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Sentenza

Tentato omicidio: 5 anni e 10 mesi di reclusione. Il tutto per una relazione extraconiugale.
Tentato omicidio: 5 anni e 10 mesi di reclusione. Il tutto per una relazione extraconiugale.
Cassazione penale  sez. I Data: 23/03/2011 ( ud. 23/03/2011 , dep.26/05/2011 ) Numero: 21201


                        LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE                   
                            SEZIONE PRIMA PENALE                         
    Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:                            
    Dott. GIORDANO   Umberto       -  Presidente   -                     
    Dott. IANNELLI   Enzo          -  Consigliere  -                     
    Dott. ZAMPETTI   Umberto       -  Consigliere  -                     
    Dott. ROMBOLA'   Marcello -  rel. Consigliere  -                     
    Dott. CAPRIOGLIO Piera M.S.    -  Consigliere  -                     
    ha pronunciato la seguente:                                          
                         sentenza                                        
    sul ricorso proposto da: 
    1)              P.G., N. IL (OMISSIS); 
    2)              N.A., N. IL (OMISSIS); 
    avverso  la  sentenza  n.  12565/2009 CORTE APPELLO  di  NAPOLI,  del 
    25/02/2010; 
    visti gli atti, la sentenza e il ricorso; 
    udita  in  PUBBLICA  UDIENZA del 23/03/2011 la  relazione  fatta  dal 
    Consigliere Dott. MARCELLO ROMBOLA'; 
    Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Volpe Giuseppe che 
    ha concluso per il rigetto del ricorso. 
    udito   il   difensore  avv.  Cafiero  A.,  che   ha   concluso   per 
    l'accoglimento del ricorso medesimo. 
                     


    Fatto
    FATTO E DIRITTO

    Con sentenza 25/2/10 la Corte di Appello di Napoli, in riforma della sentenza 24/3/09 del Gup del Tribunale di Napoli che, con la continuazione e la diminuente del rito, in esito a giudizio abbreviato, condannava P.G. e N.A. alla pena di anni sette e mesi quattro di reclusione per i reati, in concorso con una terza persona non identificata (in (OMISSIS)), di tentato omicidio (capo A) in danno di M. G., di rapina di un telefonino in danno dello stesso (capo B) e di porto ingiustificato di un bastone (capo C), i reati sub B e C aggravati dal nesso teleologico con il più grave sub A, assolveva il N. dal reato di rapina per non avere commesso il fatto e con la concessione ad entrambi gli imputati delle attenuanti generiche e del risarcimento del danno, ritenute prevalenti sulle contestate aggravanti, rideterminava la pena per il P. in anni cinque e mesi dieci di reclusione e per il N. in anni quattro e mesi due di reclusione.

    A seguito della segnalazione telefonica di un'aggressione in corso ricevuta dai CC di Casoria alle 5,45 del (OMISSIS), M. G. era rinvenuto quasi esanime da una autopattuglia dei CC in una via di (OMISSIS), il volto sanguinante a causa di vaste ferite al cranio e alla zona facciale: al pronto soccorso erano riscontrate ferite lacero contuse multiple al capo e al viso oltre che alle arcate sopraccigliari (anche se senza lesioni ossee traumatiche in atto), con prognosi di gg 20 s.c. Nell'immediatezza del soccorso e poi anche in caserma il M. indicava i propri aggressori, insieme ad un terzo a lui sconosciuto, in tali P.G. e N.A., cognati di P.C., maritata P., con la quale aveva in corso da circa tre mesi una relazione extraconiugale. Quando quella mattina egli era uscito dalla casa della donna, dove si era recato intorno alle 3 di notte, era stato accolto da urla e minacce di donne (la moglie e la madre del N.) provenienti dall'appartamento al primo piano dello stesso stabile dove abitavano i N., che lo avevano indotto a fuggire a piedi. Inseguito da qualcuno a bordo di una "station wagon", era raggiunto dagli inseguitori, scesi dalla macchina e così anch'essi a piedi, in una strada stretta dove si era rifugiato sperando che quelli non avrebbero potuto seguirlo. Qui veniva picchiato da tutti e tre a calci e pugni fino a fargli perdere conoscenza, N. anche con un bastone urlandogli minacce di morte e P. stringendogli il collo e strozzandolo per impedirgli di chiamare aiuto con il telefonino, che infine, su sua incitazione, gli veniva sottratto dal terzo aggressore. Poi qualcuno dalle case intorno aveva chiamato aiuto e l'arrivo dei CC aveva indotto gli aggressori alla fuga.

