Finanziere, in concorso con altri, - tenta di costringere un veterinario, durante l'accesso nell'ambulatorio a trovare un accordo e implicitamente lo invita a versare una imprecisata somma di denaro. Arresti domiciliari.
Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 17-04-2014) 24-04-2014, n. 17717
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGINIO Adolfo - Presidente -
Dott. CITTERIO Carlo - Consigliere -
Dott. PETRUZZELLIS Anna - Consigliere -
Dott. APRILE Ercole - rel. Consigliere -
Dott. DE AMICIS Gaetano - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
R.F., nato a (OMISSIS);
avverso l'ordinanza del 07/01/2014 del Tribunale di Palermo;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. APRILE Ercole;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. ANIELLO Roberto, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito per l'indagato l'avv. CLEMENTI Marco, che ha concluso chiedendo l'annullamento dell'ordinanza impugnata.
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1. Con l'ordinanza sopra indicata il Tribunale di Palermo, adito ai sensi dell'art. 309 c.p.p., riformava esclusivamente escludendo la sussistenza della esigenza cautelare di cui all'art. 274 c.p.p., lett. b) e confermava nel resto il provvedimento del 17/12/2013 con il quale il Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale aveva disposto nei confronti di R.F. l'applicazione della misura degli arresti domiciliari in relazione al reato di tentata concussione in danno di A.B..
Rilevava il Tribunale come gli elementi acquisiti durante le indagini - in specie le dichiarazioni rese dalla persona offesa e dal di lui genitore, il contenuto delle intercettazioni telefoniche ed ambientali eseguite dagli inquirenti e le parziali ammissioni rese dagli indagati - avessero dimostrato la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico del R. in ordine al delitto allo stesso ascritto, per avere, quale finanziere in servizio presso la squadra operativa volante della guardia di finanza di Palermo ed in concorso con il collega I.T., tra il 08 ed il 09/05/2013, abusando della sua qualità, compiuto atti idonei diretti a costringere l' A. "a trovare un accordo" e, dunque, implicitamente a versare loro una imprecisata somma di denaro; e come i medesimi elementi avessero provato l'esistenza delle esigenze connesse ai pericoli di inquinamento probatorio e di recidiva, fronteggiabili adeguatamente con la misura cautelare applicata degli arresti domiciliari.
2. Avverso tale ordinanza ha presentato ricorso il R., con atto sottoscritto dal suo difensore avv. Clementi Marco, il quale ha dedotto i seguenti quattro motivi.
2.1. Violazione di legge, in relazione all'art. 546 c.p.p. e art. 110 c.p. e mancanza di motivazione, per avere il Tribunale del riesame omesso di valutare le dichiarazioni rese dal coindagato I., che aveva scagionato il R., e per non avere debitamente considerato che - come pure confermato dalle stessa persona offesa - il secondo non aveva fornito alcun contributo causale alla commissione del contestato reato tentato, sostanzialmente limitandosi ad accompagnare il collega nella visita nello studio veterinario dell' A. e, perciò, dando luogo ad una forma di connivenza non punibile.
2.2. Violazione di legge, in relazione all'art. 56 c.p., comma 3 e vizio di motivazione, per manifesta illogicità e travisamento della prova, per avere il Tribunale di Palermo ingiustificatamente sminuito le dichiarazioni rese in sede di interrogatorio dal R., il quale aveva riferito di avere solo accettato di accompagnare l'amico I. nello studio veterinario dell' A., dove doveva portare il suo cane, e di avere poi richiesto all' I. di tornare il giorno dopo in quello studio raccomandandogli di comunicare all' A. che "era tutto a posto", che la "cosa sarebbe finità lì", perchè quella "cosa non la voleva fare"; e per avere, in conseguenza, erroneamente escluso che la condotta del R. non fosse punibile, avendo integrato solamente una ipotesi di desistenza dall'intento delittuoso.
