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Sentenza

Sindaco e giunta: abuso di ufficio aggravato e continuato in concorso, agendo in violazione di norme di legge sul falso presupposto che vi fossero, in conseguenza di calamità naturali, in tutto il territorio della provincia di Catania lo stato di emergenza, intenzionalmente procuravano ai dipendenti municipali un ingiusto vantaggio patrimoniale.
Sindaco e giunta: abuso di ufficio aggravato e continuato in concorso, agendo in violazione di norme di legge sul falso presupposto che vi fossero, in conseguenza di calamità naturali, in tutto il territorio della provincia di Catania lo stato di emergenza, intenzionalmente procuravano ai dipendenti municipali un ingiusto vantaggio patrimoniale.
Autorità:  Cassazione penale  sez. III
Data udienza:  07 novembre 2012
Numero:  n. 1153
                    LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE                   
                           SEZIONE TERZA                             
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:                            
Dott. MANNINO  Saverio Felice  -  Presidente   -                     
Dott. GENTILE  Mario           -  Consigliere  -                     
Dott. GRILLO   Renato          -  Consigliere  -                     
Dott. ROSI     Elisabetta      -  Consigliere  -                     
Dott. GRAZIOSI Chiara     -  rel. Consigliere  -                     
ha pronunciato la seguente:                                          
                     sentenza                                        
sul ricorso proposto da: 
1)          ST.AN. N. IL (OMISSIS); 
2)           G.F. N. IL (OMISSIS); 
3)             N.A. N. IL (OMISSIS); 
4)           D.M.I. N. IL (OMISSIS); 
5)            D.O. N. IL (OMISSIS); 
6)          F.F. N. IL (OMISSIS); 
7)               S.U. N. IL (OMISSIS); 
avverso  la  sentenza  n.  628/2009 CORTE  APPELLO  di  CATANIA,  del 
04/11/2011; 
visti gli atti, la sentenza e il ricorso; 
udita  in  PUBBLICA  UDIENZA del 07/11/2012 la  relazione  fatta  dal 
Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI; 
Udito  il  Procuratore Generale in persona del Dott. IZZO Gioacchino, 
che  ha  concluso  per  annullamento con  rinvio  della  sentenza  di 
condanna  assessori     St.,      G.,       N.,        D.M., 
      D. e      F.. 
Inammissibilità del ricorso del sindaco         S.. 
Udito, per la parte civile, l'avv. Grasso Giovanni (nuova nomina); 
Uditi  i  difensori  avv.ti Strano Tagliareni Francesco  di  Catania, 
Bongiorno  Giulia  di  Roma, Chimento Angela  di  Catania,  Tamburino 
Tommaso di Catania, Acquarone Lorenzo di Genova, (sost. proc.), Gaito 
Alfredo  di Roma, Mellia Vincenzo di Acireale, Rado Maria  Loreta  di 
Catania, Veneto Armando di Roma. 
RITENUTO IN FATTO
1.1 Con sentenza del 2 maggio 2008 il Tribunale di Catania dichiarava colpevoli St.An., G.F., N.A., D.M.I., D.O., F.F. e S. U. dei reati loro ascritti (capo A: abuso d'ufficio aggravato e continuato in concorso, di cui all'art. 61 c.p., n. 2, artt. 81 cpv.
e 110 c.p., art. 112 c.p., n. 1, art. 323 c.p., commi 1 e 2 perchè, in concorso tra loro, in numero di persone superiore a cinque, con più atti esecutivi di un medesimo disegno criminoso, S. quale sindaco e gli altri quali componenti della Giunta del Comune di Catania e quindi pubblici ufficiali, nello svolgimento delle loro funzioni, agendo in violazione di norme di legge, sul falso presupposto che vi fossero, in conseguenza di calamità naturali, in tutto il territorio della provincia di Catania lo stato di emergenza e la sospensione fino al 31 marzo 2004 dei versamenti dei contributi previdenziali ed assistenziali, e che quindi l'Inpdap avesse prematuramente ricevuto dal Comune la complessiva somma di Euro 56.728.213,72, lucrandone l'anticipata disponibilità (quantificata nell'importo di Euro 7.696.473,41 quali interessi sulla quota di contributi a carico del Comune, e di Euro 3.059.677,87 quali interessi sulla quota di contributi a carico dei dipendenti), intenzionalmente procuravano ai dipendenti municipali un ingiusto vantaggio patrimoniale, elargendo a ciascuno di loro indebitamente somme immediatamente riscuotibili da Euro 300,00 a 1300,00, con corrispondente rilevante danno per il Comune, con l'aggravante di avere commesso il fatto essendo candidati alle elezioni amministrative del 15-16 maggio 2005, al fine di commettere il reato di cui al capo seguente; capo B: delitto elettorale di cui all'art. 61 c.p., n. 9, artt. 81 cpv. e 110 c.p., art. 112 c.p., n. 1, D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, art. 95, in relazione alla L. 10 agosto 1964, n. 663, art. 3 perchè, in concorso tra loro e in numero di persone superiore ai cinque, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, nella rispettiva qualità di cui al capo precedente, adottavano nello svolgimento delle loro funzioni, nella settimana precedente le elezioni del sindaco e del consiglio comunale di Catania, fissate per il 15 e il 16 maggio 2005, le Delib. 10 maggio 2005, n. 644 e Delib.
12 maggio 2005, n. 645 con cui, procedendo indebitamente e fraudolentemente per conto del Comune di Catania e altresì sostenendo, contrariamente al vero, di agire in nome e per conto dell'Inpdap, elargivano denaro al di fuori delle ordinarie erogazioni di istituto, asserendo di risarcire così ipotetici danni subiti dai dipendenti comunali in conseguenza di vicende ancora sotto l'esame del giudice adito dallo stesso Comune, per ottenere il voto elettorale, con l'aggravante di avere commesso il fatto con abuso dei poteri e comunque in violazione dei doveri derivanti dalla pubblica funzione ricoperta) e li condannava, concesse le attenuanti generiche prevalenti su tutte le contestate aggravanti, unificati i reati sotto il vincolo della continuazione, alla pena ciascuno di anni due e mesi due di reclusione ed Euro 1500,00 di multa, tranne S. U., condannato alla pena di anni due e mesi sei di reclusione ed Euro 1800,00 di multa.
1.2 Il Tribunale rilevava che l'imputazione di cui al capo A nasceva dalla decisione della Giunta comunale, composta dai suddetti imputati - nonchè da altri due, R.A. e D.R., che la sentenza ha assolto - di corrispondere ai dipendenti comunali, mediante l'adozione di due delibere (la Delib. 10 maggio 2005, n. 644 e la Delib. 12 maggio 2005, n. 645), la somma complessiva di Euro 3.059.677,87, quali interessi sulla quota di contributi previdenziali ed assistenziali a carico dei dipendenti, già versati all'Inpdap, rispetto ai quali si assumeva che i dipendenti avrebbero invece avuto diritto alla sospensione di versamento fino al 31 marzo 2004 in conseguenza dello stato di calamità naturale causato dai fenomeni vulcanici e sismici verificatisi nella provincia di Catania nel luglio 2001 e nell'ottobre 2002. Il Tribunale analizzava la sequenza dei provvedimenti relativi alla sospensione dei contributi, evidenziando tra l'altro che:
il D.M. 14 novembre 2002 aveva disposto la sospensione dei termini relativi agli adempimenti di obblighi tributari aventi scadenza nel periodo dal 29 ottobre 2002 al 31 marzo 2003 a favore dei residenti alla data del 29 ottobre 2002 in taluni Comuni della provincia di Catania, specificamente elencati, tra cui non figura il Comune di Catania;
a seguito del D.L. 4 novembre 2002, n. 245, convertito con modificazioni dalla L. 27 dicembre 2002, n. 286, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento Protezione Civile, comunicava al Ministero del Lavoro con nota del 14 febbraio 2003 l'elenco dei Comuni "oggetto della dichiarazione dello stato di emergenza per i quali, sulla base del quadro normativo derivante dal D.L. 4 novembre 2002...sono state erogate provvidenze di natura finanziaria", elenco nel quale non figura il Comune di Catania;
con una nota operativa del 5 luglio 2004 l'Inpdap precisava che il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 12 marzo 2004 aveva prorogato fino al 31 marzo 2005 lo stato di emergenza nel territorio della provincia di Catania e comunicava che tale proroga includeva anche il differimento alla stessa data dei termini di sospensione dei contributi previdenziali e assistenziali; la nota riportava l'elenco dei Comuni interessati richiamando il provvedimento del 14 febbraio 2003 della Presidenza del Consiglio dei Ministri e quindi non comprendendo il Comune di Catania; con successiva nota del 15 febbraio 2005 l'Inpdap comunicava ai propri dirigenti generali, ai sindacati e ai patronati che, essendo emerse problematiche in un incontro con i Ministeri vigilanti sull'esatta individuazione dei destinatari delle ordinanze, in attesa di necessarie indicazioni da tali Ministeri veniva sospesa la liquidazione dei rimborsi a tutti i soggetti aventi sede nei territori colpiti dagli eventi calamitosi;
il 10 giugno 2005 con ordinanza n. 3442 il Presidente del Consiglio dei Ministri precisava quali erano i Comuni della provincia di Catania che potevano beneficiare della sospensione dei contributi, non includendovi il Comune di Catania.
