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Sentenza

Tribunale di Trapani. Provvedimento restrittivo: misura cautelare in carcere per tentata estorsione. Tribunale della Libertà di Palermo rigetta. Ricorso inammissibile.
Tribunale di Trapani. Provvedimento restrittivo: misura cautelare in carcere per tentata estorsione. Tribunale della Libertà di Palermo rigetta. Ricorso inammissibile.
Cassazione penale  sez. II   
Data:
    25/09/2013 ( ud. 25/09/2013 , dep.26/11/2013 ) 
Numero:
    47044

 

    Intestazione

                        LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE                   
                           SEZIONE SECONDA PENALE                        
    Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:                            
    Dott. CARMENINI  Secondo Liber -  Presidente   -                     
    Dott. GENTILE    Domenico      -  Consigliere  -                     
    Dott. PRESTIPINO Antonio       -  Consigliere  -                     
    Dott. IASILLO    Adriano       -  Consigliere  -                     
    Dott. RAGO       Geppino       -  Consigliere  -                     
    ha pronunciato la seguente:                                          
                         sentenza                                        
    sul ricorso proposto da: 
               D.P.C., n. il (OMISSIS); 
    avverso  l'ORDINANZA  del  Tribunale della Libertà  di  Palermo  del 
    15.3.2013; 
    Udita la relazione fatta dal Consigliere Dr. PRESTTPINO ANTONIO; 
    Sentito  il  Procuratore  Generale, Dr. Gialanella  Antonio,  che  ha 
    concluso per l'inammissibilità del ricorso. 
                     


    Fatto
    IN FATTO E IN DIRITTO

    Con ordinanza del 5.2.2013, il Tribunale di Trapani rigettava la richiesta difensiva di revoca della misura della custodia cautelare in carcere in precedenza disposta dal Gip nei confronti di D.P. C. con provvedimento restrittivo del 15.11.2011 per due fatti di tentata estorsione in danno di S.E.S. e S.P. (capo D) dell'imputazione) e per un estorsione consumata in danno di C.F., il Tribunale della Libertà di Palermo, con ordinanza del 15.3.2013, rigettava l'istanza di riesame dell'indagato.

    Secondo la ricostruzione dei fatti contenuta nel provvedimento impugnato, il D.P. era intervenuto in due momenti della vicenda processuale oggetto del capo D); una prima volta, nel pomeriggio del (OMISSIS), quando si era recato presso S. P. insieme al coimputato Ca.Al., per intimargli di contattare c.P., indicato dall'accusa come il mandante del Ca. e del D.P., e dominus della pretesa estorsiva;

    una seconda volta, con un'iniziativa intimidatoria "individuale".

    I giudici del riesame rilevavano che S.E.S., sentito in dibattimento dopo il rinvio a giudizio dei due imputati, aveva confermato i fatti; peraltro, anche S.P. aveva sostanzialmente finito con il confermare le accuse, sia pure con qualche tentennamento e reticenza. Riguardo all'imputazione sub I), i giudici del riesame sottolineavano che anche C.F. pur se con qualche esitazione, aveva ribadito il coinvolgimento nei fatti del ricorrente.

    I giudici territoriali affermavano quindi che il quadro cautelare restava immutato, sia sotto il profilo della gravità indiziaria che sotto quello delle esigenze social preventive.

    Ricorre il difensore, deducendo la mancanza, contraddittorietà e ed illogicità della motivazione in relazione alla valutazione de novum;

    per i fatti estorsivi in danno dei fratelli S. i giudici del riesame avrebbero riportato soltanto le dichiarazioni di S. S., non quelle di S.P., nè quelle di un dipendente della sala giochi, dalle quali risulterebbe che il D. P. non aveva preso parte all'irruzione nel locale.

    Per quel che riguarda l'estorsione in danno del C., il tribunale avrebbe trascurato che le dichiarazioni dibattimentali del teste si erano concentrate su altri soggetti, avendo il C. chiarito di avere sempre intrattenuto con il D.P. rapporti improntati alla massima trasparenza.

    In punto di esigenze cautelari, infine, il Tribunale non avrebbe dato conto della ritenuta necessità della permanenza della più grave misura custodiale, rifugiandosi in formule di stile.

    Il ricorso è manifestamente infondato.

    La difesa, rispetto alla valutazione della conferma del quadro di gravità indiziaria per la tentata estorsione in danno dei fratelli S., si limita a rilevare, in modo del tutto apodittico, che i testi avrebbero finito con lo scagionare il D.P., senza nemmeno dedurre esplicitamente il travisamento delle prove da parte dei giudici territoriali. Assolutamente vago è il riferimento alle dichiarazioni di un dipendente della sala giochi, già in riferimento all'occasione processuale del suo esame, oltre che rispetto ai contenuti effettivi della deposizione. Il Tribunale non afferma poi in alcun modo che il D.P. avesse preso parte alla spedizione presso la sala giochi, non incorrendo quindi sul punto nell'errore che la difesa vorrebbe lasciare intendere.

    Per quel che riguarda l'estorsione in danno del C., che sarebbe stato costretto a subire l'imposizione di noleggiare ripetutamente veicoli a c.F.P. senza alcun corrispettivo, i giudici territoriali ricordano che il teste aveva finito con il confermare che a provvedere al ritiro dei mezzi era proprio il D. P., laddove il contesto intimidatorio in cui si iscrivevano tali rapporti commerciali, esplicitamente ribadito dalla persona offesa, esclude la fondatezza dell'affermazione difensiva secondo cui i rapporti tra il ricorrente e il C. sarebbero stati sempre improntati alla "massima trasparenza", senza dire che non è nemmeno dato di verificare se tale valutazione fosse stata espressa dal C. o non sia piuttosto propria della difesa, considerando l'assoluta lacunosità di riferimenti processuali che caratterizza il ricorso.

    In punto di esigenze cautelari, le deduzioni difensive finiscono in realtà per reinvestire l'originario provvedimento genetico, nella misura in cui non sottolineano, sotto questo specifico profilo, concreti elementi di novità, ma si limitano in sostanza a lamentare la violazione dei criteri normativi in tema di graduazione delle misure restrittive della libertà personale.

    Alla stregua delle precedenti considerazioni, il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla cassa delle ammende, commisurata al suo effettivo grado di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità.

    La cancelleria dovrà provvedere agli adempimenti di cui all'art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.
    PQM
    P.Q.M.

    Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000 alla cassa delle ammende.

    Si provveda a norma dell'art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

    Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 settembre 2013.

    Depositato in Cancelleria il 26 novembre 2013
Avv. Antonino Sugamele

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