    Nel corso dell'interrogatorio gli imputati, così individuati, ammettevano i fatti, ma non l'intento omicida: si erano appostati sotto casa per dare una lezione al M. e lo avevano inseguito, ma poi la situazione era sfuggita al loro controllo: non erano armati di bastone, di cui invece era in possesso il M., ed il cellulare l'avevano sottratto per recuperarvi messaggi e telefonate compromettenti che provassero la relazione extraconiugale in vista di una eventuale causa di separazione con addebito e di affidamento dei figli.

    Quindi l'azione penale e le riferite sentenze di primo e secondo grado.

    Ricorreva per cassazione la difesa dei due imputati, deducendo: 1) mancanza totale di motivazione in ordine all'attenuante della provocazione chiesta in via subordinata nei motivi di appello; 2) violazione di legge in ordine al ritenuto reato di tentato omicidio (a parte che il bastone utilizzato non era stato neppure rinvenuto, con la conseguente impossibilità di valutarne l'attitudine micidiale, se il P. - di lavoro macellaio - avesse voluto uccidere, avrebbe saputo di che munirsi le stesse lesioni subite dal M. erano state di modesta gravità e non gli impedirono di recarsi al lavoro il giorno dopo i fatti e poi alla caserma dei CC a rendere la sua deposizione. Chiedeva per entrambi l'annullamento della sentenza impugnata.

    All'udienza pubblica fissata per la discussione il PG concludeva per il rigetto del ricorso, la difesa per il suo accoglimento.

    Il ricorso è infondato e va respinto.

    Non è vero che la sentenza impugnata ometta di motivare in ordine all'attenuante della provocazione chiesta coi motivi di appello: si legge nella stessa pag 7 citata in ricorso (secondo periodo), a proposito della condotta contestata, "che non si è trattato di un impulso determinato da uno stato d'ira bensì della prevedibile conseguenza di un appostamento predisposto da tre uomini armati di un bastone e di (recte: con) un auto con cui darsi alla fuga in danno di una sola persona".

    Contrariamente a quanto dedotto nel secondo motivo di ricorso, il giudice di merito perviene correttamente a qualificare la condotta come tentato omicidio, motivando in modo congruo e completo circa i parametri da cui, per costante giurisprudenza, si desume la idoneità e univocità degli atti e quindi il dolo omicida: le modalità della aggressione (nelle forme della spedizione punitiva organizzata per vendicare l'onore del congiunto tradito), l'uso del mezzo usato (il bastone di legno non rinvenuto, di cui era impensabile fosse munita la vittima, reduce da un appuntamento galante), i punti del corpo attinti (tra i quali la zona superiore del cranio, che riportava almeno due ampie ferite), la reiterazione dei colpi inferti, la superiorità numerica degli aggressori, le frasi profferte (espresse minacce di morte), l'azione di strangolamento posta in essere da uno degli aggressori mentre (sinergicamente) altro colpiva la vittima con il bastone ed altro ancora con calci e pugni, l'accanimento dell'azione interrotta solo dal sopraggiungere dei CC chiamati dagli abitanti delle case intorno. Il tutto depone puntualmente, come ben rilevato dal giudice di merito, per il dolo alternativo, dove chi agisce è indifferente all'esito, fosse anche letale ed in ogni caso voluto, della sua condotta. La circostanza (risultata expost) che le ferite riportate dal M. fossero meno gravi di quanto apparse nell'immediato non influisce sul giudizio (da formulare ex ante) sulla idoneità dei mezzi e non equivocità dell'azione e, in definitiva, sul dolo omicida, essendo nozione di comune esperienza che in superiorità di forze (come nel caso) si può uccidere anche con mezzi rudimentali o a mani nude (dove la rinuncia a dotarsi di armi più letali risponde a scelte individuali dell'agente, non influenti sulla valutazione del fatto così come si è verificato).

    Al rigetto del ricorso segue la condanna dei ricorrenti, al pagamento delle spese del processo (art. 616 c.p.p.).
    PQM
    P.Q.M.

    Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

    Così deciso in Roma, il 23 marzo 2011.

    Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2011
Avv. Antonino Sugamele

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