1.3 Premesso che il contenuto dei provvedimenti successivi, nonchè delle sentenze del Tar al riguardo, non incide sul processo penale dovendosi valutare la condotta degli imputati in base alla normativa vigente all'epoca, il Tribunale affermava che la questione della sospensione del versamento dei contributi previdenziali per i soggetti residenti nel Comune di Catania era sufficientemente chiara in senso negativo e tuttavia veniva messa in discussione da alcune amministrazioni pubbliche; esaminava poi le emergenze dibattimentali e il contenuto delle delibere (la Delib. n. 644 viene approvata come atto di indirizzo politico-amministrativo tendente a corrispondere ai dipendenti comunali il risarcimento del danno, subito per la mancata rateizzazione in 11 anni dei contributi pagati nel periodo oggetto di sospensione, ammontante a complessivi Euro 3.059.677,87, e a procedere alla corresponsione nei modi e tempi concordati con la ragioneria generale dell'importo dovuto a tale titolo a ciascun dipendente; la Delib. n. 645, approvata per integrare la precedente, dispone: "anticipare, al fine di evitare il maggior danno all'ente che deriverebbe dall'esito delle controversie instaurate dai dipendenti anche nei confronti del Comune di Catania, sostituto d'imposta, in nome e per conto dell'Inpdap, le somme dovute dallo stesso Istituto, quantificate in Euro 3.059.677,87 di cui alla Delib.
n. 644 del 2005, facendole gravare al capitolo 7700/13 in correlazione con il capitolo 1005/13 dell'entrata") assumendo che le stesse, considerata la espressa definizione di "integrativa" apposta sulla Delib. n. 645, costituiscono un unico atto, ben difficilmente qualificabile atto di indirizzo politico-amministrativo, in quanto incidente direttamente sulla gestione del personale e delle risorse finanziarie dell'ente. Proprio in materia di gestione di spesa (artt. 182 ss. T.U.E.L.) il Giudice di prime cure riteneva le delibere affette da eclatante illegittimità: in primo luogo, la spesa approvata non attiene nè a obbligazioni giuridicamente perfezionate (il diritto che si intendeva riconoscere ai dipendenti non era sancito da norme di legge nè accertato da provvedimenti giudiziari) nè a impegni già previsti in bilancio; in secondo luogo l'impegno di spesa veniva assunto in periodo di gestione provvisoria ex art. 163 T.U.E.L., la quale consente solo l'assolvimento delle obbligazioni già assunte, delle obbligazioni derivanti da provvedimenti giurisdizionali esecutivi e di obblighi tassativamente regolati dalla legge, il pagamento delle spese di personale, di residui passivi di rate di mutuo, di canoni, imposte e tasse, e in generale limita alle sole operazioni necessarie per evitare danni patrimoniali certi e gravi all'ente. In questa ipotesi non rientrava il "maggior danno derivante dall'esito delle controversie instaurate dai dipendenti" avverso il Comune, ipotetico giacchè il primo dei ricorsi del genere era stato rigettato il 3 maggio 2005 dal Tribunale del lavoro di Catania, per cui non vi era motivo per presagire che il successivo, appena notificato al Comune, ottenesse esito diverso. A ciò deve aggiungersi che la Delib. n. 644, pur prevedendo l'erogazione di una spesa ingente, è priva del parere di regolarità contabile.
1.4 Ulteriore evidente illegittimità il Tribunale ravvisava come derivante dall'inserimento nella Delib. n. 645 della formula "in nome e per conto dell'Inpdap", essendo lampante a chiunque abbia un minimo di competenza in materia che è al di fuori di ogni logica giuridica che un ente si arroghi il diritto di agire "in nome e per conto" di un altro autonomo ente pubblico, in mancanza di un consenso validamente espresso in apposito atto da quest'ultimo (intransigenti al riguardo gli avvocati del Comune - escussi come testi - che si erano occupati della questione, A. e P.). Eppure non si trattava di un mero errore, poichè la spesa venne imputata al capitolo di bilancio relativo alle partite di giro, e quindi considerata anticipazione di somme che sarebbero dovute comunque rientrare nelle casse comunali; e non a caso, poichè il bilancio comunale era in una situazione di sofferenza con debiti per circa 7 milioni di Euro.
1.5 Tanto premesso quanto alla sussistenza di violazione di legge, il Tribunale identificava l'ulteriore elemento oggettivo del reato di abuso d'ufficio rappresentato dall'ingiusto vantaggio patrimoniale che, nel caso di specie, sarebbe stato procurato ai dipendenti comunali. In primo luogo, il preteso credito dei dipendenti non era affatto certo bensì gli atti emanati in materia di provvidenze per lo stato di emergenza erano di segno opposto; il secondo, anche se la direzione centrale dell'Inpdap avesse consentito che il Comune di Catania potesse godere la sospensione del versamento dei contributi, i dipendenti comunali non potevano avere diritto alla corresponsione di somme a titolo di risarcimento del danno sotto forma di interessi finchè non fosse intervenuto un atto amministrativo o giurisdizionale in tal senso. L'assenza di tale diritto è stata confermata dalla Delib. 5 dicembre 2005, n. 629 con cui, revocando le Delib. nn. 644 e 645, la Giunta del Comune di Catania disponeva il recupero delle somme anticipate ai dipendenti; delibera che segue un iter regolare a differenza delle due precedenti, incaricando la Direzione del Personale di concerto con la Direzione Finanziaria di adottare gli atti di recupero. Da tutto ciò deriva che la disponibilità in capo ai dipendenti delle somme erogate costituiva un ingiusto vantaggio patrimoniale, pur se goduta per un limitato periodo di tempo.
1.6 Quanto poi all'elemento soggettivo, dal Tribunale definito dolo specifico, nel senso che gli imputati con l'adozione delle Delib. nn. 644 e 645 abbiano voluto consapevolmente attribuire ai dipendenti comunali un ingiusto vantaggio patrimoniale, in vista del fine specifico di ricavarne un favorevole ritorno mediatico per le elezioni amministrative, il Giudice di primo grado distingueva la posizione del sindaco dalle posizioni degli assessori.
1.6.1 Riguardo al sindaco S., il Tribunale lo riteneva il principale artefice della condotta incriminata - tra l'altro, con una intensità proporzionale all'avvicinarsi delle elezioni -, richiamando l'avere egli convocato riunioni presso l'hotel (OMISSIS) per trovare una copertura giuridica che risolvesse il problema dei c.d. contributi cenere, l'avere egli chiesto all'avvocatura comunale, tramite il suo capo ufficio stampa, se poteva adottare un'ordinanza nei confronti dell'Inpdap per disporre la restituzione dei contributi e l'avere ritenuto (come da lui ammesso in sede di esame) troppo lontana nel tempo la decisione del giudice del lavoro nella causa intentata dal Comune contro l'Inpdap pur sapendo che era prevista per l'8 giugno 2005. La dolosa consapevolezza dell'illegittimità delle delibere si evince pure dalla motivazione delle stesse, in particolare dal riferimento nella Delib. n. 645 alla necessità di arginare il maggior danno che sarebbe derivato al Comune dalle azioni intraprese dai dipendenti e dal riferimento al diritto del Comune alla restituzione della somma pari all'arricchimento dell'Inpdap a danno del Comune e dei suoi dipendenti in mancanza di obiettivo riscontro nella normativa vigente, Per di più il sindaco il 13 maggio 2005 con nota al ragioniere generale e al direttore del personale "ribadisce la disposizione per l'immediato pagamento".
Questa nota, come emerge dalle deposizioni del capo ufficio stampa del sindaco, I., e del ragioniere generale, C., viene emanata dopo che il 12 maggio 2005 il sindaco comunica al proprio responsabile dell'ufficio stampa che finalmente si è sbloccata la vicenda dei "contributi cenere" incaricandolo di farne un comunicato stampa; I. apprende da un funzionario non identificato che il pagamento sarebbe stato effettuato con lo stipendio del mese di maggio o con i prossimi due stipendi, per cui il 13 maggio il giornale (OMISSIS), riferendo la frase direttamente al sindaco, annuncia che il pagamento avverrà per metà nello stipendio di maggio e per metà in quello di giugno. Il ragioniere generale invece ha già predisposto i mandati di pagamento, per cui li blocca e chiede chiarimenti; allora il sindaco "ribadisce" con la nota dello stesso 13 maggio.
