Correlazione tra accusa e sentenza. Incendio o danneggiamento seguito da incendio.Nuova qualificazione del reato.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 25 settembre 2013 – 16 gennaio 2014, n. 1697
Presidente Palla – Relatore Guardiano
Fatto e diritto
1. Con sentenza pronunciata il 23.9.2011 la corte di appello di Trento confermava la sentenza con cui il giudice per le indagini preliminari di Rovereto, in data 27.1.2010, in sede di giudizio abbreviato, aveva condannato C.I. , imputato dei reati di cui agli artt. 423, 61, n. 2, c.p. (capo a dell'imputazione) e 56, 640, c.p. (capo b dell'imputazione), alla pena ritenuta di giustizia ed al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore della parte civile costituita, "Snow Star s.r.l.".
Il C. era stato riconosciuto colpevole del delitto di incendio, finalizzato alla commissione di una truffa, di un immobile, che aveva locato da tale Z. , allo scopo di esercitarvi un'impresa di ristorazione ("Ristorante (…)"), nonché del delitto di tentata truffa, in quanto, dopo avere stipulato il contratto di locazione, essendosi trovato insolvente nei confronti del proprietario dell'immobile, verso il quale era debitore di canoni arretrati, garantiti da fideiussione per Euro 750.000,00, allo scopo di procurarsi l'ingiusto profitto di eliminare i propri debiti e risolvere la garanzia fideiussoria, compiva atti idonei, diretti in modo non equivoco ad indurre in errore il citato Z. e la compagnia assicuratrice, consistiti nel provocare l'incendio dei locali del ristorante (…), facendo credere che l'incendio in questione, da lui stesso appiccato, fosse stato opera dolosa di terzi, in modo da tacitare le ragioni dello Z. , con la somma prevista a titolo di risarcimento danni nella polizza assicurativa contratta dallo stesso Z. . La sentenza della corte territoriale veniva annullata dalla Corte di Cassazione, in data 14.12.2011, con rinvio per nuovo giudizio alla corte di appello di Brescia.
Osservava il Supremo Collegio che la corte territoriale aveva omesso di considerare alcuni profili, che, invece, andavano valutati dal giudice del rinvio ed, in particolare. 1) l'esistenza della querela, condizione di procedibilità per il reato di tentata truffa; 2) la configurabilità del delitto di incendio; 3) la possibilità di utilizzare, come elemento a carico dell'imputato, l'alibi falso, solo in quanto esso sia fornito nel contesto delle dichiarazioni rese dall'indagato o dall'imputato, vale a dire di un soggetto processuale al quale sia stato contestato un fatto criminoso, in relazione al quale egli si difenda prospettando un alibi che, sottoposto a verifica, risulti falso; 4) la valutazione della cospicua documentazione bancaria e commerciale prodotta dall'imputato, che, in tal modo, intendeva provare di non versare in difficoltà economiche ed anzi dimostrare la propria solvibilità finanziaria e la propria affidabilità commerciale.
Con sentenza pronunciata il 26.4.2012 la corte di appello di Brescia dichiarava non doversi procedere nei confronti del C. per difetto di querela e, riqualificata la condotta di cui al capo a) nel reato di cui all'art. 424, co. 1, c.p., rideterminava in senso più favorevole al reo il trattamento sanzionatorio.
2. Avverso tale sentenza, di cui chiede l'annullamento, ha proposto ricorso per Cassazione il C. , a mezzo del suo difensore di fiducia, articolando distinti motivi di impugnazione.
3. Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta violazione di legge, in relazione agli artt. 521, 522, c.p., 24, 111, 117, Costituzione, 6, paragrafi 1 e 3, lett. A) e B) della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, in quanto la corte territoriale, una volta ritenuta che la condotta del C. integri la fattispecie delittuosa di cui all'art. 424, co. 1, c.p., mutando, in tal modo, gli elementi costitutivi tipici dell'accadimento storico contestato all'imputato, avrebbe dovuto annullare la sentenza di primo grado, con contestuale trasmissione degli atti al pubblico ministero competente, perché si procedesse ad un nuovo giudizio.
