Avvocato abilitato all'esercizio della professione svolge attività senza essere iscritto all'albo. E' reato: esercizio abusivo della professione di avvocato.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 6 novembre 2013 – 10 gennaio 2014, n. 646
Presidente Ferrua – Relatore Demarchi Albengo
Ritenuto in fatto
1. T.M. è imputato dei reati di cui agli articoli 348 e 495 del codice penale per avere esercitato la professione di avvocato senza essere iscritto nel relativo albo e per essersi qualificato come avvocato in atti compiuti davanti a giudici ed altri pubblici ufficiali.
2. La Corte d'appello di Lecce ha confermato la sentenza di primo grado che aveva ritenuto l'imputato responsabile di entrambi i reati, unificati dalla continuazione, con condanna alla pena di mesi quattro di reclusione (previo riconoscimento delle attenuanti generiche e riduzione per il rito scelto).
3. Il T. propone ricorso per cassazione per i seguenti motivi:
a. inosservanza ed erronea applicazione dell'articolo 348 del codice penale. Sotto tale profilo osserva che l'elemento costitutivo del reato in esame è rappresentato dalla mancanza dell'abilitazione all'esercizio della professione forense, non essendo determinante la mancata iscrizione nell'albo di categoria, che attiene esclusivamente alle modalità di esercizio della professione, ma non riguarda l'accesso ad essa.
b. Inosservanza ed erronea applicazione dell'articolo 491 del codice penale. Sostiene il ricorrente che la spendita del titolo di avvocato non rientri nell'ambito applicativo dell'articolo 395 del codice penale, atteso che esso trova la sua completa regolamentazione alla stregua degli articoli 348 e 498 del codice penale. Nel primo caso, il reato di cui all'articolo 395 sarebbe assorbito nel reato di esercizio abusivo, che implica anche la spendita del titolo. Ma, anche a ritenere sussistente il reato di esercizio abusivo di professione forense, sarebbe contraddittorio un ordinamento che punisse un soggetto che si arroga un titolo afferente ad una professione che, per altra norma di legge, si ritiene che egli possa legittimamente esercitare.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato. Quanto al primo profilo di ricorso, la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel senso di ritenere che integra il delitto di esercizio abusivo della professione di avvocato la condotta di chi, conseguita l'abilitazione statale, eserciti l'attività professionale prima di aver ottenuto l'iscrizione all'albo professionale (cfr. Sez. 6, n. 27440 del 19/01/2011, Sgambati, Rv. 250531). Tale interpretazione ha ricevuto recentemente l'avallo delle sezioni unite (v. Sez. U, n. 11545 del 15/12/2011, Cani, Rv. 251819: “...La norma incriminatrice dell'art. 348 c.p., che punisce chi "abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato", trova la propria ratio nella necessità di tutelare l'interesse generale, di pertinenza della pubblica amministrazione, a che determinate professioni, richiedenti particolari requisiti di probità e competenza tecnica, vengano esercitate soltanto da chi, avendo conseguito una speciale abilitazione amministrativa, risulti in possesso delle qualità morali e culturali richieste dalla legge (in tal senso, testualmente, Sez. 6, n. 1207 del 15/11/1982, dep. 1985, Rossi, Rv. 167698). Il titolare dell'interesse protetto è, quindi, soltanto lo Stato, (...) Dalla ricognizione delle normative che prevedono e regolano le professioni soggette a speciale abilitazione dello Stato emerge, in via generale, che il conseguimento di tale titolo, da un lato, presuppone il possesso di altri pregressi titoli e, dall'altro, costituisce a sua volta il presupposto (principale ma non esclusivo) per la iscrizione in appositi albi (relativi ai laureati) o elenchi (diplomati), tenuti dai rispettivi ordini e collegi professionali (enti pubblici di autogoverno delle rispettive categorie, a carattere associativo e ad appartenenza necessaria): iscrizione che è configurata essa stessa come condizione per l'esercizio della professione. La "abusività" prevista dalla norma penale viene conseguentemente riconnessa, in pratica, alla mancanza della detta iscrizione".
2. D'altronde, se l'iscrizione all'albo non fosse requisito essenziale per l'esercizio della professione legale, non configurerebbe il reato de quo la condotta di colui che continui ad esercitare la professione nonostante la intervenuta sospensione o radiazione dall'albo; ma anche tale interpretazione, oltre che scarsamente giustificabile sotto il profilo logico e normativo, si porrebbe ancora una volta in contrasto con i pregressi orientamenti di questa Corte (v. Sez. 6, n. 33095 del 04/07/2003, Longo, Rv. 226528).
3. La pronuncia della Corte costituzionale, invocata dal ricorrente, non è determinante non solo perché non spetta alla Consulta l'interpretazione delle norme di diritto, ma soprattutto perché non affermava affatto un principio in contrasto con quello dichiarato dalla Corte di legittimità; nella citata sentenza numero 199-1993, la Corte si limitava ad affermare, sotto il profilo strutturale, che "..ciò che la norma penale individua come elemento necessario e sufficiente per l'integrazione della fattispecie è l'assenza di quella speciale abilitazione che lo Stato richiede per l'esercizio della professione, mentre il contenuto ed i limiti propri di ciascuna abilitazione, non rifluiscono - come ritiene il giudice a quo - all'interno della struttura del fatto tipico, ma costituiscono null'altro che un presupposto di fatto che il giudice è chiamato a valutare caso per caso" (In nessun passo della sentenza si diceva che la mancata iscrizione all'albo era irrilevante ai fini del reato de quo).
4. Anche la doglianza relativa al ritenuto concorso dei reati di esercizio abusivo e di spendita del titolo è infondata; questa Corte ha già avuto modo di affermare - senza che risultino pronunce contrarie - che "L'esercizio abusivo della professione legale, ancorché riferito allo svolgimento dell'attività riservata al professionista iscritto nell'albo degli avvocati, non implica necessariamente la spendita al cospetto del giudice o di altro pubblico ufficiale della qualità indebitamente assunta, sicché il reato si perfeziona per il solo fatto che l'agente curi pratiche legali dei clienti o predisponga ricorsi anche senza comparire in udienza qualificandosi come avvocato; ne deriva che quando quest'ultima condotta si accompagna alla prima, viene leso anche il bene giuridico della fede pubblica tutelato dall'art. 495 cod. pen. e si configura il concorso dei detti reati" (Sez. 2, n. 18898 del 06/04/2004, Santopaolo, Rv. 229223).
5. Poiché questo collegio non intende discostarsi dai citati precedenti, ne consegue che il ricorso deve essere rigettato. Ai sensi dell'art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonché alla rifusione di quelle sostenute dalla parte civile, che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione di quelle sostenute dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro 1.800,00, oltre accessori secondo legge.
13-01-2014 19:42
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