Sentenza penale. Motivazione contrastante con il dispositivo. Quale parte prevale?
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 11 marzo – 17 aprile 2014, n. 17023
Presidente Squassoni – Relatore Andreazza
Ritenuto in fatto
1. C.C.S. e D.R.L. hanno proposto ricorso avverso la sentenza della Corte d'Appello di Potenza, che ha confermato la sentenza di condanna del Tribunale di Matera in data 25/10/2010 rispettivamente alla pena di anni, uno, mesi uno e giorni quindici di reclusione e di mesi sei di reclusione per il reato di cui agli artt. 110, 117 e 323 c.p..
2. Con un primo motivo D.R.L. lamenta la violazione di legge nonché la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in particolare contestando l'errata interpretazione degli artt. 48, 49 e 107 del T.u.e.l. (l.n. 267 del 2000) che, secondo i giudici di primo grado e d'appello, avrebbero imposto al dirigente comunale un dovere di sindacabilità della decisione assunta dalla giunta comunale con delibera del 25 maggio 2006; segnatamente neppure l'articolo 107 del T.u.e.l., valorizzato dal Tribunale quale norma pretesamente violata dall'imputato, attribuiva al dirigente del settore tecnico la competenza in materia di determinazione delle imposte comunali o gli consentiva il potere di fornire pareri motivati in ordine all'opportunità o meno di adottare un atto di indirizzo espressamente demandato agli organi di governo, tanto più appartenendo alla competenza della giunta comunale il decidere sul quantum della prestazione tributaria ai sensi del combinato disposto degli artt. 42 e 48 del Tuel. In altri termini, unicamente alla giunta e al consiglio comunale e non ad altri organi erano attribuiti poteri decisionali in ordine alla determinazione delle aliquote dei tributi comunali mentre al capo del settore tecnico era demandato di rendere il parere in ordine alla regolarità tecnica attestante la realtà della situazione urbanistica. A fronte, dunque, di tali specifiche censure la Corte d'Appello non poteva limitarsi, come invece fatto, a richiamare acriticamente le argomentazioni della sentenza del Tribunale. Né, aggiunge il ricorrente, sarebbe condivisibile l'ulteriore argomentazione della Corte secondo cui il parere reso sarebbe stato privo, come invece necessario, della motivazione, riguardando tale principio unicamente i provvedimenti amministrativi e non gli atti endo - procedimentali come i pareri, non risultando del resto neppure dall'art. 49 un tale obbligo; tanto più, essendo il parere in oggetto un parere tecnico, avente ad oggetto unicamente il fatto che l'atto corrisponde all'attività istruttoria compiuta e ai fatti acquisiti e che lo stesso è conforme a quanto disposto dalla normativa sulla formazione della delibera nel suo aspetto estrinseco, e non di legittimità come quello che, nella normativa anteriore, veniva dato dal segretario comunale.
2. Con un secondo motivo lamenta la violazione degli articoli 192 e 533 c.p.p. essendo stata, in relazione a quanto già argomentato col primo motivo, la responsabilità fondata sulla violazione di norme giuridiche male interpretate ed applicate.
3. Con un nuovo motivo di ricorso, presentato il 22/02/2014, sotto un primo profilo, lamenta l'inosservanza degli artt. 125 e 546 c.p.p. avendo la sentenza imougnata omesso di pronunciarsi sulla lamentata estraneità dell'imputato rispetto al fatto contestatogli limitandosi a richiamare la sentenza di primo grado; sotto un secondo lamenta poi la mancata indicazione del nominativo dell'imputato nel dispositivo della sentenza impugnata quale causa di nullità della sentenza impugnata.
4. Con un primo motivo C.C.S. lamenta la violazione degli artt. 42, 43 e 323 c.p. in relazione alla insussistenza dell'elemento psicologico caratterizzato in particolare dalla natura intenzionale posto che, al contrario, tra gli altri elementi : la delibera era intervenuta per sanare una macroscopica ingiustizia; il momento di emanazione della stessa era contrassegnato da incertezze interpretative specie con riferimento alla nozione di area fabbricabile; il livello di competenza professionale dei soggetti agenti era modesto; il parere dei funzionari tecnici presupponeva un controllo di legittimità; nessun collegamento era stato provato con i supposti beneficiari del provvedimento.
5. Con un secondo motivo lamenta la violazione degli artt. 47 e 323 c.p. in relazione ad intervenuto errore sulla legge (quella regolante i presupposti di debenza dell'Ici) diversa da quella penale o, comunque, laddove si ritenesse detta normativa incorporata in quella penale, ad errore comunque rilevante ex art. 5 c.p..
