Imprenditore edile condannato per aver cagionato, mediante l’abuso di strumenti di lavoro, anche di notte, la diffusione di rumori estremamente molesti per i residenti nella zona circostante allo stabilimento, senza adottare modalità che limitassero la produzione di rumori.
Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 18 dicembre 2013 – 14 marzo 2014, n. 12274
Presidente Giordano – Relatore La Posta
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 24.9.2012 la Corte di appello di Trieste confermava la decisione con la quale il Tribunale di Pordenone, a seguito dell'opposizione a decreto penale, condannava A.O. e M.C. alla pena di mesi due di arresto, convertita nella sanzione sostitutiva di euro 10.500 di ammenda ciascuno, in relazione al reato continuato di cui all'art. 659 comma primo cod. pen., per avere, nella qualità di titolare e legale rappresentante della «MAEG costruzioni s.p.a.», realizzando manufatti di carpenteria metallica pesante, mediante l'abuso di strumenti di lavoro, cagionato e non impedito la diffusione anche di notte di emissioni rumorose gravemente moleste per le persone residenti nella zona circostante lo stabilimento ed, in specie, non impedendo e consentendo la prosecuzione dell'attività lavorativa senza adozione di modalità che limitassero la produzione di rumori.
2. Hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati, a mezzo del difensore di fiducia, con il medesimo atto con il quale, con un unico motivo, denunciano la violazione di legge ed il vizio della motivazione della sentenza impugnata avuto riguardo alla esclusione della configurabilità del reato di cui all'art. 659 comma secondo cod. pen. e non della fattispecie prevista dal primo comma.
Il discrimine tra le due ipotesi è segnato dal superamento dei rumori tipici dell'attività che comporta il disturbo delle occupazioni del riposo delle persone. Rilevano, quindi, i ricorrenti che tutti i testimoni esaminati in dibattimento hanno descritto i rumori provenienti dall'opificio come propri dell'attività svolta che al più possono configurare un illecito amministrativo. Infatti, non è stato accertato alcun elemento oggettivo che possa far ritenere sussistente la fattispecie in contestazione, posto che tutti i rumori percepiti dalle persone offese ed anche dalla polizia giudiziaria sono stati indicati come propri dell'attività produttiva. Non si comprende, quindi, da quali circostanze la Corte d'appello, così come il giudice di primo grado, abbia tratto il convincimento che il disturbo alle persone sia riconducibile ad un abuso dell'attività propria dell'impresa.
Del resto, lo stabilimento si trova in zona destinata a insediamenti produttivi ed ha ricevuto tutte le autorizzazioni previste dalla legge per svolgere l'attività in detta zona.
I ricorrenti lamentano, altresì, che la Corte di merito ha ritenuto rilevanti alcune testimonianze a discapito di altre senza adeguata motivazione.
Ritengono errata la decisione impugnata anche in ordine all'esclusione dell'applicabilità della normativa relativa alle modalità di accertamento della normale tollerabilità, sempre sul presupposto non accettato che i rumori siano realizzati dall'abuso della attività. Reclamano, quindi, una valutazione che, pur non entrando nel merito, esamini gli elementi di prova legittimamente acquisiti agli atti del processo dai quali doveva discendere l'accoglimento dell'appello.
Considerato in diritto
Il ricorso, ad avviso del Collegio, deve essere dichiarato inammissibile.
La Corte di appello ha ritenuto corretta l'affermazione di responsabilità alla luce delle valutazioni del primo giudice, in particolare con riferimento alla fattispecie contestata di cui all'art. 659 comma primo cod. pen.. Ha, infatti, ritenuto accertato che il disturbo non fosse arrecato dal normale esercizio dell'attività in oggetto, bensì, dallo svolgimento dell'attività lavorativa con modalità improprie.
Ad avviso della Corte d'appello, era emerso inequivocabilmente che i responsabili della società consentivano la lavorazione anche in orari notturni ed all'aria aperta, o in zona confinante con le abitazioni civili, anziché all'interno degli immobili industriali. L'asserita esecuzione delle lavorazioni secondo i parametri del normale esercizio di mestiere rumoroso risultava oggettivamente smentita dalle circostanze riferite dai testimoni, anche indicati dalla difesa, e delle modalità con le quali la società è stata poi in grado di contenere adeguatamente le emissioni rumorose come prospettato dagli stessi imputati.
Tale ricostruzione fattuale, inferita dai giudici di merito dalle circostanze emerse nel processo, viene contestata dai ricorrenti che prospettano una diversa valutazione delle prove acquisite ed, in particolare, di quanto riferito dai testimoni esaminati avuto riguardo alla provenienza dei rumori ed alla riconducibilità degli stessi ad un abuso dell'attività produttiva.
All'evidenza, quindi, il ricorso prospetta una rivalutazione degli elementi di prova non ammissibile nel giudizio di legittimità. Peraltro, le circostanze riferite dai testimoni, solo parzialmente richiamate dai ricorrenti, ma non sono state allegate integralmente con palese carenza dell'autosufficienza del ricorso.
Le circostanze che i giudici di merito, di primo e secondo grado, hanno indicato come accertate consentono di ritenere sussistente la fattispecie sanzionata dal primo comma dell'art. 659 cod. pen. che non può escludersi sia configurabile, laddove ne siano verificate le condizioni, con riferimento alle attività rumorose.
Correttamente, pertanto, la Corte territoriale ha ritenuto del tutto ininfluente il mancato accertamento del superamento dei limiti di rumorosità previsti dalla normativa specifica, affermando che la fattispecie contestata è configurabile indipendentemente da tale superamento, o essendo, invece, risultata accertata la diffusività, quanto meno potenziale dei rumori, del resto non contestata dai ricorrenti.
Alla declaratoria di inammissibilità segue per legge, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma ritenuta congrua di euro 1.000,00 (mille) ciascuno in favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di mille (1.000,00) euro ciascuno alla cassa delle ammende.
17-03-2014 22:59
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