Il C. , invece, è stato indebitamente condannato per un reato diverso da quello contestatogli nel capo a), in quanto gli elementi costitutivi del delitto d'incendio sono profondamente diversi, sotto il profilo sia oggettivo che soggettivo, da quelli del reato di danneggiamento seguito da incendio, di cui all'art. 424, co. 1, c.p., in ciò consistendo la denunciata violazione di legge.
4. Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al delitto di cui all'art. 424, co. 1, c.p., per avere la corte territoriale omesso di motivare adeguatamente in ordine alla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato in questione, che richiede il dolo specifico, cadendo, peraltro, in una evidente contraddizione nella parte della motivazione in cui afferma che l'intento dell'imputato era quello di incendiare l'immobile per liberarsi delle sue obbligazioni.
5. Con il terzo motivo di ricorso, il difensore dell'imputato lamenta violazione di legge in relazione all'art. 192, c.p.p., in quanto l'affermazione di responsabilità del C. si fonda su di un quadro indiziario, incentrato sulla circostanza che, come scritto in motivazione, "l'imputato è partito nel corso della notte in cui è stato commesso il delitto di pericolo di incendio da Verona per recarsi nell'area servita dalla cella telefonica che copre anche il locale bruciato e ivi permanere per alcune ore per poi subito rientrare a Verona ancora nella medesima notte", assolutamente inidoneo a fondare l'assunto accusatorio, ove si tenga presente che non è mai stata accertata con sicurezza l'ora in cui venne appiccato il fuoco, evento che potrebbe essersi verificato in un orario precedente ovvero successivo a quello di arrivo e permanenza del C. nella zona.
Né la corte territoriale, evidenzia il ricorrente, ha spiegato come mai il C. sia rimasto in loco per alcune ore, con il rischio di essere notato, laddove per commettere il delitto sarebbero bastati non più di quindici minuti.
6. Con il quarto motivo di impugnazione il ricorrente lamenta vizio di motivazione in ordine all'art. 192, c.p.p., in quanto la corte territoriale ha omesso di considerare, violando il dictum della Suprema Corte sul punto, la documentazione prodotta dall'imputato, dalla quale si evince che la società "I.K. Gesioni s.n.c.", che aveva affittato l'azienda "Bar Ristorante (…)", di cui il C. era socio occulto, garantendo con la fideiussione da lui prestata il pagamento del relativo canone di affitto, aveva conseguito, alla data dell'1.7.2007, un utile di esercizio pari ad oltre 30.000,00, per cui, al pari dello stesso C. e delle altre società a quest'ultimo riferibili, versava in una solida situazione patrimoniale e finanziaria, per cui non sussisteva alcun interesse dell'imputato ad abbandonarla e nessuna impossibilità di corrispondere i canoni di affitto, che non erano stati pagati per meri disguidi amministrativi, trattandosi, peraltro, di solo due canoni, ammontanti ad alcune migliaia di Euro.
7. Il ricorso va rigettato.
8. Infondato appare il primo motivo di ricorso.
Si osserva al riguardo come da tempo nella giurisprudenza di legittimità è stato affermato il principio secondo cui, in tema di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e oggetto della statuizione di sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'”iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (cfr. Cass., sez. un., 19/06/1996, n. 16, Di Francesco).
L'obbligo di correlazione tra accusa e sentenza, pertanto, non può ritenersi violato da qualsiasi modificazione rispetto all'accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell'imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell'imputato: la nozione strutturale di "fatto" contenuta nelle disposizioni in questione, va coniugata, infatti, con quella funzionale, fondata sull'esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, posto che il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere del pubblico ministero) e decisione giurisdizionale (oggetto del potere del giudice) risponde all'esigenza di evitare che l'imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (cfr. Cass., sez. 2, 16/09/2008, n. 38889, D.; Cass., sez. 5, 13/12/2007, n. 3161, P., rv. 238345).