6. Con un terzo motivo, infine, deduce la violazione dell'art. 323 c.p. con particolare riferimento all'evento rappresentato dal vantaggio ingiusto posto che i giudici non avrebbero considerato la circostanza che comunque tre dei cinque beneficiari avrebbero pagato l'imposta, che la differenza di imposta tra area agricola e fabbricabile sarebbe stata di soli 200 Euro, che comunque sarebbe avvenuta l'iscrizione a ruolo e che l'atto della giunta, frutto di un palese eccesso di potere, sarebbe stato sostanzialmente inesistente e insuscettibile di conseguenze.
Considerato in diritto
7. È anzitutto infondato il motivo, pregiudiziale, di natura processuale articolato da D. con il nuovo motivo di ricorso e volto a sostenere la nullità della sentenza.
Questa Corte ha affermato, da ultimo, con riferimento proprio ad un dispositivo di sentenza d'appello privo della pronuncia sulla responsabilità dell'imputato (Sez. fer., n. 35516 del 19/08/2013, Liuni ed altri, Rv. 257203), che, in caso di contrasto tra dispositivo e motivazione, qualora la divergenza dipenda da un errore materiale contenuto nel dispositivo, e lo stesso sia obiettivamente riconoscibile, è legittimo il ricorso alla motivazione per individuare l'errore medesimo ed eliminarne i relativi effetti. Infatti, la regola generale secondo cui, in caso di difformità, il dispositivo prevale sulla motivazione della sentenza incontra una deroga nel caso in cui l'esame della motivazione stessa consenta di ricostruire chiaramente ed inequivocabilmente il procedimento seguito dal giudice, sì da condurre alla conclusione che la divergenza dipende da un errore materiale, obiettivamente riconoscibile, contenuto nel dispositivo (da ultimo, Sez. 3, n. 19462 del 20/02/2013, Dong, Rv. 255478; Sez.l, n. 4055 del 04/12/2012, mancini, Rv. 254218; Sez. 4, n. 12920 del 19/09/2012, Giordano, Rv. 255497; Sez. 6, n. 8916 del 08/02/2011, P., Rv. 249654).
Nella specie, aderendo il Collegio a tale indirizzo, pur contrastato, sullo specifico punto impugnato, da meno recenti decisioni di segno opposto (cfr., tra le altre, Sez. 2, n. 20958 del 15/05/2012, P.G. in proc. Musumeci, Rv. 252837Sez.l, n. 13559 del 12/03/2009, Matarese e altri, Rv. 243141), non appare esservi dubbio sulla volontà della Corte d'appello, non estrinsecatasi formalmente nel dispositivo, di confermare la sentenza del Tribunale anche per quanto concernente la posizione di D. , emergendo ciò con assoluta evidenza dalla diffusa trattazione, di cui alla motivazione (si veda in particolare pag. 7), delle ragioni per le quali la stessa Corte ha ritenuto di disattendere i motivi di gravame presentati, oltre che da L. , anche da D. , con riferimento alla veste di funzionario autore del parere propedeutico alla delibera adottata dalla Giunta municipale.
Di qui, dunque, l'assoluta evidenza, nella specie, non già di una causa di nullità della sentenza, bensì di un'omissione meramente materiale dovuta ad un lapsus calami e correggibile mediante la procedura dell'errore materiale.
8. Sono invece fondati i motivi di ricorso afferenti alla affermazione di responsabilità dello stesso D. ed esaminabili congiuntamente.
La motivazione della sentenza impugnata ha sostanzialmente fondato la responsabilità a titolo concorsuale del dirigente del settore tecnico D.R.L. , che, in tale veste, ebbe a rilasciare parere favorevole alla delibera della giunta municipale in oggetto, sulla "laconica ed assertiva affermazione" della regolarità tecnica del procedimento giacché, ove, invece, una valutazione dei parametri legali di riferimento fosse stata "seriamente effettuata", ciò avrebbe dovuto condurre a conclusioni del tutto diverse; di qui, dunque, sempre secondo la Corte, la conclusione secondo cui la totale omissione di motivazione del parere avrebbe "offerto un'adesione consapevole ed eziologicamente rilevante nel contesto di una più ampia dinamica causale dell'evento finale, con consecutiva condivisione della sua antigiuridicità" (vedi pag. 7).