Infine, sempre per confermare l'elemento soggettivo di S., il Tribunale si avvaleva delle deposizioni del teste D'..
1.6.2 Quanto agli assessori, il Tribunale affermava l'elemento soggettivo dell'abuso d'ufficio rilevando che, anche qualora - come avevano prospettato le difese - gli imputati non fossero esperti di diritto amministrativo, le delibere presentavano almeno un elemento di illegittimità che doveva essere evidente a qualunque amministratore, attenendo a norme basilari in materia di atti di enti locali, cioè che non potevano approvarsi impegni di spesa non previsti in bilancio nel periodo di gestione provvisoria. Per di più nessuno degli assessori, stranamente, si era posto il problema di approfondire una questione che gravava il Comune di un non indifferente ulteriore impegno economico; e proprio l'assessore alle finanze non era presente in nessuna delle due sedute di Giunta del 10 e 12 maggio 2005. Il Giudice di prime cure ne desumeva un'effettiva volontà di assecondare S. quanto meno di chi si ricandidava, cioè di chi dalle delibere avrebbe tratto un indubbio vantaggio di visibilità elettorale. Proprio per questo il Tribunale riteneva invece la prova della sussistenza dell'elemento soggettivo non raggiunta pienamente per chi non avrebbe goduto di tale vantaggio elettorale, prosciogliendo dunque i due assessori che non si ricandidavano ex art. 530 c.p.p., comma 2.
1.7 Riguardo al reato elettorale, che punisce "chiunque, in nome proprio o anche per conto di terzi o di enti privati e pubblici, eccettuate per questi ultimi le ordinarie erogazioni di istituto, nella settimana che precede la elezione e nella giornata della elezione, effettua elargizioni di denaro, generi commestibili, oggetti di vestiario o altri donativi, a qualsiasi titolo" - così il D.P.R. n. 361 del 1957, art. 95 lo configura per le elezioni politiche; è esteso alle elezioni amministrative negli enti locali dalla L. n. 663 del 1964, art. 3 - il Tribunale osservava che il fatto in sè è documentale, il problema interpretativo incentrandosi sullo stabilire se l'attribuzione patrimoniale rientri tra le elargizioni vietate. La risposta è positiva in quanto l'attribuzione delle somme in questione non è riconducibile agli ordinari compiti di istituto, in primo luogo perchè effettuata fuori dalle previsioni di bilancio e quindi con un impegno straordinario, in secondo perchè non attinente a un diritto giuridicamente perfezionato dei beneficiari, ma solo ipotetico. Concludeva il Tribunale nel senso che le Delib. nn. 644 e 645, oltre a comportare la consumazione del reato elettorale, integrano una ulteriore violazione di norme di legge prevista dal reato di abuso di ufficio.
2.1 E' stata dedicata un'ampia illustrazione al contenuto della sentenza di primo grado perchè coincide, in sostanza, con quello della sentenza d'appello. Tutti i condannati dalla sentenza del Tribunale di Catania, infatti, hanno presentato appello, che è stato respinto, confermando la pronuncia di primo grado, dalla Corte d'Appello di Catania con sentenza del 4 novembre 2011.
La sentenza in questa sede impugnata reputa condivisibili le argomentazioni del giudice di prime cure, le espone in modo più esteso e sviluppato - trascrivendo ampiamente risultanze dell'istruttoria dibattimentale -, ed esamina i gravami degli imputati S., N., F., G., D.M., D. e St..
2.2 In riferimento alla richiesta di riaprire l'istruzione dibattimentale escutendo testi (pagg. 11 ss. della motivazione) la corte ne ritiene la superfluità vista l'ampia documentazione agli atti (cfr. altresì pagg. 68 ss. e 201 s.; occorre subito evidenziare che talora gli stessi argomenti sono trattati dalla corte in più luoghi della motivazione, dei quali si segnalano, pertanto, in questa sintesi quelli maggiormente significativi).
2.3 All'esito di un'estesa ricostruzione del fatto storico, poi, la corte identifica la violazione di legge del reato di cui al capo A (pagg. 60 ss.) per la Delib. n. 644 (in sintesi: delibera solo formalmente atto di indirizzo politico, in realtà invasiva delle competenze di gestione finanziaria e del personale proprie dei dirigenti degli uffici - cfr. anche pagg. 80 ss. -; provvedimento, inoltre, che assumeva un impegno di spesa in relazione a un diritto ipotetico dei dipendenti e in una fase di gestione provvisoria, senza certezza di alcun danno da stornare - cfr. pure pagg. 94 ss. -, ma anzi in una situazione di sofferenza economica - pagg. 108 ss. -;
assenza del parere di regolarità contabile; illegittima sostituzione dell'Inpdap - cfr. altresì pagg. 91 ss. e 97 ss. -) e per la integrativa (e inscindibilmente complementare, onde non rileva avere votato solo una delle due delibere: pag. 195, pag. 199) Delib. n. 645 (in sintesi: anche in questo caso violazione delle norme sulla gestione finanziaria; violazione della normativa sul funzionamento dell'Inpdap e sulle modalità di versamento dei contributi previdenziali, delle norme civilistiche in tema di rappresentanza e delle disposizioni in materia elettorale che proibiscono elargizioni di somme nella settimana anteriore alle elezioni) sottolineando in particolare come evidente la violazione di legge che nella Delib. n. 645 discende dalla formula "in nome e per conto dell'Inpdap".
Evidenzia inoltre la corte che l'imputazione della spesa al capitolo di bilancio relativo alle partite di giro, indicata nella Delib. n. 645, si rivelò fittizia, in quanto il presupposto che si trattasse di somme che avrebbero dovuto restare nelle casse comunali poichè il Comune non le avrebbe versate all'Inpdap nei mesi successivi alle delibere non si verificò, non avendo dato alcuna disposizione in tal senso gli amministratori ai competenti uffici, per cui il Comune continuò anche nei mesi successivi a corrispondere all'Inpdap quanto tratteneva sulle retribuzioni dei suoi dipendenti in qualità di sostituto d'imposta (pag. 67; pagg. 98-99).
2.4 A proposito, poi, del concorso apparente, prospettato dalle difese nel senso che la violazione di una norma penale non possa integrare la violazione di legge prevista dal delitto di abuso d'ufficio, la corte (pagg. 77 ss., 119 ss., 185 ss.) la corte ha invocato giurisprudenza che valorizza la tutela di beni giuridici diversi, affermando che la sussidiarietà è esclusa se le fattispecie penali in ciò si differenziano, ed evidenziando che affinchè vi sia concorso apparente di norme non è comunque sufficiente l'identità del fatto inteso in senso naturalistico, dovendosi invece intenderlo come fattispecie penale costituita dall'intera condotta, dolo ed evento, e sottolineando comunque che nel caso de quo solo una parte della condotta, e cioè la violazione del D.P.R. del 1957, n. 361, art. 95 coincide; e quanto alle successive pronunce del Tar, ha ribadito la loro mancanza di incidenza in termini di insussistenza della violazione di legge, essendo il giudice penale libero nella valutazione dei fatti anche rispetto alle valutazioni del giudice amministrativo, tenuto conto altresì della diversità dell'oggetto di valutazione del giudice amministrativo stesso (pag. 93; pag. 97; pagg. 123 ss.; pag. 202 s.);
come pure ha negato che i pareri tecnici dei vari uffici comunali (visto il loro limite settoriale) potessero escludere il dolo di chi votava le delibere (pagg. 113 s.), dolo intenzionale di cui ha ritenuto la sussistenza, illustrandola ampiamente (cfr. soprattutto pagg. 129-166).
2.5 La corte ha escluso anche la necessità che gli assessori sapessero con certezza che il pagamento sarebbe avvenuto prima delle elezioni, ai fini del reato di abuso essendo necessario che sia giuridicamente individuabile un concreto ingiusto vantaggio patrimoniale, quale evidenziavano le Delib. nn. 644 e 645 riconoscendo un ingiusto diritto patrimoniale a ciascuno dei dipendenti comunali, e comunque risultando che i tempi di pagamento concordati dagli appellati e poi ribaditi dal sindaco nella nota del 13 maggio 2005 erano quelli del pagamento immediato (pagg.115 ss.;
pagg. 219 ss.), come confermava il palese interesse dei candidati verso le elezioni.