2.3. Violazione di legge, in relazione all'art. 125 c.p.p., comma 3 e mancanza di motivazione, per avere il Collegio del riesame omesso di valutare la specifica doglianza difensiva formulata con una memoria depositata in udienza, con la quale era stata rappresentata l'impossibilità di configurare un reato contestato come commesso con "abuso di poteri", dato che i due finanzieri avevano posto in essere una condotta che non rientrava nelle loro competenze, e per avere il Tribunale ingiustificatamente riqualificato il fatto come commesso con "abuso di qualità".
2.4. Violazione di legge, in relazione all'art. 274 c.p.p., lett. c), per avere i Giudici del riesame incomprensibilmente desunto un pericolo di recidiva dalla "spregiudicatezza" manifestata dall'indagato, che le carte del procedimento non avevano affatto dimostrato, e senza tenere conto che il R., che si era presentato in quello studio in borghese e solo per accompagnare un amico, è stato nel frattempo sospeso dal servizio.
3. Ritiene la Corte che il ricorso sia inammissibile.
3.1. I primi due motivi del ricorso, strettamente connessi tra loro e, perciò, esaminabili congiuntamente, sono inammissibili in quanto presentati per fare valere ragioni diverse da quelle consentite dalla legge.
Lungi dall'evidenziare reali violazioni di legge ovvero manifeste lacune o incongruenze capaci di disarticolare l'intero ragionamento probatorio adottato dai giudici di merito, il ricorrente ha formulato censure che riguardano sostanzialmente la ricostruzione dei fatti ovvero che si risolvono in una diversa valutazione delle circostanze già valutate dal Tribunale del riesame: censure, come tali, non esaminabili dalla Cassazione. Ed infatti, è pacifico come il controllo dei provvedimenti di applicazione della misure limitative della libertà personale sia diretto a verificare la congruenza e la coordinazione logica dell'apparato argomentativo che collega gli indizi di colpevolezza al giudizio di probabile colpevolezza dell'indagato, nonchè il valore sintomatico degli indizi medesimi anche in relazione alla sussistenza di esigenze cautelari e alla scelta di una misura adeguata alle medesime esigenze e proporzionata ai fatti. Controllo che non può comportare un coinvolgimento del giudizio ricostruttivo del fatto e gli apprezzamenti del giudice di merito in ordine all'attendibilità delle fonti ed alla rilevanza e concludenza dei risultati del materiale probatorio, quando la motivazione sia adeguata, coerente ed esente da errori logici e giuridici.
Questa Corte ha, dunque, il compito di verificare se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l'hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario e l'esistenza di bisogni di cautela a carico dell'indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano l'apprezzamento delle risultanze probatorie, nella peculiare prospettiva dei procedimenti incidentali de libertate (si veda, ex multis, Sez. U, n. 11 del 22/03/2000, Audino, Rv.
215828). E ciò vale anche laddove venga posto un mero problema di interpretazione delle frasi e del linguaggio usato dai soggetti interessati a conversazioni intercettate, che è questione di fatto, rimessa all'apprezzamento del giudice di merito, che si sottrae al giudizio di legittimità se - come nella fattispecie è accaduto - la valutazione risulta logica in rapporto alle massime di esperienza utilizzate (Sez. 6^, n. 17619 del 08/01/2008, Gionta, Rv. 239724).