In definitiva, secondo la Corte, l'omissione della motivazione sarebbe il sintomo di una condotta che, lungi dal contrastare, come sarebbe stato obbligo del funzionario tecnico, un provvedimento illegittimo, avrebbe finito in realtà per accettarlo acriticamente, concorrendo nella sua adozione.
Ora, va anzitutto considerato che nessun obbligo di motivazione era ed è previsto in relazione al parere tecnico formulato nella specie sia perché l'art. 49 del T.u.e.l. si limita a prescrivere, al comma 1, che "su ogni proposta di deliberazione sottoposta alla Giunta e al Consiglio che non sia mero atto di indirizzo deve essere richiesto il parere, in ordine alla sola regolarità1 tecnica, del responsabile del servizio interessato e, qualora comporti riflessi diretti o indiretti sulla situazione economico-finanziaria o sul patrimonio dell'ente, del responsabile di ragioneria in ordine alla regolarità' contabile", sia perché, trattandosi di atto endo-procedimentale, tale motivazione non è, secondo i principi generali, obbligatoriamente richiesta.
In secondo luogo non può trascurarsi di considerare che la violazione di legge contestata come elemento costitutivo dell'abuso di ufficio di specie non ha mai riguardato l'aspetto urbanistico - edilizio (ovvero, segnatamente, quello demandato, appunto alla "competenza del dirigente del settore tecnico") in ordine al quale nessuna censura neppure la stessa sentenza risulta avere sollevato, ma unicamente, come del resto chiaramente evincibile dal capo d'imputazione, quello attinente alla volutamente errata considerazione delle aree in questione come assoggettate ad lei per terreni agricoli e non ad lei per terreni edificabili; né la stessa sentenza risulta contrastare la circostanza, nel cui ambito rientrava l'aspetto tecnico di competenza del parere fornito, che i terreni in oggetto ricadessero in zona soggetta a lottizzazione convenzionata di iniziativa privata e che, pur a fronte di intervenuta approvazione di piano di lottizzazione, non fosse ancora stata stipulata la Convenzione che tale piano rendesse esecutivo.
A fronte dunque di tali dati, una argomentazione che, come quella ricordata sopra, identifichi nella mera omissione della motivazione del parere rilasciato l'elemento di per sé comprovante l'accettazione, da parte di chi quel parere abbia espresso, degli effetti illegittimi della delibera successivamente adottata, si risolve nell'imputare al dirigente tecnico, il cui operato, di per sé considerato, è risultato, appunto, formalmente legittimo, una volontà di accettazione acritica degli eventuali profili di illegittimità della delibera con riguardo ad aspetti esulanti dalla propria sfera di controllo tale da porsi in contrasto, innanzitutto, con la natura necessariamente intenzionale del dolo del reato in oggetto (sulla quale, si dirà, peraltro, diffusamente più oltre); ed infatti, nel delitto d'abuso d'ufficio, per la configurabilità dell'elemento soggettivo, è richiesto che l'evento sia voluto dall'agente e non semplicemente previsto ed accettato come possibile conseguenza della propria condotta (Sez. 6, n. 33844 del 27/06/2008, P.M. in proc. Rosi ed altri, Rv. 240757).
Sotto un secondo profilo, poi, finisce per equiparare illogicamente la posizione del dirigente del settore tecnico, come già detto, unicamente volta a considerare il profilo urbanistico - edilizio, a quella del dirigente della gestione delle risorse finanziarie, responsabile, al contrario del primo, di valutazioni direttamente coinvolte nella decisione, oggetto della delibera illegittima, di individuazione contra legem del quantum della imposta comunale.
Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte d'Appello di Salerno per nuovo esame della posizione del ricorrente D. da effettuarsi in coerenza con la mancata contestazione allo stesso del rilascio di un parere illegittimo e nel rispetto dei principi anche generali appena ricordati.