Non ignora, peraltro, questo Collegio, l'affermarsi di un recente orientamento all'interno della giurisprudenza di legittimità, in base al quale, in tema di correlazione tra sentenza ed accusa contestata, la regola di sistema espressa dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo (sentenza 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia), secondo cui, ai sensi dell'art. 6, par. 3, lett. a) e b) della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo sul "processo equo", la garanzia del contraddittorio deve essere assicurata all'imputato anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto operata dal giudice "ex officio", è conforme al principio statuito dall'art. 111 Cost., comma 2, che investe non soltanto la formazione della prova, ma anche ogni questione che attiene la valutazione giuridica del fatto commesso, con la conseguenza che si impone al giudice nazionale una interpretazione dell'art. 521 c.p.p., comma 1 adeguata al "decisum" del giudice Europeo e ai principi costituzionali sopra richiamati (cfr. Cass. sez. 6, 12/11/2008, n. 45807, D., rv 241754). Secondo il Supremo Collegio, in particolare, la qualificazione giuridica del fatto da parte della Corte di Cassazione, diversa da quella attribuita nel giudizio di merito, presuppone sempre l'informazione all'imputato e al suo difensore di tale eventualità. Ciò in quanto le norme della Convenzione Europea, così come interpretate dalla Corte Europea, rivestono il rango di fonti interposte integratrici del precetto di cui all'art. 117 Cost., comma 1, che il giudice italiano deve applicare, a condizione che siano conformi alla Costituzione e siano compatibili con la tutela degli interessi costituzionalmente protetti, per cui non vi è la necessità di un intervento additivo della Corte costituzionale per stabilire che l'imputato e il difensore devono e possono essere messi in grado di interloquire sulla eventualità di una diversa definizione giuridica del fatto là dove essa importi conseguenze in qualunque modo deteriori per l'imputato così da configurare un suo concreto interesse a contestarne la fondatezza.
Tanto era accaduto nel caso esaminato dalla Suprema Corte nella menzionata sentenza n. 45807 del 12.11.2008, in cui la diversa definizione giuridica del fatto aveva comportato la mancata declaratoria di estinzione per prescrizione del reato enunciato nell'imputazione, per cui la Corte stessa, attraverso un'interpretazione dell'art. 521 c.p.p., comma 1, conforme a quanto stabilito dalla Corte Europea e coerente con la previsione di cui all'art. 111 Cost., comma 2, facendo ricorso all'art. 625 bis c.p.p., revocava una sua precedente sentenza, che aveva dato una qualificazione diversa al fatto senza avere consentito alla difesa il contraddicono sulla diversa imputazione, disponendo una nuova trattazione del ricorso.
Nel solco tracciato dalla sentenza "Drassich" si sono inseriti alcuni recenti arresti in cui si ribadisce che una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 521 c.p.p. impone di ritenere che il potere di attribuire alla condotta addebitata all'imputato una nuova e diversa qualificazione giuridica non possa essere esercitato "a sorpresa" ma solo a condizione che vi sia stata una preventiva promozione, ad opera del giudice, del contraddittorio fra le parti sulla "questio iuris" relativa; e ciò anche nel caso in cui la nuova e diversa qualificazione risulti più favorevole per il giudicabile, atteso che la difesa ben può diversamente atteggiarsi (quanto alle opzioni strategiche) e modularsi (sul piano tattico) in rapporto alla differente qualificazione giuridica della condotta, rispetto alla quale, oltre tutto, le emergenze processuali assumono, a loro volta, diversa e nuova rilevanza, dovendo la garanzia del contraddittorio in ordine alle questioni inerenti alla diversa qualificazione giuridica del fatto essere concretamente assicurata all'imputato sin dalla fase di merito in cui si verifica la modifica dell'imputazione (cfr. Cass., sez. 1, 29/04/2011, n. 18590, C; Cass., sez. 6, 19/02/2010, n. 20500, F., rv. 247371).
