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Sentenza

Consigliere regionale ligure ai domiciliari. Ricorre in Cassazione sostenendo che essendo stato eletto dal popolo non può subire una misura coercitiva. La Cassazione rigetta il ricorso del consigliere.
Consigliere regionale ligure ai domiciliari. Ricorre in Cassazione sostenendo che essendo stato eletto dal popolo non può subire una misura coercitiva. La Cassazione rigetta il ricorso del consigliere.
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 15 aprile – 15 maggio 2014, n. 20405
Presidente Garribba – Relatore Citterio

Considerato in fatto

1. Avverso l'ordinanza con cui in data 23-24.1.14 il Tribunale di Genova ha confermato la misura cautelare domiciliare applicatagli dal locale GIP il 7.1.2014 per reati di peculato e falso, in relazione all'uso dei contributi regionali per l'attività politica del gruppo IDV al Consiglio regionale della Liguria, ricorre per cassazione, a mezzo dei difensori, N.S. (già capogruppo e attualmente consigliere regionale in diversa forza politica), enunciando unico motivo di violazione ed erronea applicazione degli artt. 274.1 lett. C e 275 c.p.p..
Argomenta che le esigenze cautelari indicate dal Riesame (quella di inquinamento probatorio, in relazione all'artificiosa predisposizione di aggiustamenti documentali del rendiconto del gruppo IDV; quella del pericolo di reiterazione di reati della medesima specie in relazione al permanente inserimento nel Consiglio regionale) mancherebbero di concretezza. Quanto alla prima, richiama l'apprezzamento contrario dei GIP, che aveva evidenziato la quantità di documentazione pertinente e significativa ormai acquisita. Quanto alla seconda, in ragione dei mutamenti normativi e di quelli organizzativi interni al Consiglio regionale, nonché delle scelte di S. e degli altri tre componenti del gruppo consiliare della nuova esperienza politica, in definitiva da un lato non sarebbe più possibile la gestione incontrollata di tali fondi e dall'altra in concreto i fondi destinati al gruppo di appartenenza sarebbero utilizzati solo per la retribuzione di quattro dipendenti. La mutata situazione costituirebbe un contesto di consapevole "ragionevole autotutela". Da qui l'astrattezza del pericolo di reiterazione argomentato dal Tribunale.
Costituirebbe poi violazione dell'art. 275 c.p.p. il passaggio argomentativo con cui il Tribunale evidenzia l'impossibilità di applicare misura interdittiva, stante il divieto normativo che ex art. 289.3 c.p.p. trova applicazione nel caso concreto.

Ragioni della decisione

2. I due motivi sono infondati ed al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Quanto alle esigenze cautelari, la parte di motivo afferente il pericolo di reiterazione del reato è infondata ed ai limiti dell'inammissibilità (il che è assorbente per la reiezione del ricorso sull'intero punto della sussistenza di esigenze cautelari). Il Tribunale ha infatti espressamente argomentato sulla prosecuzione di condotte 'disinvolte' pur dopo l'uscita dal gruppo IDV, e quindi in periodo successivo a quello della 'rivisitazione in autotutela' dedotta in ricorso, su questo argomentando, in termini tutt'altro che apparenti, manifestamente illogici o contraddittori, la permanenza di attualità e concretezza delle esigenze (p. 5, penultimo capoverso, ordinanza impugnata). La deduzione in ricorso risulta pertanto certamente infondata e, appunto, ai limiti dell'inammissibilità laddove ignora questo invece determinante passaggio argomentativo del Tribunale.
2.1 In ordine a proporzione ed adeguatezza della misura cautelare in atto, il motivo è infondato.
Questa Sezione ha già insegnato che il divieto della misura interdittiva della sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio o servizio, che l'art. 289.3 c.p.p. prevede nel caso di uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare, non può fondare un'interpretazione che renda incompatibile (e quindi non applicabile) alcuna misura cautelare personale che si risolva nel determinare effetti equivalenti.
Vanno qui richiamate le condivise argomentazioni svolte da Sez.6 sent. 44896/2013 in proc. F.: «La disposizione dell'art. 289 cit., che esclude l'applicazione della misura della sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio per coloro che tale ufficio ricoprano per investitura popolare, non può essere interpretata, pena la violazione del principio di uguaglianza, come una sorta di salvacondotto cautelare. E' evidente che le misure cautelari personali, previste dall'ordinamento per prevenire i pericoli di inquinamento della prova o di fuga o di reiterazione del reato, vanno applicate, sussistendone i presupposti di legge, nei confronti di ogni imputato. La circostanza che l'imputato titolare di un ufficio pubblico per elezione popolare non sia assoggettabile a misura interdittiva non consente di argomentare che sarebbe illegittimo sottoporlo a una misura coercitiva dagli effetti equivalenti. Il giudice, dovendo in frenare il periculum libertatis, non potrà che adottare la misura che l'ordinamento processuale gli mette a disposizione. Infatti il giudice, accertata la sussistenza di esigenze di tutela della collettività, deve applicare la misura coercitiva che, tenuto conto dei criteri di adeguatezza, proporzionalità e del minor sacrificio possibile per la libertà personale, soddisfi quelle esigenze».
Deve quindi essere riaffermato il principio di diritto che il divieto di applicazione della misura interdittiva della sospensione dall'esercizio di un ufficio elettivo ricoperto per diretta investitura popolare non comporta anche, nei confronti di chi eserciti quella tipologia di ufficio, l'inapplicabilità di misure cautelare personali necessarie ad in frenare il sussistente periculum libertatis.
Nel caso di specie, il Tribunale ha espressamente argomentato adeguatezza e idoneità della misura domiciliare in atto a prevenire condotte analoghe a quelle oggetto dell'imputazione provvisoria, anche in ruoli e settori diversi della vita politica, nonché la sua proporzionalità in relazione alla gravità e sistematicità delle condotte contestate. Si tratta di motivazione specifica e non apparente, immune dai vizi residui soli rilevanti ai sensi della lettera E dell'art. 606.1, del resto neppure specificamente dedotti in ricorso.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Avv. Antonino Sugamele

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