Notizie, Sentenze, Articoli - Avvocato Penalista Trapani

Sentenza

Una madre minaccia il figlio di non fargli vedere più la nonna. E' tentata violenza privata continuata.
Una madre minaccia il figlio di non fargli vedere più la nonna. E' tentata violenza privata continuata.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 26 giugno - 11 settembre 2013, n. 37324
Presidente Ferrua – Relatore Settembre

Ritenuto in fatto

1. La Corte d'appello di Brescia, con sentenza del 21-2-2012, ha confermato quella emessa dal Tribunale di Bergamo, sezione distaccata di elusone, che ha condannato B.M.B. a pena di giustizia per il reato di tentata violenza privata continuata, commesso tra i mesi di (omissis) .
Secondo l'accusa la B. , al fine di costringere il figlio M. a rimettere la querela presentata nei suoi confronti, prima di morire, dal padre del ragazzo (C.G. ), minacciò di separarlo dalla nonna paterna, con cui il ragazzo (nato il (omissis)) conviveva da tempo.
2. Contro la sentenza suddetta ha proposto ricorso per Cassazione, nell'interesse dell'imputata, l'avv. Giorgio Bottani, il quale censura la sentenza per omessa motivazione e violazione di legge.
Col primo motivo lamenta che la Corte d'appello non abbia motivato intorno alla dedotta insussistenza del reato. Deduce che non può essere considerata minaccia la prospettazione della madre di allontanare il figlio dalla nonna paterna, al fine di ricondurlo a vivere con lei, dacché l'esercizio della potestà genitoriale comprende il potere di stabilire in quale ambito debba vivere il figlio.
Col secondo deduce la inidoneità della condotta al raggiungimento dello scopo, e quindi al perfezionamento del reato, giacché la volontà del minore avrebbe comunque dovuto essere integrata da quella di un tutore.
3. In data 10-6-2013 è stata presentata memoria difensiva da parte di C.M. , con cui chiede il rigetto del ricorso.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è infondato. È ben vero che la potestà genitoriale comprende la facoltà di stabilire in quale ambito - spaziale e personale - debba vivere il figlio, ma tale facoltà non può essere esercitata in contrasto con le "aspirazioni" dei figli (art. 147 cc) e, a maggior ragione, con i loro bisogni più profondi, giacché, altrimenti, quella potestà si risolverebbe in una forma di tutela - ormai vieta – di natura padronale: concezione da gran tempo superata da tutte le legislazioni moderne a noi più vicine e, tra queste, del legislatore italiano. Soprattutto, la potestà (tra poco "responsabilità") genitoriale non può essere esercitata per costringere il figlio a comportamenti funzionali alla soddisfazione di interessi - morali ed economici - del genitore e allo stesso tempo contrastanti con quelli, della stessa natura, del figlio, giacché, in caso contrario, oltre alla risoluzione del conflitto d'interessi a vantaggio della parte più forte, si assisterebbe ad un utilizzo distorto delle facoltà concesse al genitore in funzione, invece, dell'interesse della famiglia e di quelle, preminenti, del minore stesso.
Nella specie il minore ha subito, da parte della madre, una forte pressione, rivolta a costringerlo a rimettere la querela presentata, contro di lei, dal padre, prima di morire. Pressione esercitata con la minaccia di separarlo dalla nonna paterna, con cui il ragazzo conviveva dalla morte del padre (2003) e con cui aveva stabilito un significativo rapporto affettivo; insieme alla quale aveva ritrovato uno spazio di vita funzionale alla sua serenità. E ciò è stato fatto dall'imputata non per migliorare la condizione del minore o per recuperare il rapporto con lui, ma per ottenere comportamenti che soddisfacevano il suo esclusivo interesse personale (contrastante con quello del figlio). Logica e coerente, oltre che giuridicamente corretta, è, pertanto, la conclusione cui è pervenuta la Corte d'appello, secondo cui la vicenda va ricondotta alla fattispecie di cui agli artt. 56 - 610 cod. pen., sotto forma di tentativo non andato in porto.
2. Infondato è anche il secondo motivo di ricorso. Correttamente la Corte d'appello ha rilevato che il minore ultra quattordicenne può rimettere la querela, per cui la minaccia esercitata dalla madre era idonea a produrre l'effetto avuto di mira. Il fatto che la rimessione della querela, operata dal minore, fosse soggetta ad "approvazione" del rappresentante (art. 153 cod. pen.) non elide la capacità offensiva della condotta, giacché nessun "rappresentante" avrebbe potuto fare a meno di tener conto dei desiderata del minore (anche solo per contrastarli), con la conseguenza che, seppur la volontà di quest'ultimo non è, da sola, sufficiente a produrre l'effetto remissorio, è tuttavia sufficiente ad innescare il meccanismo funzionale alle remissione. È di tutta evidenza, quindi, che "l'evento dannoso o pericoloso", di cui all'art. 49 cod. pen., non era affatto "impossibile" in conseguenza dell'azione della B. , ma era nel novero delle alte probabilità, sol che alla remissione del minore si fosse accompagnata l'acquiescenza del rappresentante. Fatto che esclude in radice l'inidoneità della condotta.
Il ricorso va pertanto rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché a quelle di rappresentanza della parte civile, che si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché di quelle sostenute dalla parte civile, che liquida in complessivi Euro 1.500,00, oltre accessori secondo legge.
Avv. Antonino Sugamele

Richiedi una Consulenza