Orbene non ritiene questo Collegio che i principi affermati dalla giurisprudenza che si richiama alla sentenza "Drassich" si pongano in contrasto con l'orientamento in precedenza consolidatosi in sede di legittimità, che esclude la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza quando nel capo di imputazione siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l'imputato in condizioni di difendersi dal fatto poi ritenuto in sentenza, da intendersi sempre come accadimento storico oggetto di qualificazione giuridica da parte della legge penale, che spetta al giudice individuare nei suoi esatti contorni. Fermo restando, dunque, l'incontestabile potere del giudice di attribuire in sentenza al fatto emergente dalle risultanze processuali una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione, stante la limpida formulazione dell'art. 521 c.p.p., non potendo nessuna interpretazione costituzionalmente adeguata di tale disposizione normativa tradursi in una interpretazione abrogatrice della disposizione medesima, il rispetto della regola del contraddittorio, che deve essere assicurato all'imputato anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto operata dal giudice nell'esercizio del potere-dovere che gli è proprio, conformemente alla previsione dell'art. 111 Cost., comma 2, secondo la lettura integrata alla luce dell'art. 6, par. 3, lett. a) e b) della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo, come interpretato dalla CEDU, fatta propria dalla più recente giurisprudenza, impone esclusivamente che tale diversa qualificazione giuridica non avvenga "a sorpresa", determinando conseguenze negative per l'imputato (e, quindi, fondando un suo concreto interesse ad ottenerne la rimozione), che, per la prima volta, e senza mai avere avuto la possibilità di interloquire sul punto, si trovi di fronte ad un fatto storico radicalmente trasformato in sentenza nei suoi elementi essenziali, al punto tale, cioè, da imporre una diversa e nuova definizione giuridica del fatto medesimo, rispetto a quanto contestato, in punto di fatto e di diritto, nell'imputazione, di cui rappresenta uno sviluppo inaspettato. Condizione che non si verifica in due occasioni.
Da un lato, quando l'imputato o il suo difensore abbia avuto nella fase di merito la possibilità comunque di interloquire in ordine al contenuto dell'imputazione. Dall'altro quando la diversa qualificazione giuridica appare come uno dei possibili (si potrebbe dire "non sorprendenti") epiloghi decisori del giudizio (di merito o di legittimità), stante la riconducibilità del fatto storico, di cui è stata dimostrata la sussistenza all'esito del processo e rispetto al quale è stato consentito all'imputato o al suo difensore l'effettivo esercizio del diritto di difesa, ad una limitatissima gamma di previsioni normative alternative, per cui l'eventuale esclusione dell'una comporta, inevitabilmente, l'applicazione dell'altra, non corrispondendo, in tale ipotesi, alla diversa qualificazione giuridica, una sostanziale immutazione del fatto, che, integro nei suoi elementi essenziali, può essere diversamente qualificato secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, (cfr. Cass., sez. V, 24.9.2012, n. 7984, Jovanovic, rv. 254648).
Orbene tali circostanze ricorrono entrambe nel caso in esame. Ed invero il ricorrente ha avuto la possibilità di interloquire nella fase di merito in ordine alla diversa qualificazione giuridica del fatto originariamente contestato operata in sentenza dalla corte territoriale, posto che, come evidenzia lo stesso giudice del rinvio, il compito assegnatogli in sede di annullamento dal Supremo Collegio era stato proprio quello di verificare se nella condotta oggetto di contestazione fossero ravvisabili gli estremi del reato di incendio, di cui all'art. 423, c.p., ovvero del delitto di danneggiamento di cosa altrui, seguito da incendio, di cui ai primi due comma dell'art. 424, c.p., compito che la corte di appello di Brescia assolveva puntualmente, spiegando, con motivazione approfondita ed immune da vizi, le ragioni per cui nel caso di specie non potesse parlarsi di incendio, secondo la previsione del citato art. 423, c.p., ma solo di danneggiamento seguito da pericolo di incendio (art. 424, co. 1, c.p.), ipotesi di reato meno grave (cfr. pp. 7-9 dell'impugnata sentenza). Allo stesso modo appare evidente come la diversa qualificazione giuridica del delitto di cui all'art. 423, c.p., originariamente contestato, in quello di cui all'art. 424, co. 1, c.p., deve ritenersi, a fronte di un fatto che rimane assolutamente identico nei suoi elementi essenziali, un epilogo decisorio assolutamente prevedibile, proprio perché la condotta dell'imputato, come accertata sulla base delle risultanze processuali e come ritenuto dalla stessa Corte di Cassazione, non poteva che essere ricondotta, anche alla luce delle regole dell'esperienza, ad uno dei due paradigmi normativi alternativamente descritti dall'art. 423, c.p. ovvero dall'art. 424, c.p..