Alla luce di tali regulae iuris, bisogna riconoscere come i giudici di merito abbiano dato puntuale contezza degli elementi indiziari sui quali si fonda il giudizio in ordine alla sussistenza tanto dei gravi indizi di colpevolezza: avendo il Tribunale spiegato, con motivazione adeguata e priva di vizi di manifesta illogicità, come fosse pienamente attendibile la versione, peraltro riscontrata da altre dichiarazioni e da elementi obiettivi, fornita dalla persona offesa A. il quale aveva riferito di avere ricevuto dapprima l'avvertimento da un amico, tale S.G. (che poi si sarebbe scoperto aver agito d'intesa con i due militari), che, con un atteggiamento larvatamente minatorio, gli aveva preannunciato una "visita" della guardia di finanza, aggiungendo che delle "amicizie gli sarebbe tornate utili"; e, qualche giorno dopo, di avere ricevuto nel suo studio veterinario la visita di due uomini in borghese uno dei quali, qualificatosi come "capitano", gli aveva prospettato possibili futuri pregiudizi dicendogli che "la sua situazione era grave"; analoghi riferimenti minatori gli erano stati ripetuti il giorno dopo dal "capitano", allorquando lo stesso si era presentato nuovamente con l'atro compagno in borghese, ma entrambi accompagnati da un finanziere in divisa che aveva effettuato una sommaria ispezione dei locali. Elementi fattuali dai quali il Tribunale ha congruamente ed in maniera logicamente condivisibile desunto che i due finanziari in borghese, l' I. (il "capitano" che aveva preso la parola) ed il R. avessero, d'intesa tra loro e con altri, posto in essere quel tentativo concussivo, con una iniziativa che - come era stato possibile comprendere dalle successive captazioni di conversazioni che avevano visto protagonisti lo S., l' I. ed altri) era stata interrotta dalla presa di posizione della vittima la quale, con fermezza, aveva fatto sapere di non avere nulla da temere da un controllo della guardia di finanza; e che la fondatezza dell'ipotesi accusatoria a carico del R. - il quale, in maniera poco attendibile, aveva sostenuto di essersi limitato, in buona fede, ad accompagnare l'amico Imparato in quello studio - era risultata corroborata sia dal fatto che non era credibile che l' I., dovendosi recare in quel luogo per formulare una richiesta concussiva, avesse deciso di farsi accompagnare da un ignaro R., che dal fatto che quest'ultimo fosse tornato nello studio dell' A. anche il giorno successivo, in compagnia sia del coindagato che di un altro collega, rimasto non identificato, nell'occasione presentatosi con la divisa di finanziere (v. pagg. 2-5 ord. impugn.).
In tale contesto non è neppure ravvisabile alcuna delle violazioni di legge indicate dal ricorrente: non quella dell'art. 110 c.p., poichè, pur in presenza di un accertato atteggiamento formalmente silente tenuto dal R. in occasione dei due incontri con la vittima e del maldestro tentativo dell' I. di "scagionare" il compagno, il Tribunale del riesame ha uniformato le proprie determinazioni al consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte secondo il quale, in tema di concorso di persone, mentre la connivenza non punibile postula che l'agente mantenga un comportamento meramente passivo, il concorso può essere manifestato in forme che agevolano la condotta illecita, anche solo assicurando all'altro concorrente nel reato lo stimolo all'azione criminosa, o un maggiore senso di sicurezza nella propria condotta, rendendo in tal modo palese una chiara adesione alla condotta delittuosa (così, tra le molte, Sez. 1^, n. 15023 del 14/02/2006, Piras ed altri, Rv.
234128); e neppure quella dell'art. 56 c.p., comma 3, perchè se è vero che dalla lettura del testo di una conversazione tra presenti intercettata durante le indagini si comprende che il R. avrebbe voluto che l' I. avesse comunicato all' A. "che le cose erano in regola... che il controllo era a posto...", è evidente che questa frase, pronunciata solo il 28/06/2013, oltre un mese e mezzo dopo quelle due visite nello studio veterinario (perciò non nell'intervallo tra le due visite, come il R. ha cercato di far credere nel corso del suo interrogatorio di garanzia), era stata pronunciata dall'odierno ricorrente solamente per il timore che la vittima, che si era oramai rifiutata di dare seguito alla pretesa concussiva, potesse denunciare quanto accaduto: condotta, dunque, nella quale - come correttamente ritenuto dai Giudici di merito - non potevano essere riconosciuti gli estremi di alcuna desistenza volontaria dall'azione, essendo intervenuta quando l'azione criminosa aveva esaurito il suo iter esecutivo (v. pagg. 5-6 ord. impugn.).