9. Il ricorso di C.C.S. è invece infondato.
Con riguardo alla prima doglianza diretta a lamentare la mancanza del dolo, va ricordato che, ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo nel delitto di abuso di ufficio di cui all'art. 323 c.p., non è sufficiente né il dolo eventuale, ovvero l'accettazione del rischio del verificarsi dell'evento, né quello diretto, ovvero la rappresentazione dell'evento come realizzabile con un elevato grado di probabilità o addirittura con certezza, senza essere un obiettivo perseguito, ma è richiesto il dolo intenzionale, e cioè la rappresentazione e la volizione dell'evento di danno altrui o di vantaggio patrimoniale, proprio o altrui, come conseguenza diretta e immediata della condotta dell'agente e obiettivo primario da costui perseguito (cfr., tra le altre, Sez. 6, n. 3039 del 03/12/2010, Marotta e altri, Rv. 249706; Sez. 6, n. 10390 del 24/01/2008, Magaldi e altro, Rv. 238927; Sez. 6, n. 35859 del 07/05/2008, P.G. in proc. Po, Rv. 241210; Sez. 6, n. 21091 del 24/02/2004, Percoco, Rv. 228811); in altri termini, lo stesso uso, da parte della norma, dell'avverbio "intenzionalmente" per qualificare il dolo implica che il reato sussista solo quando l'agente si rappresenta e vuole l'evento di danno altrui o di vantaggio patrimoniale proprio o altrui come conseguenza diretta ed immediata della sua condotta e come obiettivo primario perseguito, e non invece quando egli intende perseguire l'interesse pubblico come obiettivo primario (Sez. 6, n. 708 del 08/10/2003, Mannello Rv. 227280).
Da ciò deriva che quando l'evento tipico sia una semplice conseguenza accessoria dell'operato dell'agente, il quale persegue in via primaria l'obiettivo dell'interesse pubblico di preminente rilievo, riconosciuto dall'ordinamento e idoneo ad oscurare il concomitante favoritismo o danno per il privato, si può ritenere che l'evento sia voluto ma non intenzionale (Sez. 6 n. n. 21091 del 2004 cit.) occupando, come è stato sottolineato in dottrina, una posizione defilata, e rappresenta soltanto un effetto secondario della condotta posta in essere, avendo il legislatore inteso attribuire rilievo penale esclusivamente alle condotte ispirate in via immediata non dalla volontà accettante (caratteristica del dolo eventuale) ma dalla prava voluntas del favoritismo privatistico.
Ove invece manchi l'interesse pubblico e l'evento illecito sia conseguenza immediatamente perseguita dal soggetto attivo, l'accertamento del dolo intenzionale si esaurisce nella oggettiva verifica del favoritismo posto in essere con l'abuso dell'atto d'ufficio, senza che rilevi la motivazione che abbia indotto l'agente a perseguire, come fine della condotta, la realizzazione del reato; né è necessaria la prova della collusione del pubblico ufficiale con i beneficiari dell'abuso.
Nei casi, poi, di concorrente verificazione di un evento lecito e di uno illecito, occorrerà accertare quale di questi abbia costituito l'obiettivo principale della condotta del soggetto; occorrerà cioè indagare quale sia l'evento preso di mira, ossia l'evento desiderato come primario dall'agente, essendo caratteristica del dolo intenzionale quella di agire allo scopo di produrre l'effetto previsto, essendo la direzione della volontà rivolta verso un evento assunta quale scopo finale della condotta.
Anche recentemente questa Corte ha ribadito come il dolo intenzionale non sia escluso dalla finalità pubblica perseguita dall'agente, potendosene apprezzare l'insussistenza solo quando il soddisfacimento degli interessi pubblici prevalga sugli interessi privati, mentre è integrato qualora il fine pubblico rappresenti una mera occasione o un pretesto per occultare la commissione della condotta illecita (Sez. 3, n. 13735 del 26/02/2013, Pc in proc. Fabrizio, Rv. 254856).
Sicché, per escludere la configurabilità dell'elemento soggettivo, è necessario che il perseguimento del pubblico interesse costituisca l'obiettivo principale dell'agente, con conseguente degradazione del dolo di danno o di vantaggio da dolo di tipo intenzionale a mero dolo diretto od eventuale (Sez. 6, n. 7384 del 19/12/2011, Rv. 252498).
Ciò posto, nella specie la Corte territoriale ha, con motivazione congrua e logica, ed in tal modo sottratta al sindacato di questa Corte, posto in evidenza gli indici ritenuti sintomatici della sussistenza del dolo intenzionale; in tal senso ha evidenziato in primo luogo l'assoluta evidenza della violazione di legge in cui è incorsa la delibera, sostanzialmente non contestata neppure dal ricorrente, e consistita nella inosservanza di una norma di legge (art. 11 quaterdecies, comma 16, del d.l. del 30/09/2005, n. 203, convertito in legge 02/12/2005, n. 248) di "interpretazione autentica" e di significato inequivoco, secondo la quale “ai fini dell'applicazione del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, la disposizione prevista dall'art. 2, comma 1, lettera b) dello stesso decreto si interpreta nel senso che un'area è da considerare comunque fabbricabile se è utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale, indipendentemente dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo”.