2.6 La corte ha altresì disatteso la richiesta di applicazione della cd. prescrizione breve D.P.R. n. 570 del 1960, ex art. 100 per essere il D.P.R. n. 361 del 1957, art. 95 previsto appunto in un altro testo normativo (pag. 119; pagg. 191 ss.) ed avendo la stessa Corte Costituzionale riconosciuto il potere del legislatore di prevedere diversi termini prescrizionali, non per arbitrio ma per connessione al disvalore differente della fattispecie antigiuridica.
2.7 Al vantaggio patrimoniale ingiusto attribuito dalle delibere de quibus ai dipendenti comunali la corte connette un danno ingiusto all'ente pubblico nonchè un danno ingiusto all'altro candidato sindaco, B.V., consistente nella perdita di chances di vittoria elettorale (pag. 121; pagg. 128 ss.; pag. 194) sottolineando altresì che la cessione pro solvendo non fu mai effettuata, come dimostra la necessità della Delib. recupero 5 dicembre 2005 n. 629 (pag. 122 ss.).
2.8. La sentenza ha altresì considerato le contestazioni sull'attendibilità del teste D'., che ha ritenuto invece sussistente (pagg. 125 ss. e 166 ss.).
2.9 A proposito, infine, dell'interpretazione del D.P.R. n. 361 del 1957, art. 95 (pagg. 176 ss.), la corte ha espletato un'analisi approfondita, in particolare raffrontando il termine "erogazioni" con quello "elargizioni", dapprima individuando tra essi una diversità di significato, ma poi pervenendo a ritenere per gli enti pubblici la sovrapponibilità dell'un termine all'altro, per concludere nel senso che le spese autorizzate con le Delib. nn. 644 e 645 del 2005 non sono qualificabili erogazioni ordinarie ma rientrano nel concetto di elargizioni a qualunque titolo e concretizzano una violazione del D.P.R. n. 361 del 1957, art. 95; e quanto alla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato elettorale (pagg. 183 ss.) la conclusione della corte è positiva, ritenendo sufficiente il dolo generico.
2.10 Tutti gli imputati hanno presentato ricorso avverso la sentenza di secondo grado; il contenuto dei ricorsi viene ora esposto in sintesi come segue.
3. Il ricorso della difesa di S.U. si articola su sei motivi.
3.1.1 Il primo motivo censura il rigetto della richiesta, presentata nei motivi d'appello, di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per l'audizione dei testi L.G. (all'epoca dei fatti sottosegretario generale presso la Presidenza del Consiglio), C.A. (all'epoca segretario generale presso la Presidenza del Consiglio), B.G. (all'epoca capo del Dipartimento della Protezione Civile presso la Presidenza del Consiglio) S.V. (vicedirettore di tale dipartimento), F.E. (responsabile dell'ufficio legale dello stesso dipartimento).
Si tratta, ad avviso del ricorrente, di una prova decisiva perchè per il ruolo di vertice che rivestivano i testi avrebbero potuto lumeggiare sulla problematica relativa alla presenza del Comune di Catania tra i beneficiari della sospensione dell'obbligazione contributiva. Dirimente non era l'interpretazione dei provvedimenti che introdussero tale deroga contributiva, bensì l'iter politico- amministrativo che si svolse a latere di tali procedimenti. Ciò avrebbe permesso di indagare a fondo l'aspetto psicologico con cui gli imputati avevano trattato la problematica, cosi potendo confutare da un lato il ritenuto dolo intenzionale del reato di abuso, dall'altro il ritenuto spirito di liberalità delle elargizioni di cui al reato elettorale: entrambi elementi incompatibili con lo stato di dubbio sulla legittimità dell'inclusione del Comune di Catania tra quelli beneficiari della sospensione dell'obbligazione contributiva.
Se è costante la giurisprudenza di legittimità nel senso che per disporre la rinnovazione dell'istruttoria il giudice di merito deve motivare esplicitamente e in modo puntuale, ciò tuttavia non esclude che il giudice deve fornire congrua motivazione sulle ragioni per cui non ritiene di procedere alla richiesta rinnovazione dibattimentale, obbligo che la corte territoriale non ha adempiuto.
In particolare, la rinnovazione è negata perchè l'elemento oggettivo della fattispecie è esterno rispetto alla questione della illegittima ritenuta inclusione del Comune di Catania nel suddetto beneficio (pag. 12), in contrasto con altro passo della motivazione (pag. 119) che afferma che la violazione di legge sarebbe proprio la violazione del D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, art. 95 in relazione alla L. 10 agosto 1964, art. 3; la sussistenza di quest'ultimo infatti passa per l'accertamento del carattere di liberalità delle elargizioni e della consapevolezza di ciò in capo agli agenti.
Ancora, la corte rileva che l'elemento del dolo intenzionale che deve sorreggere la condotta dell'abuso ufficio deve essere attratto dalle già esistenti indicazioni obiettive, non potendosi delegare ai testi un giudizio sulla sua sussistenza (pag. 13): ciò dimostrerebbe illogicità, errando incomprensibilmente i giudici nel ritenere che attraverso la richiesta audizione dei testi la difesa intendeva delegare loro un giudizio sulla sussistenza del dolo.
3.1.2 La corte poi conviene con il primo giudice nel ritenere che il contenuto di provvedimenti emanati successivamente non è rilevante, poichè la condotta degli imputati deve valutarsi secondo la normativa vigente all'epoca dei fatti (pagg. 19-20), riferendosi alle pronunce del Tar di Catania che avevano accolto i ricorsi di residenti in Catania che lamentavano l'illegittima trattenuta a titolo di ritenute previdenziali ed assistenziali sulle retribuzioni delle somme relative al periodo novembre 2002-marzo 2004. Anche qui la corte incorre in illogicità: la presa di posizione dei giudici amministrativi non ha ripercussioni sul profilo psicologico degli imputati ma costituisce ex post la riprova che le deroghe contributive furono un argomento controverso e addirittura risolvibile a vantaggio dei lavoratori, il che esclude la liberalità delle elargizioni e pone in dubbio l'intenzionalità del dolo.
3.2.1 Il secondo motivo denuncia violazione della legge in ordine alla corretta configurazione del reato di cui all'art. 323 c.p. nonchè vizio motivazionale sulle censure mosse con i motivi d'appello.
Nei motivi di appello si era sostenuta l'insussistenza del dolo intenzionale dell'abuso d'ufficio sussistendo pieno convincimento del sindaco e dei componenti della giunta municipale che i dipendenti avevano diritto a tali somme ingiustamente ritenute dal Comune e versate all'INPDAP: pertanto votarono le delibere nel convincimento di compiere un atto dovuto e di realizzare un interesse pubblico.
L'istruttoria dibattimentale aveva dimostrato il pieno e giustificato convincimento degli amministratori comunali che Catania rientrasse tra i Comuni beneficiari della sospensione del versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali. La corte ha invece ricostruito la questione in modo confuso e travisante la cronologia degli atti, che il motivo elenca dettagliatamente, aggiungendo comunque che ogni residuo dubbio fu eliminato dai colloqui tra il sindaco e i rappresentanti del governo nazionale, ragione per cui ne era stata chiesta l'audizione come da primo motivo. L'esistenza del diritto era percepita da tutti, tanto che il Consiglio Comunale il 21 marzo 2005 aveva espresso l'unanime auspicio che le aspettative dei lavoratori venissero al più presto soddisfatte. Anche l'avvocatura comunale aveva più volte manifestato il convincimento dell'esistenza dei diritti dei lavoratori e dell'erroneo versamento all'Inpdap. Alla luce della giurisprudenza di legittimità in ordine all'avverbio "intenzionalmente" che qualifica il dolo nell'art. 323 c.p., deve ritenersi che il dubbio degli amministratori sul diritto dei dipendenti è sufficiente a eliminare il dolo intenzionale, generando tutt'al più un dolo eventuale.
3.2.2 Tanto premesso, la motivazione della sentenza viene censurata per contraddittorietà in una pluralità di passaggi:
1. Avere ritenuto che l'intervento dell'avvocatura comunale sia stato strumentalizzato dagli imputati e che gli avvocati abbiano smentito di avere mai prospettato la soluzione adottata con le Delib. nn. 644 e 645 (pag. 23 e pag. 162 ad esempio) travisando le dichiarazioni rese dagli avvocati A. e P. nel dibattimento.
2. Avere contraddittoriamente ammesso da un lato il dolo intenzionale e dall'altro l'incertezza obiettiva sull'applicabilità al Comune di Catania della sospensione dei versamenti (esempio a pag. 19: "la questione... era chiara in senso negativo, ma tuttavia veniva messa in discussione quantomeno da alcune amministrazioni pubbliche").
