia esclusiva, anche l'ulteriore reato di cui all'articolo 684 cod. pen., diffondendo atti di un procedimento penale non pubblicabile, reato che è stato estinto per oblazione.
7. Manifestamente infondato appare anche il profilo di ricorso riguardante la mancata concessione delle attenuanti generiche e degli altri benefici di legge.
La Corte territoriale ha ritenuto infatti - e ne ha dato conto in sentenza - che vi ostasse il riscontrato dolo, palesatosi con la piena subordinazione dell'interesse alla riservatezza delle giovanissime vittime di gravi (seppur presunti) abusi alle ragioni non tanto della cronaca quanto della competizione giornalistica.
La doglianza proposta sul punto si palesa peraltro generica in quanto il ricorrente non indica l'elemento in ipotesi non valutato o mal valutato, mentre la corte territoriale ha valorizzato, a fondamento del diniego, il dato sopra ricordato.
Va rilevato, inoltre, che ai fini dell'assolvimento dell'obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall'imputato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l'uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l'indicazione delle ragioni ostative alla concessione e delle circostanze ritenute di preponderante rilievo;
Peraltro, come ricordato dalla corte territoriale, la pena è stata irrogata nel minimo edittale.
8. La declaratoria di inammissibilità del ricorso preclude in questa sede la declaratoria della prescrizione maturata dopo la sentenza d'appello.
La giurisprudenza di questa Corte Suprema ha, infatti, più volte ribadito che l'inammissibilità del ricorso per Cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen (Cass. pen., Sez. un., 22 novembre 2000, n. 32, De Luca, rv. 217266: nella specie la prescrizione del reato era maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso; conformi, Sez. un., 2 marzo 2005, n. 23428, Bracale, rv. 231164, e Sez. un., 28 febbraio 2008, n. 19601, Niccoli, rv. 239400; in ultimo Cass. pen. Sez. 2, n. 28848 dell'8.5.2013, rv. 256463).
9. Come anticipato, nessuna conseguenza in ordine alle statuizione penali può avere l'intervenuta remissione di querela e la successiva revoca della costituzione di parte civile da parte dei genitori in proprio e nell'interesse dei minori.
Quanto alle statuizioni civili operate dai giudici del merito, in mancanza di una specifica richiesta di annullamento sul punto, le stesse si palesano prive di effetti.
10. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell'alt. 616 cod. proc. pen., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 d.lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge.
25-01-2014 12:48
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