Avvocato sospeso continua a prestare assistenza ai clienti.-
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 21 gennaio -. 6 maggio 2014, n. 18745
Presidente Agrò – Relatore Leo
Ritenuto in fatto
1. È impugnata dal Pubblico ministero la sentenza in data 14/02/2012 del Tribunale di Ravenna, con la quale B.L. è stato assolto dal delitto di esercizio abusivo della professione forense, con formula di insussistenza del fatto.
Sospeso per due mesi dall'esercizio della professione, a titolo di sanzione disciplinare, il B. si era recato per nove volte, durante il periodo indicato, presso la Casa circondariale di Ravenna, ove si era incontrato, in forza della sua qualità di difensore, con otto diverse persone, per un complesso di venticinque diverse visite.
Nel corso del giudizio abbreviato è stato escusso uno dei detenuti interessati, il quale ha riferito che B. l'aveva avvertito della sua sospensione, e che i ripetuti incontri dipendevano dalla disponibilità dell'avvocato a sostenere i propri assistiti anche per necessità personali (pratiche amministrative, notizie sui familiari, ecc.).
In esito al giudizio, il Tribunale ha assolto l'interessato, per la ritenuta insufficienza della prova circa la natura obiettivamente professionale delle visite compiute dall'imputato.
Premessa la propria adesione all'indirizzo secondo il quale, ai fini dell'integrazione del delitto di cui all'art. 348 cod. pen., rileva solo il compimento indebito di atti riservati in via esclusiva ai soggetti abilitati per l'esercizio di una determinata professione, il Giudice di prime cure ha osservato che il colloquio tra un avvocato ed il suo assistito assume valenza professionale solo per il suo oggetto, e che di tale valenza resta privo quando l'argomento non sia la questione legale cui si riferisce il mandato (“tempo, sport o [...] quant'altro”). Mancherebbe nella specie la prova che i colloqui in carcere avevano avuto riguardo al rapporto professionale tra B. ed i suoi assistiti, data anche la contraria indicazione del teste escusso. Una tale pertinenza non potrebbe essere dedotta, in particolare, dal fatto che l'imputato aveva potuto accedere al carcere ed ai singoli detenuti solo in forza della propria qualità di difensore. Per un verso l'abuso della posizione non sortirebbe implicazioni univoche sull'oggetto dei colloqui. Per l'altro, si determinerebbe una disparità di trattamento tra avvocati, a seconda della condizione di libertà o di detenzione dei rispettivi assistiti.
2. Con un solo e comprensivo motivo di ricorso, il Pubblico ministero denuncia violazione della legge penale sostanziale, ed in particolare dell'art. 348 cod. pen., censurando per altro verso il ragionamento probatorio del Tribunale.
Si rileva, in fatto, che il numero dei colloqui trascende abbondantemente, sempre che sia rilevante, la necessità per B. di rendere edotti i propri assistiti della temporanea impossibilità di esercizio della professione. In ogni caso un colloquio in carcere, legittimato a norma dell'art. 104 cod. proc. pen., rappresenterebbe atto tipico e riservato di esercizio della professione di avvocato, intrinsecamente diverso, tra l'altro, dal colloquio con persone libere.
Sarebbe dunque indifferente l'oggetto delle conversazioni intrattenute dal ricorrente.
Considerato in diritto
1. La sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio degli atti al Tribunale di Ravenna per un nuovo giudizio.
2. È fondata una prima critica che, in concomitanza con la denunciata violazione di legge, il ricorrente ha mosso alla sentenza, sia pure in termini assai succinti: la motivazione esposta dal Tribunale non regge, in termini di logica e completezza, l'assunto in fatto dal quale lo stesso Tribunale ha preso le mosse.
Per quanto breve sia stato il periodo della sua sospensione, e nonostante la piena coincidenza con il periodo feriale, B. si è presentato per ben nove volte presso la Casa circondariale di Ravenna, incontrando otto diverse persone, ciascuna per più di una volta (venticinque visite complessive). Dunque, egli ha agito in chiara eccedenza rispetto all'esigenza di comunicare il temporaneo impedimento all'esercizio della professione, ammesso che tale comunicazione richiedesse e consentisse un colloquio de visu.
Il Tribunale ha superato la prova logica desumibile già dal mero dato quantitativo sulla base d'una sola e non particolarmente credibile testimonianza, secondo cui i colloqui avrebbero avuto funzione assistenziale e umanitaria. Una base cognitiva chiaramente incompleta, ove davvero fosse stato dirimente l'apporto degli interlocutori dell'avvocato circa l'oggetto dei rispettivi colloqui. Ed una giustificazione completamente assente rispetto al dato della reiterazione.
Il rilievo d'una pretesa discriminazione tra i difensori di persone libere e non libere è illogico e privo di concludenza. Chiunque voglia avere colloqui “sul tempo, lo sport o quant'altro” con un detenuto è discriminato rispetto a chi voglia intrattenerli con una persona libera di muoversi e di incontrare chi le pare.
È la condizione di libertà dell'interlocutore ad avvantaggiare l'avvocato desideroso di conversazioni del genere, e non un trattamento di favore rispetto all'avvocato che difenda un detenuto. Nel contempo, l'avvocato che difenda un detenuto è avvantaggiato rispetto ad altri potenziali conversatori, nella possibilità di incontro con la persona ristretta in carcere, proprio e solo in forza del proprio mandato professionale.
La sostanza della condotta professionale abusiva non muta in caso di colloqui con interlocutori liberi o detenuti: muta semmai la difficoltà di documentazione da parte della pubblica accusa, certamente favorita, nel secondo caso, dalla registrazione degli incontri e dalla prova logica (che, nella specie, è rimasta del tutto inesplorata).
3. È poi ricorrente anche la violazione dell'art. 348 cod. pen. denunciata con l'impugnazione del Pubblico ministero.
Come si è detto, B. si è presentato per ben nove volte presso la Casa circondariale di Ravenna, incontrando otto diverse persone, ciascuna per più di una volta. Ha potuto avere tali incontri solo in virtù del mandato professionale ricevuto dai detenuti in questione, avvalendosi del disposto dell'art. 104 cod. proc. pen., che conferisce rilievo esclusivamente al rapporto difensivo.
La tesi che egli abbia “abusato” della qualità (sospesa) di difensore per compiere in segreto colloqui "umanitari" - qualunque ne sia l'attendibilità - non esclude che egli non abbia platealmente dato vita ad un comportamento professionale, avvalendosi di uno strumento professionale e creando le apparenze di un'attività svolta da soggetto regolarmente abilitato, tanto da indurre l'Autorità penitenziaria dapprima ad ammetterlo ai colloqui, e poi a segnalare l'anomalia riscontrata.
Come ben si evince dal recente pronunciamento sul tema delle Sezioni unite di questa Corte (sentenza n. 11545 del 15/12/2011, Cani, rv. 251819), la tesi in diritto del Tribunale, secondo cui il reato avrebbe potuto ritenersi integrato solo m caso di prova diretta della pertinenza dei colloqui al mandato professionale non può essere condivisa. Anche volendo ammettere che i colloqui con un detenuto possano in astratto rivestire un carattere familiare, affettivo o assistenziale, e che dunque non siano prerogativa esclusiva dell'avvocato difensore, il loro reiterato e continuativo compimento attraverso lo “strumento” professionale fornito dall'art. 104 cod. proc. pen. ha creato la pubblica percezione dell'esercizio della professione forense. In che è bastevole, secondo la giurisprudenza richiamata, all'integrazione del reato contestato.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla Corte d'appello di Bologna.
07-05-2014 19:13
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