3. Avere ritenuto irrilevante il contenuto dei provvedimenti emanati dopo le delibere (in riferimento alle sentenze del Tar) dovendosi valutare la condotta degli imputati in base alla normativa vigente all'epoca dei fatti (pagg. 19-20, già citate nel primo motivo).
Invece tali provvedimenti servivano non all'accertamento della normativa vigente all'epoca dei fatti bensì a dimostrare la bontà dell'interpretazione degli imputati e pertanto l'esistenza dell'interesse pubblico quale finalità del loro agire. Inoltre la corte contraddice tanto il primo giudice quanto se stessa perchè, dopo avere affermato tale irrilevanza, a pag. 104 cita la Delib. 5 dicembre 2005, n. 629 (con cui venne disposto il recupero delle somme anticipate ai dipendenti) dichiarando che adottandola gli stessi imputati dimostrano che quando votarono le Delib. nn. 644 e 645 v'era totale carenza di diritto risarcitorio in capo ai dipendenti.
4. La corte non motiva relativamente al fatto che tutti, come dimostra la Delib. Consiglio Comunale 21 marzo 2005, indipendentemente dal colore politico ritenevano assolutamente errato il comportamento degli uffici comunali che avevano eseguito le trattenute, limitandosi a osservare (pag. 75) che una cosa è auspicare che l'amministrazione dia risposta alle aspettative generalizzate, altra è deliberare.
5. La corte ha ritenuto che i ricorsi dei dipendenti comunali non abbiano inciso sulla vicenda, giacchè il 10 maggio 2010, data della Delib. n. 644, vi era solo un ricorso, di tale Al., notificato al Comune di Catania, mentre il ricorso B. +79 di 80 dipendenti comunali fu protocollato nell'ufficio del segretario generale il 9 maggio 2005 e nell'avvocatura solo il 10 maggio 2005;
ciò costituirebbe travisamento della prova in relazione alle dichiarazioni testimoniali dell'avvocato capo del Comune, avvocato A., rese all'udienza del 23 febbraio 2007.
6. La corte non condivide l'assunto difensivo sulla legittimità del convincimento degli amministratori che Catania rientrava tra i Comuni per cui era stato dichiarato lo stato di emergenza, rilevando (pag.
155) che le note invocate dalla difesa in cui si fa riferimento al territorio della provincia di Catania non sono provenienti dal Ministero dell'Economia, emanazione diretta del governo, unico a poter giuridicamente decidere una così rilevante sospensione dell'obbligazione fiscale per più annualità, provenendo invece dalla Protezione Civile e da una direzione del Ministero dell'Interno. Le note sono quelle del 24 novembre 2004, 15 dicembre 2004 e 27 dicembre 2004 con cui il Dipartimento della Protezione Civile ribadiva l'applicabilità dei benefici al territorio della provincia di Catania. L'asserto della corte è illogico perchè è la Protezione Civile l'organo sovraordinato che disciplina la materia dell'emergenza, e ha pertanto la competenza a individuare i singoli Comuni colpiti dalla cenere vulcanica e quindi meritevoli delle agevolazioni. Se fosse stato consentito di sentire il teste B., la sua deposizione avrebbe permesso di conoscere le ragioni (veto del ministro T. a nome della Lega Nord al Presidente del Consiglio che aveva a sua volta costretto B. a tornare sui suoi passi) della cancellazione di Catania dai Comuni beneficiari della sospensione dei contributi previdenziali.
7. La corte ha travisato la deposizione del teste D'. (che si è limitato a esporre opinioni personali) e ha attribuito alle dichiarazioni rese da lui al pubblico ministero lette per la contestazione - valutabili ex art. 500 c.p.p., comma 2, solo ai fini della credibilità del teste - il valore riconoscibile solo alla deposizione testimoniale resa in dibattimento.
8. La difesa nei motivi d'appello aveva sostenuto che gli amministratori comunali erano pienamente convinti anche della legittimità dei provvedimenti adottati. La corte ha richiamato la giurisprudenza sugli elementi sintomatici del dolo intenzionale per il reato di abuso d'ufficio (l'evidenza della violazione di legge, perciò immediatamente riconoscibile dall'agente; la specifica competenza professionale dell'agente tale da concedergli la suddetta riconoscibilità; la motivazione del provvedimento, se apparente o pretestuosa; i rapporti personali eventualmente accertati tra l'autore del reato e il soggetto che ne trae ingiusto vantaggio patrimoniale) ma di fronte alla prospettazione della difesa che gli amministratori comunali non avrebbero potuto avere la certezza di violare disposizioni di legge visti i qualificati pareri di regolarità tecnica e contabile del segretario generale ( Gi.) e del ragioniere generale ( C.) del Comune, si è limitata all'affermazione apodittica (pagg. 129 ss.) che le violazioni di legge erano così gravi da non poter essere disconosciute dal sindaco e dagli amministratori di una città come Catania, essendo (pag. 141) facilmente riconoscibili anche da un uomo medio.
9. In più punti la corte afferma che la riconoscibilità degli imputati della violazione di legge derivava anche dal comportamento tenuto dall'assessore al bilancio D.A. che non partecipava alle sedute in cui erano state approvate le delibere, essendo noto al sindaco e agli altri assessori che aveva scelto di non votare perchè contrario (pag. 102, pag. 112 ss.; pagina 42). La corte incorreva in travisamento perchè l'assessore all'udienza dibattimentale del 12 gennaio 2007 ha motivato la sua assenza con motivi di salute.
10. Nulla poi è desumibile dal tentativo di accordo operato di sua esclusiva iniziativa dall'assessore del bilancio con il direttore dell'Inpdap Sc.. Anche qui la corte è incorsa in contraddizione perchè a pag. 24 afferma che il Comune otteneva un secco rifiuto dall'ente ma a pag. 25 ricorda la dichiarazione del suo direttore dell'udienza del 26 gennaio 2007 nel senso che dopo l'incontro uscì una nota della direzione generale dell'Inpdap con cui si sospese nei confronti degli enti qualunque attività.
D'altronde che l'Inpdap non condividesse la decisione degli amministratori comunali di Catania è circostanza neutra perchè, come ha dichiarato l'avvocato P. (che aveva seguito la vicenda per conto dell'avvocatura comunale), con tale ente il Comune non aveva rapporto, essendo l'Inpdap una sua controparte che aveva ricevuto somme prima di quando avrebbe dovuto riceverle e che invece di restituirle se le era conservate, per cui era in debito verso il Comune (pag. 46).
11. Non vi è prova della consapevolezza degli imputati della violazione della legge in questione, ma semmai di inconsapevolezza (deposizione Gi., all'udienza 29 settembre 2006, secondo il quale prima dell'adozione delle delibere non fu sollevato da alcuno il profilo della legittimità dell'erogazione in relazione alle elezioni) non potendosi opporre a ciò la presunzione di conoscenza ex art. 5 c.p. giacchè la violazione di legge suddetta rileva come presupposto del reato di cui all'art. 323 c.p. per cui deve essere conosciuta con certezza dall'agente.
12. Il Tribunale aveva ritenuto che nei confronti di coloro che non si ricandidavano non era stato provato l'elemento soggettivo del reato. I motivi d'appello sottolineavano quindi che proprio alla luce del ragionamento del Tribunale gli imputati erano stati mossi da una finalità diversa ed ulteriore rispetto all'ingiusto vantaggio patrimoniale, elemento psicologico indispensabile per l'abuso d'ufficio, per cui tale duplicità di fini era incompatibile con la struttura dell'art. 323 c.p. che non concepisce l'alternatività o la subordinarietà del fine perseguito dal soggetto attivo del reato.
Pertanto avere avuto come fine principale dell'azione il favore elettorale rendeva irrilevante l'eventuale fine ulteriore e subordinato di aver cagionato un indebito vantaggio patrimoniale dei dipendenti, anche se raggiunto, per cui non sussisteva per difetto di elemento soggettivo il reato dell'abuso d'ufficio. La giurisprudenza infatti insegna che nel dolo intenzionale la rappresentazione e la volizione dell'evento devono essere conseguenza diretta e immediata della condotta. La corte ha fornito una motivazione contraddittoria perchè, pur seguendo (pag. 114 e pag. 165) la decisione del primo grado nell'esclusione del reato degli assessori non candidati, se ne è anche discostata. A pagg. 139-140, nonchè a pag. 143, a pag. 39 e a pag. 144 lo scopo elettorale sostiene con valenza esclusiva la sussistenza del dolo intenzionale, in coerenza con la prima sentenza.