9. Del pari infondato appare anche il secondo motivo di ricorso. Il discrimine tra il reato di danneggiamento seguito da incendio (art. 424 c.p.) e quello di incendio (art. 423 c.p.) è segnato dall'elemento psicologico del reato. Nell'ipotesi prevista dall'art. 423 c.p. esso consiste nel dolo generico, cioè nella volontà di cagionare un incendio, inteso come combustione di non lievi proporzioni, che tende ad espandersi e non può facilmente essere contenuta e spenta. Il reato di cui all'art. 424 c.p. è, invece, caratterizzato dal dolo specifico, consistente nel voluto impiego del fuoco al solo scopo di danneggiare, senza la previsione che ne deriverà un incendio con le caratteristiche prima indicate o il pericolo di siffatto evento (cfr. Cass., sez. I, 07/05/2003, n. 25781 S. e altro).
Sussiste, pertanto, il delitto di incendio di cui all'art. 423 c.p. quando l'azione di appiccare il fuoco è finalizzata a cagionare l'evento con fiamme che per le loro caratteristiche e per la loro violenza tendano a propagarsi in modo da creare effettivo pericolo per la pubblica incolumità. Viceversa sussiste il delitto di danneggiamento seguito da incendio allorché il fatto viene realizzato con il solo intento e cioè con il dolo specifico di danneggiare la cosa altrui. Solo nell'ipotesi in cui l'agente, pur proponendosi di danneggiare la cosa altrui, tuttavia per i mezzi usati e per la vastità e le dimensioni del risultato raggiunto, ha realizzato un incendio di proporzioni tali da mettere in pericolo la pubblica incolumità, deve rispondere del delitto di incendio doloso e non già del meno grave reato di danneggiamento seguito da incendio (cfr. Cassazione penale, sez. I, 14/03/1995, n. 4506, Baldo). Ne consegue, per converso, che quando ciò non si verifica, come nel caso in esame, in cui è stata esclusa dalla corte territoriale l'esistenza di un incendio tale da mettere in pericolo la pubblica incolumità, la condotta del soggetto agente non può che essere sorretta dal dolo specifico di danneggiare la cosa altrui, la cui sussistenza emerge per tabulas dalla dimostrata riconducibilità in capo al C. della condotta volta ad appiccare il fuoco al ristorante (…).
10. Inammissibili, infine, devono ritenersi il terzo ed il quarto motivo di ricorso.
Essi, infatti, si risolvono nella esposizione di censure che si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicità tali da evidenziare la sussistenza di ragionevoli dubbi, ricostruzione e valutazione, quindi, in quanto tali precluse in sede di giudizio di cassazione (cfr. Cass., sez. I, 16.11.2006, n. 42369, De Vita, rv. 235507; Cass., sez. VI, 3.10.2006, n. 36546, Bruzzese, rv. 235510; Cass., sez. III, 27.9.2006, n. 37006, Piras, rv. 235508). Ed invero non può non rilevarsi come il controllo del giudice di legittimità, pur dopo la novella dell'art. 606, c.p.p., ad opera della L. n. 46 del 2006, si dispiega, pur a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi atti del processo, e di una correlata pluralità di motivi di ricorso, in una valutazione necessariamente unitaria e globale, che attiene alla reale esistenza della motivazione ed alla resistenza logica del ragionamento del giudice di merito, essendo preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (cfr. Cass., sez. VI, 26.4.2006, n. 22256, Bosco, rv. 234148).
9. Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso proposto nell'interesse del C. va, dunque, rigettato, ai sensi dell'art. 615, co. 2, c.p.p., con condanna del ricorrente, giusto il disposto dell'art. 616, c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento, nonché alla rifusione, in favore della parte civile costituita delle spese del presente giudizio di legittimità, che, ai sensi del decreto del Ministro della Giustizia 20 luglio 2012 n. 140, "Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della giustizia, si fissano in complessivi Euro 1500,00, oltre accessori come per legge.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione di quelle sostenute dalla parte civile, liquidate in complessivi Euro 1500,00, oltre accessori come per legge.
18-01-2014 11:04
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