La sentenza impugnata ha poi evidenziato: il sostanziale "sconfinamento" della Giunta rispetto alle proprie attribuzione e l'esercizio, invece, di poteri esclusivi del giudice tributario, stante la declaratoria di "annullamento o rettifica degli avvisi di accertamento lei eventualmente emessi dall'Arit Srl per tutte le annualità accertate", sino ad invitare la stessa Arit a restituire le somme eventualmente già riscosse a seguito degli avvisi di accertamento lei; il dato temporale rappresentato da una condotta significativamente posta in essere a mandato scaduto e nell'imminenza delle elezioni amministrative; l'assenza di ragioni che imponessero di dare soluzione, con urgenza, ad una questione di particolare rilevanza, soluzione che, comunque, avrebbe dovuto essere data non certo nella fase terminale della gestione politica ed amministrativa e comunque nel rispetto dei criteri di eguaglianza, legalità ed imparzialità, tanto più mancante in quanto la decisione in oggetto non venne estesa agli altri terreni, come quelli dell'Alsia, che, pure, condividevano la stessa sorte di quelli oggetto della delibera e che, pertanto vennero discriminati; l'impossibilità di invocare favorevolmernte profili di inesperienza od imperizia, attesa il patrimonio culturale dei componenti della Giunta ed il ruolo istituzionale da essi svolto.
Di contro, le doglianze del ricorrente, lungi dal porre in seria discussione il percorso logico - argomentativo della sentenza impugnata, ed oltre ad essere caratterizzate, per certi versi, da una sostanziale ed inammissibile attinenza a questioni puramente fattuali, quali: il rapporto tra l'Alsia (l'ente di sviluppo agricolo a suo tempo costituito con l'assegnazione delle terre ai contadini) ed i privati beneficiari; l'ingiustizia sostanziale nella quale versavano questi ultimi rispetto alla norma assunta come violata; l'assenza di una adeguata professionalità degli imputati, ripropongono assunti già compiutamente vagliati e disattesi dai giudici di appello.
10. Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso.
Va anzitutto ritenuta l'improprietà del richiamo ad una pretesa natura "extrapenale" della legge la cui violazione, come visto, è stata addebitata alla Giunta di cui C. faceva parte.
Infatti, le norme di legge o di regolamento la cui violazione integra la fattispecie incriminatrice ex art. 323 c.p. contribuiscono, per ciò stesso, a delineare i confini del precetto, con la conseguenza che le disposizioni normative richiamate non hanno natura di norme extrapenali, poiché l'art. 323 c.p., obbligando al rispetto delle leggi e dei regolamenti nell'esercizio del pubblico ufficio, recepisce le regole alle quali deve uniformarsi l'attività dei singoli pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio (Sez. 6, n. 5117 del 19/12/2000, Aliberti, Rv. 217862). Del resto, ai sensi dell'art. 47 c.p., legge diversa dalla penale è quella destinata in origine a regolare rapporti giuridici di carattere non penale e non esplicitamente incorporata in una norma penale o da questa non richiamata anche implicitamente, con la conseguenza che deve essere considerato errore sulla legge penale, e quindi inescusabile, sia quello che cade sulla struttura del reato, sia quello che incide su norme, nozioni e termini propri di altre branche del diritto, introdotte nella norma penale ad integrazione della fattispecie criminosa (Sez. 4, n. 37590 del 07/07/2010, P.G. in proc. Barba, Rv. 248404; Sez. 6, n. 7817 del 18/11/1998, Benanti, Rv. 214730).
Ciò chiarito, ai fini dell'invocata esclusione della colpevolezza, e pur a fronte, dunque di norma di natura penale, il ricorrente ha, come visto, evocato la difficoltà interpretativa della disciplina, ritenuta perdurante al momento della condotta, come comprovato dal fatto che le Sezioni Unite civili di questa Corte si sarebbero pronunciate a tal proposito dopo l'adozione della delibera incriminata.
I giudici di appello hanno, tuttavia, sul punto, adeguatamente argomentato in ordine alla insussistenza di un errore inevitabile sulla legge penale posto che lo stesso legislatore, ricorrendo ad una norma di interpretazione autentica, aveva, già alla data del 25 maggio 2006, di adozione della delibera, fugato ogni dubbio ermeneutico, di guisa che a tale momento doveva ritenersi incontrovertibile che i terreni "de quibus", in quanto aree fabbricabili in base ad un P.R.G. regolarmente emesso ed approvato, dovessero soggiacere al pagamento dell'ICI relativa a detta destinazione.