Ma a pag. 145 la corte si avvede che tale fine consiste nel perseguimento di un vantaggio diverso dal fine patrimoniale individuato per il reato di abuso d'ufficio, e pertanto trasforma il fine elettorale in uno scopo ulteriore (affermando che gli imputati votarono le delibere "anche finalizzando la loro condotta alla illecita (perchè realizzata attraverso violazione di legge) captazione del consenso elettorale": pag. 146); in seguito (pagg. 147- 148) afferma che la condotta abusiva era tale da far sì che le somme illegittimamente erogate fossero ricevute a ridosso delle elezioni, così ritornando al fine elettoralistico in via esclusiva. A pag. 148 la corte poi osserva che il dolo intenzionale nel reato di abuso non è escluso dalla contemporanea sussistenza di un eventuale ulteriore finalità, in contraddizione con quanto appena rilevato (cfr. pure pagg. 149, 157, 158, 165 ss.), in conclusione da un lato ribadendo che il favoritismo privatistico di elargire denaro ai dipendenti- elettori è lo scopo immediato della condotta degli amministratori comunali, e dall'altro dichiarando di condividere la circostanza che il giudice di prime cure abbia rilevato il dolo solo per gli imputati il cui fine principale era quello elettorale (v. anche pag. 166).
13. Ulteriore grave difetto di motivazione è l'assoluta mancanza degli elementi probatori a sostegno della asserita finalità dell'ingiusto vantaggio patrimoniale quale scopo precipuo degli agenti, dato che tutta la motivazione è incentrata sull'argomento elettorale.
14. Quanto all'ingiusto danno patito dalla parte civile ( B. V., l'altro candidato a sindaco) va rilevato che il reato è strutturato solo come abuso a vantaggio e non come abuso a danno nella contestazione (dove si legge che gli imputati, agendo in violazione di legge, "intenzionalmente procuravano ai dipendenti municipali un ingiusto vantaggio patrimoniale...con corrispondente danno per il Comune"), nessuno avendo mai ipotizzato che gli amministratori pubblici fossero animati dall'intento di danneggiare gli altri candidati a sindaco. La corte da una motivazione laconica a pag. 146 nel senso di una "ingiusta compromissione delle chances di vittoria elettorale della parte civile", e a pag. 153 laddove la condotta del sindaco uscente è indicata come anche in danno del concorrente B.V..
3.3.1 Il terzo motivo denuncia violazione del D.P.R. n. 361 del 1957, art. 95 e conseguente vizio motivazionale, essendo stato nei motivi d'appello rilevato che "elargizioni di denaro" sono le erogazioni caratterizzate dal requisito di liberalità, per cui il delitto in questione non sussiste se l'agente ha agito nel convincimento della natura non liberale dell'erogazione di denaro effettuata nel periodo elettorale. E' evidente che gli imputati agirono nel convincimento che tali somme fossero in realtà dovute. La corte ha cercato di superare l'ostacolo introducendo nell'area del penalmente rilevante le erogazioni straordinarie, prive di carattere di liberalità; e poichè di esse gli agenti avrebbero avuto coscienza e volontà il reato sussiste.
Non è però condivisibile il postulato della corte che per enti pubblici non è possibile liberalità; in realtà l'elargizione non può identificarsi con la mera donazione e quel che non fa parte dell'ordinaria fisiologia delle erogazioni pubbliche è per ciò stesso liberalità, per cui è compreso nel divieto di elargizioni di denaro. D'altronde sfugge alla corte la ragione per cui solo per gli enti pubblici vi è deroga alle ordinarie erogazioni perchè sussiste fisiologicamente un complesso di situazioni giuridiche che impongono degli obblighi di pagamento a fronte di diritti di percezione: è vizio di legittimità pertanto ritenere che l'erogazione straordinaria rientri, pur nel silenzio della norma e a fronte dell'interpretazione sistematica proposta, nei rigori della legge.
3.3.2 Deve poi considerarsi che elemento costitutivo del delitto è l'effettuazione della elargizione sia effettuata nella settimana precedente le elezioni per cui l'accusa è onerata di dimostrare che l'autore del reato abbia piena conoscenza di tale circostanza temporale; dimostrazione non effettuata. Le delibere infatti prevedono di procedere alla corresponsione nei modi e nei tempi concordati con la ragioneria generale; inoltre il pagamento avrebbe dovuto avvenire solo dopo che ciascun dipendente avesse ceduto nelle forme di legge il proprio credito all'amministrazione. La corte segue il primo giudice ritenendo fortemente indiziante nel senso che il sindaco volesse che i dipendenti percepissero le somme effettivamente prima delle elezioni la lettera del sindaco del 13 maggio 2005 al Ragioniere generale e al direttore del personale, con cui il sindaco stesso ribadisce la disposizione per l'immediato pagamento. In tal modo, a prescindere dal fatto che viene equiparata la posizione degli assessori a quella del sindaco, la corte utilizza argomenti illogici vista la spiegazione dei fatti fornita dal sindaco nell'interrogatorio reso in dibattimento e trascritta ampiamente nelle pagg. 57-59 del ricorso.
3.4.1 Il quarto motivo denuncia la violazione dell'art. 323 c.p. e D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, art. 95 il correlato vizio motivazionale. Nei motivi d'appello la sentenza di primo grado era stata censurata per aver ritenuto sussistente il concorso formale tra i suddetti reati nonostante vi fosse piena coincidenza tra le condotte, per cui avrebbe dovuto applicarsi solo la fattispecie più grave, cioè il reato elettorale, per non incorrere nel ne bis in idem. Sussiste infatti solo un concorso apparente di norme. La corte ha respinto il gravame ritenendo non applicabile alcun principio in tema di concorso di norme (la difesa aveva fatto riferimento alle clausole di riserva) perchè si tratta di distinte ed autonome fattispecie con segmenti autonomi di condotta materiale, forme diverse di dolo, evento diverso; coincide solo una parte della condotta e cioè la violazione di legge ex art. 323 c.p. costituita dalla violazione del D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, art. 95 in relazione alla L. 10 agosto 1964, n. 663, art. 3 onde correttamente non è stata ritenuta applicabile la clausola di riserva dello stesso articolo 323 c.p.(pag. 119).
L'affermazione che non vi è concorso apparente perchè quelle in questione sono fattispecie distinte ed autonome è già argomento illogico; erroneo è l'ulteriore argomento per cui il concorso di norme sarebbe escluso dagli autonomi segmenti di condotta materiale di ciascuna fattispecie, perchè la stessa corte si contraddice rilevando che la violazione di legge integratrice del delitto di abuso è costituita dalla norma penale che sanziona il reato elettorale contestato. Vi è dunque perfetta sovrapponibilità tra un'intera fattispecie (il reato elettorale) e una parte significativa dell'abuso d'ufficio.
3.4.2 Inoltre non è significativa la circostanza che l'elemento soggettivo dei due reati si atteggia attraverso forme diverse di dolo, sia in astratto sia a maggior ragione in concreto poichè il dolo intenzionale dell'abuso è identificato nel tentativo di carpire la benevolenza elettorale attraverso la commissione del reato elettorale in questione. Vi è quindi manifesta illogicità nonchè violazione di legge nelle ragioni poste a fondamento della mancata operatività della clausola di riserva di cui all'art. 323 c.p., insegnando la giurisprudenza che la regola di espressa consunzione presente in tale norma si applica non solo quando il fatto commesso realizza un'ulteriore reato che implica necessariamente l'abuso del potere dell'ufficio, ma pure quando una fattispecie criminosa di diverso contenuto illecito è commessa mediante un comportamento che costituisca un abuso d'ufficio che in essa si consuma.
3.5 Il quinto motivo denuncia erronea applicazione D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, art. 95 in relazione alla L. 10 agosto 1964 n. 663, art. 3, al D.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, art. 100 e il contestuale vizio motivazionale. Erroneamente infatti la corte ha rigettato il motivo d'appello diretto a vedere dichiarare l'intervenuta prescrizione del reato elettorale, essendo questo da ricondurre al D.P.R. n. 570 del 1960, art. 100 che al comma 2 prevede che l'azione penale per tutti i reati contemplati in tale testo unico si prescrive in due anni dalla data del verbale ultimo delle elezioni. Si è discusso sull'applicabilità di tale deroga all'art. 157 c.p. anche al di fuori delle ipotesi di cui al D.P.R. n. 570 del 1960, essendo intervenuta pure la Corte Costituzionale con sentenza 455 del 30 dicembre 98; sarebbe comunque lesivo del principio di uguaglianza, per manifesta irragionevolezza, applicare una prescrizione diversa ai reati elettorali commessi nella stessa consultazione elettorale (la norma si applica alle elezioni comunali) anche se previsti da fonti diverse dal D.P.R. n. 570 del 1960, come è il caso del reato in questa sede contestato. Non essendo uniforme la giurisprudenza di legittimità al riguardo, si chiede che sia annullata la sentenza per intervenuta prescrizione già maturata durante il primo grado del reato elettorale ai sensi del D.P.R. n. 570 del 1960, art. 100, comma 2, e, in subordine, che la questione sia rimessa ex art. 618 c.p.p. alle Sezioni Unite.