3.2. Il terzo motivo del ricorso è manifestamente infondato.
Premesso che è pacifica l'esistenza del potere del Giudice del riesame di dare la corretta qualificazione giuridica ai fatti oggetto di contestazione ai fini cautelari (così, da ultimo, Sez. 6^, n. 18219 del 11/03/2003, Ceglia, Rv. 225216), va osservato che il Tribunale di Palermo ha correttamente e motivatamente chiarito come, pur in presenza di un formale addebito di "abuso di poteri" da parte dell'indagato, i fatti descritti nell'imputazione provvisoria avessero propriamente integrato gli estremi di una tentata concussione con abuso di qualità da parte degli agenti: in questo modo dando implicitamente atto come quella riqualificazione fosse doverosa, essendo stato appurato che il R. aveva tenuto una condotta che, indipendentemente dalle proprie competenze (la cui esistenza, peraltro, è stata messa in discussione in termini molto generici, a fronte di una riconosciuta appartenenza dell'indagato ad una sezione della guardia di finanza che ben avrebbe potuto esercitare funzioni di controllo sull'operato di un libero professionista), si era manifestata quale strumentalizzazione della posizione di preminenza dallo stesso ricoperta nei confronti del privato.
3.3. Il quarto motivo del ricorso è inammissibile per carenza di interesse.
Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo il quale nel sistema processuale penale la nozione di interesse ad impugnare non può essere basata sul mero concetto di soccombenza - a differenza delle impugnazioni civili che presuppongono un processo di tipo contenzioso, quindi una lite intesa come conflitto di interessi contrapposti - ma va piuttosto individuata in una prospettiva utilitaristica, ossia nella finalità negativa, perseguita dal soggetto legittimato, di rimuovere una situazione di svantaggio processuale derivante da una decisione giudiziale, e in quella, positiva, del conseguimento di un'utilità, ossia di una decisione più vantaggiosa rispetto a quella oggetto del gravame, e che risulti logicamente coerente con il sistema normativo (così, di recente, Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011, Marinaj, Rv.
251693). Dunque, l'interesse richiesto dall'art. 568 c.p.p., comma 4, quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste soltanto se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l'eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione immediata più vantaggiosa per l'impugnante rispetto a quella esistente (Sez. U, n. 42 del 13/12/1995, Rv. 203093; Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995, Rv. 202269; Sez. U, n. 6563 del 16/03/1994, Rv. 197535).
Ed allora, non vi è chi non veda come l'odierno ricorrente non abbia un concreto ed attuale interesse a mettere in discussione la motivazione dell'ordinanza gravata nella parte relativa all'affermazione della sussistenza della seconda delle richiamate esigenze di cautela, perchè l'effetto rescindente su tale punto non comporterebbe, comunque, il venir meno della misura cautelare applicata, essendo stata riconosciuta la sussistenza dell'altro bisogno di cautela connesso al rischio di inquinamento probatorio, in ordine al quale nessuna doglianza è stata formulata con l'atto di impugnazione.
Tale soluzione è conforme all'indirizzo esegetico privilegiato dalla giurisprudenza di legittimità, per il quale, in materia di misure cautelari personali, quando il giudice ha fondato la misura su più di una delle esigenze previste dall'art. 274 c.p.p., poichè ciascuna di esse ha rilievo autonomo ed anche alternativo, sono sforniti di interesse quei motivi di gravame che investono una delle esigenze cautelari nell'accertata sussistenza di un'altra. Infatti, in tale situazione, l'eventuale apprezzamento favorevole della doglianza su una delle esigenze non condurrebbe ad un effetto liberatorio a causa della permanenza dell'altra (così, ex multis, Sez. 6^, Sentenza n. 7200 del 08/02/2013, Koci, Rv. 254506; Sez. 1^, n. 480 del 28/01/1998, Cantarmi, Rv. 211117; Sez. 6^, n. 3091 del 25/08/1992, Ligresti, Rv. 191776).
4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento in favore dell'erario delle spese del presente procedimento ed al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma, che si stima equo fissare nell'importo indicato nel dispositivo che segue.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 17 aprile 2014.
Depositato in Cancelleria il 24 aprile 2014
26-05-2014 14:45
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