Da ciò la Corte territoriale ha correttamente dedotto come non potesse appunto essere invocato il reclamato errore inevitabile sulla legge penale, difettando un autentico contrasto giurisprudenziale (neppure oggetto, a ben vedere, della decisione n. 25506 del 30/11/2006 delle Sezioni Unite civili) e potendo quindi i soggetti attivi del reato, qualora avessero fatto uso dell'ordinaria diligenza ed assolto l'obbligo di informazione e conoscenza dei precetti normativi, agevolmente accertare l'inequivoco assetto giuridico della questione ed uniformare ad esso le loro decisioni.
11. Quanto all'ultimo motivo di ricorso, ovvero la mancata integrazione dell'evento del reato rappresentato dal vantaggio ingiusto, la Corte territoriale appare avere fatto corretta applicazione del principio della cosiddetta "doppia ingiustizia", nel senso che ingiusta deve essere la condotta posta in essere dal pubblico ufficiale, perché connotata da violazione di norme di legge o di regolamento ovvero da omessa astensione nei casi previsti, e ingiusto deve essere l'evento (ingiusto vantaggio patrimoniale per sé o per altri ovvero danno ingiusto per altri) sicché il danno o il vantaggio, per essere rilevanti, non solo devono essere prodotti non iure ma devono di per sé essere contra ius, nel senso che il risultato dell'azione deve essere tale da violare una norma giuridica e l'ingiustizia del danno arrecato o del vantaggio procurato deve essere valutata in base al diritto oggettivo regolante la materia e non in base alle considerazioni dell'agente (tra le altre, Sez. 6, n. 1733 del 14/12/2012, Amato, Rv. 254208; Sez. 2, n. 2754 del 11/12/2009, P.G. in proc. Fiori, Rv. 256262; Sez. 5, n. 16895 del 02/12/2008, D'Agostino, Rv. 243327; Sez. 6, n. 35381 del 27/06/2006, Moro, Rv. 234832).
Ciò posto, appare esente da censure la conclusione della Corte territoriale secondo cui il comportamento abusivo degli imputati ha certamente procurato un vantaggio non conforme al diritto, e dunque ingiusto, perché ai proprietari dei terreni non spettava appunto di corrispondere l'ICI in misura ridotta (quali proprietari di aree agricole anziché di aree, dove insistevano i terreni de quibus, fabbricabili), e di carattere patrimoniale, posto che, come più volte affermato da questa Corte, il requisito del vantaggio patrimoniale del reato di abuso d'ufficio va riferito al complesso dei rapporti giuridici a carattere patrimoniale e sussiste non solo quando l'abuso procuri beni materiali o altro, ma anche quando arrechi un accrescimento della situazione giuridica soggettiva a favore di colui nel cui interesse l'atto è stato posto in essere (tra le altre, Sez. 6, n. 12370 del 30/01/2013, Baccherini, Rv. 256004; Sez. 6, n. 43302 del 27/10/2009, Rocca, Rv. 244945; Sez. 6, n. 37531 del 14/06/2007, Serione e altri, Rv. 238028). Ciò che rileva, è in definitiva, che dalla condotta abusiva scaturisca un ingiusto ampliamento della sfera patrimoniale del soggetto avvantaggiato, che contra ius vede accresciuta la propria situazione giuridica attiva.
E su tale aspetto la sentenza impugnata ha adeguatamente spiegato come l'ingiusto vantaggio procurato sia consistito nell'essere stati i terreni esentati dalla tassazione ICI come aree fabbricabili e sottoposti invece a tassazione ridotta come terreni agricoli, con conseguente ed indebito risparmio di spesa fiscale per i destinatari dell'atto che, per tale motivo, hanno beneficiato in concreto degli effetti di un provvedimento amministrativo giuridicamente esistente, essendo indifferente, proprio in virtù dei principi appena richiamati sopra, l'intervenuto o meno pagamento del tributo, ed indifferente la misura dello stesso, se cioè piena o ridotta, essendo, in tali casi, l'ampliamento della situazione giuridica, conseguente all'adozione della delibera.
12. In definitiva, il ricorso di C.C.S. va rigettato con conseguente condanna dello stesso al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di D.R.L. con rinvio alla Corte d'Appello di Salerno. Rigetta il ricorso di C.C. Sabatino che condanna al pagamento delle spese processuali.
20-04-2014 21:09
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