3.6 Il sesto motivo denuncia vizio motivazionale sulla quantificazione del danno liquidato alla parte civile e l'erronea applicazione dell'art. 185 c.p. quanto al nesso di causalità tra reato e danno. La corte pare avere riconosciuto danni morali alla parte civile ma non ha motivato il nesso di causalità tra il reato elettorale e gli stessi, liquidati equitativamente in misura elevata (Euro 50.000,00).
4. Il ricorso della difesa dell'imputato N.A. si articola in quattro motivi.
Il primo motivo coincide con il secondo motivo del ricorso S., aggiungendovi peraltro una particolare doglianza per la posizione dell'assessore N. che, assai meno qualificato degli altri assessori sia sul piano dell'esperienza politica (assessore per un breve periodo) che su quello del titolo di studio (diploma di scuola secondaria), non ha mai partecipato alle riunioni relative alla tematica in oggetto, di cui ha avuto notizia solo nel momento in cui il sindaco diede lettura della relazione introduttiva alla Delib.
n. 644; e infatti S. all'udienza del 9 giugno 2011 ha rivolto alla corte territoriale una dichiarazione spontanea nella quale si è assunto la piena responsabilità delle decisioni dell'amministrazione da lui presieduta. Su tali argomenti della difesa vi è una totale assenza di motivazione.
Il secondo motivo corrisponde al terzo del ricorso S., integrandolo con il rilievo che l'accusa non ha provato che l'autore del reato abbia avuto piena conoscenza che l'elargizione sarebbe stata effettuata nella settimana che precede le elezioni (elemento indispensabile per il dolo del reato) considerato che le delibere, in ordine al momento del versamento, si limitano a dichiarare che la corresponsione deve avvenire "nei modi e nei tempi concordati con la ragioneria generale"; a ciò si aggiunge che N. non ha mai partecipato alle riunioni relative alla problematica sfociata nelle delibere per cui non vi è alcun elemento - nè peraltro ne fa cenno la corte - dal quale risulti che abbia conosciuto dal sindaco o da altri che il pagamento sarebbe avvenuto il giorno dopo la delibera.
Il terzo motivo corrisponde al quarto motivo del ricorso S., e il quarto motivo ne riprende il quinto.
5. L'imputato St.An. ha presentato a mezzo delle sue difese due ricorsi, uno sottoscritto dall'avvocato Francesco Strano Tagliareni, l'altro dall'avvocato Giulia Bongiorno.
Il ricorso sottoscritto dall'avvocato Francesco Strano Tagliareni è composto di due motivi.
5.1 Il primo motivo, ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), si richiama in buona parte a memoria difensiva depositata nel dibattimento di secondo grado, ricostruendo la sequenza di provvedimenti relativi alla sospensione dei contributi previdenziali e censurando l'incompletezza al riguardo dell'accertamento del Tribunale (la nota è trascritta come parte integrante del ricorso) nonchè la sua condivisione da parte del giudice di secondo grado, che, erroneamente come il primo, ritiene che le decisioni del Tar, poichè successive all'emanazione delle delibere in questione, non abbiano rilievo, essendo invece tali sentenze decisive sia quanto all'elemento oggettivo del reato (ingiustizia dell'atto) sia quanto all'elemento soggettivo (gli imputati agirono in base a un'interpretazione confermata poi dalle sentenze del Tar, e comunque nel convincimento che fosse esatta).
5.2. Il secondo motivo invoca l'art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), in relazione agli artt. 40, 42, 43, 110 c.p. con riferimento a entrambi i reati contestati.
In primo luogo si censura l'aver ritenuto elemento sintomatico il fatto che il sindaco abbia ordinato al ragioniere generale di corrispondere le somme il 13 maggio 2005, dato che ciò riguarda unicamente la sfera materiale del sindaco. Il reato elettorale ha come elemento costitutivo l'elargizione, non bastando la promessa o l'impegno; gli avvenimenti del 13 maggio interrompono il nesso di causalità tra l'approvazione della Delib. n. 645 e l'erogazione ai dipendenti. Infatti la delibera disponeva l'anticipazione delle somme senza nulla prevedere sul momento dell'effettivo pagamento, tanto che il sindaco dichiarava alla stampa che questo sarebbe stato effettuato nella busta paga di fine mese. Sfugge agli assessori il motivo della successiva condotta del sindaco; immotivata è la sentenza al riguardo, che si rifugia in una sorta di "non potevano non sapere", di cui non esiste neppure prova. La decisione dà per scontato che il termine con cui si è espresso il sindaco - "ribadire" - implichi un preventivo accordo con gli assessori sul tempo del pagamento, ma non vi è prova di tale accordo e comunque che gli assessori dovessero conoscere quando le delibere sarebbero state in concreto eseguite.
5.3 In secondo luogo si censura il profilo soggettivo, evidenziando che spesso i componenti di un organo collegiale non hanno concreta possibilità, anche per la complessità delle materie trattate che richiedono una specifica competenza professionale, di valutare in tutti i loro aspetti le implicazioni degli atti che formalmente deliberano, il che è rilevante in tema di abuso d'ufficio. Perchè sussista l'abuso d'ufficio attraverso atti collegiali è necessario che sia presente in ognuno dei componenti del collegio il dolo intenzionale; se a taluno dei componenti manca, egli non risponderà del reato. Quindi se emerge che l'intenzione era approvare la delibera per scopi leciti, il componente del collegio che ha accettato il rischio dell'evento ingiusto ha dolo eventuale e non intenzionale, per cui non commette il delitto di abuso.
5.4 L'atteggiamento della volontà dovrà poi risultare da fatti concreti e significativi. Nel caso in esame, dopo le delibere, gli uffici, approntati i mandati di pagamento, a seguito di una dichiarazione del sindaco il 13 maggio sul quotidiano "(OMISSIS)" nel senso che il pagamento sarebbe avvenuto nella prossima busta paga, si accingevano a pagare appunto con lo stipendio di fine mese, come da prassi ordinaria; ma sempre il 13 maggio il sindaco impose al ragioniere generale - che pretese e ottenne una disposizione per iscritto - il pagamento immediato. I fatti addebitabili all'imputato St., dunque, si concludono con l'approvazione delle due delibere; se la disposizione del sindaco non fosse stata data, non si sarebbe realizzata alcuna ipotesi di reato, poichè non può costituire reato una delibera di indirizzo o di disposizione di pagamento, essendo necessaria anche l'effettiva consegna del bene. La parte della sentenza che riguarda l'elemento soggettivo si occupa quasi esclusivamente di argomenti che possono essere riferiti solo al sindaco.
6. Il ricorso sottoscritto dall'avvocato Giulia Bongiorno è composto da tre motivi.
6.1.1 Il primo motivo denuncia la violazione di legge penale in relazione all'art. 323 c.p. e il relativo vizio motivazionale.
In primo luogo si sostiene che la corte ha errato nel ritenere ingiusto il vantaggio patrimoniale, in riferimento all'avere i dipendenti comunali percepito erogazioni non dovute e all'avere subito un danno ingiusto l'altro candidato sindaco B.V..
Sussiste così contrasto con il connotato della cd. doppia ingiustizia, da valutare, nell'abuso d'ufficio, non solo sul piano della condotta ma anche dell'evento di vantaggio patrimoniale, che deve cioè risultare non spettante in base al diritto oggettivo, non derivando l'ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità del mezzo utilizzato per conseguirlo, ossia dall'eventuale accertata illegittimità della condotta, come insegna la giurisprudenza. E la carenza dell'elemento dell'ingiustizia è emersa dalle decisioni del Tar di Catania che hanno annullato per disparità di trattamento e ingiustizia manifesta la O.P.C.M. del 10 giugno 2005 n. 3442, stabilendo che tutti i lavoratori dipendenti di Catania e non solo quelli residenti nei Comuni indicati in tale ordinanza avevano diritto alla restituzione dei contributi indebitamente versati.
Non rileva la posteriorità di tali sentenze: il loro contenuto mina irreversibilmente il ragionamento della corte territoriale, sia quanto alla obiettiva ingiustizia del vantaggio patrimoniale, sia quanto al dolo (avuto riguardo anche alla rilevanza dell'errore ex art. 47 c.p.) con conseguente impossibilità di sostenere che gli imputati abbiano agito con l'intenzione di far conseguire ai dipendenti un vantaggio indebito.
Deve inoltre evidenziarsi che l'erogazione non mirava a procurare un vantaggio patrimoniale ai dipendenti, bensì riconosceva loro una situazione meritevole di tutela ed era finalizzata a evitare un maggior danno alla stessa amministrazione che poteva derivare da un pericoloso contenzioso con i lavoratori. Il riferimento all'ulteriore danno al patrimonio e al contenzioso che poteva insorgere come elementi da evitare si trova nella motivazione della Delib. n. 644;
era inoltre specificato che la corresponsione sarebbe avvenuta pro solvendo, contestualmente rilasciando il dipendente una dichiarazione di cessione in suo favore per il relativo importo pagato con impegno alla restituzione se l'importo anticipato fosse in seguito risultato non dovuto, anche con sentenza non definitiva, da parte dell'Inpdap. A ciò si aggiunga che la Delib. n. 629 del 2005, disponendo il recupero delle somme e la revoca delle delibere precedenti, aveva evitato l'ingiusto arricchimento dei dipendenti e il preteso danno all'amministrazione, per cui non è comprensibile quale effettivo e duraturo vantaggio sia derivato ai dipendenti comunali.
6.1.2 In secondo luogo, si adduce che la corte ha errato nel valutare la sussistenza del danno ingiusto anche in relazione a quello che sarebbe stato patito dall'altro candidato B.V.. La sentenza dichiara che la elargizione da parte del sindaco e degli assessori ha oggetti va mente allargato il loro bacino di consensi appena prima della tornata elettorale, realizzando un immediato ed evidente danno a B.V. le cui possibilità di elezione sono state oggettivamente alterate (si vedano pag. 125 e pagg. 128 ss.). Se è vera la risarcibilità dei danni non patrimoniali, ben difficilmente possono ricadervi semplici aspettative di ritorno elettorale, che avrebbero comunque dovuto essere rigorosamente provate, cosa che peraltro era impossibile.
Il danno inoltre deve essere specificamente collegato al proposito criminoso e non semplicemente accettato come conseguenza accessoria (la giurisprudenza insegna che deve essere conseguenza diretta ed immediata del comportamento dell'agente, non essendo sufficiente che sia conseguenza naturale di una condotta posta in essere per un fine diverso): è quindi errato attribuire un rilievo a un correlato danno da perdita di chances elettorali.
Quanto al danno all'amministrazione, si deve ribadire che l'impegno di spesa prevista dalle delibere era giustificato dalla necessità di evitare un maggior danno patrimoniale al Comune derivante dall'esito delle controversie instaurate dai dipendenti (viene richiamata la testimonianza dell'avvocato del Comune P., che aveva dichiarato di aver fatto presente in una riunione con il sindaco una posizione di grande difficoltà con i dipendenti e il rischio delle azioni di 4500 persone per recuperare il prestito agevolato cui avevano diritto).
6.1.3 La corte ha poi errato nel ritenere sussistente il dolo intenzionale, non potendosi ricavare la prova dell'intenzionalità solo dal comportamento non iure tenuto dall'agente. Invece la corte ha evinto l'intenzionalità dell'evento dal richiamo a riflessi psicologici della condotta, interessati, semmai, dal dolo generico.
E' inoltre non condivisibile l'assunto della corte che vi sarebbe una indiscussa obiettiva condizione che fa valutare l'intenzionalità, cioè il collegamento logico-temporale tra la concessione dell'ingiusto vantaggio patrimoniale al dipendente pubblico comunale la settimana, prima delle elezioni e l'interesse privato di ogni imputato, quale candidato alle elezioni nella stessa coalizione politica che sosteneva il sindaco uscente, a compiere atti che lo mostrava agli elettori come benefattore e perciò meritevole di ricevere il voto del soggetto beneficiato ingiustamente (pag. 217):
questa è infatti una congettura insuscettibile di verifica empirica.
6.1.4 Per di più, seguendo la sentenza di primo grado, la sentenza d'appello ha operato una contraddittoria distinzione fra gli assessori ricandidati e i non ricandidati, questi ultimi essendo stati assolti perchè, non essendo portatori di alcun interesse personale, non se ne era provata la colpevolezza. In particolare la corte (pagg. 158-159) ha dichiarato che, non essendovi stato gravame del PM, non era suo compito valutare se era stata corretta l'esclusione del dolo intenzionale degli assessori votanti che non si ripresentavano candidati, ma che era certamente un elemento rafforzativo tale aspetto, cioè che vi è stata anche l'incidenza, per gli imputati che erano candidati, della loro peculiare obiettiva condizione soggettiva la quale, ben pubblicizzata, li faceva diventare artefici di una soluzione positiva - consistente però in un vantaggio patrimoniale ingiusto - a favore dei dipendenti comunali anche elettori. In tal modo il dolo è stato dimostrato sulla base di una mera presunzione, da una congettura e non da una massima di esperienza.
6.1.5 Va inoltre considerato che è stato provato che l'imputato ha agito per realizzare gli interessi generali dell'amministrazione, in questo confortato dall'avvocatura comunale nei suoi pareri e dalle oscillazioni dello stesso Inpdap. Non vi è reato quando la volontà è volta a realizzare un interesse collettivo meritevole di tutela:
il che si è verificato nel caso di specie in cui gli imputati sicuramente hanno agito per un fine pubblico, con conseguente degradazione del dolo di danno o di vantaggio da intenzionale a dolo diretto o eventuale.
6.1.6 Infine, si rileva che, se il preteso abuso deriva da una incompleta e/o errata interpretazione di disposizioni normative o da una negligente applicazione di una prassi amministrativa, il fatto non costituisce reato per difetto dell'elemento psicologico, come insegna la giurisprudenza (diversamente il processo penale si configurerebbe quale ulteriore grado di giurisdizione per vicende proprie della giustizia contabile e amministrativa).
6.2 Il secondo motivo denuncia violazione della legge penale rispetto al T.U. 30 marzo 1957, n. 361, art. 95 e correlato vizio motivazionale.
La corte avrebbe operato un arbitrario ampliamento della fattispecie, destinata a prevenire le "elargizioni" prive di adeguata giustificazione, ovvero dettate da spirito di liberalità, idonee a ledere la libertà delle elezioni, e non invece a inibire l'attività amministrativa diretta alla soddisfazione dell'interesse pubblico. La corte ha riscontrato nel caso in esame un puro spirito di liberalità, in realtà assente, trattandosi di una cessione pro solvendo stipulata tra cedente (il Comune di Catania) e cessionario (il suo dipendente) cui il debitore Inpdap restava estraneo. Nè poteva definirsi quanto versato elargizione visto il rapporto di lavoro sussistente. Le migliaia di istanze dei dipendenti dimostravano come questi non ritenevano tale corresponsione un'elargizione bensì un proprio diritto; e le pronunce del Tar di Catania, ammettendo il diritto di sospensione del versamento dei contributi in capo a tutti i lavoratori dipendenti del Comune di Catania, consentivano di escludere rilievo alla fattispecie di cui all'art. 95 citato, scriminata almeno sotto il profilo putativo ex art. 51 c.p. e art. 59 c.p., comma 1.
6.3 Il terzo motivo denuncia violazione del T.U. 30 marzo 1957, n. 361, art. 95 e art. 323 c.p. e con riferimento alla clausola di sussidiarietà dell'abuso d'ufficio.
Errato è stato ammettere il concorso tra i due reati contestati nonostante la clausola di riserva dell'art. 323 c.p. imponesse l'assorbimento del delitto di abuso d'ufficio nel più grave illecito elettorale. La sentenza ha ritenuto che la clausola di sussidiarietà non opera in caso di diversità dei beni giuridici tutelati (pag.187) e ha altresì dichiarato non trattarsi dello stesso fatto, perchè il reato elettorale costituisce una sola parte dell'assai più specifica condotta del reato di abuso d'ufficio (pagg. 187-188). Invece la giurisprudenza insegna che la tutela di diversi beni giuridici non pone al criterio di sussidiarietà un limite, che è proprio semmai del diverso principio di specialità; secondo la giurisprudenza prevalente, dato il carattere sussidiario e residuale dell'abuso d'ufficio l'imputato avrebbe dovuto rispondere solo del reato elettorale.
7. La difesa di D.O. e di D.M.I. ha presentato ricorso articolato su cinque motivi.
7.1 Il primo motivo denuncia erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione, ed è ripartito in tre punti.
7.1.1. In primo luogo si censura la corte per avere ritenuto le Delib. nn. 644 e 655 rispettivamente del 10 e del 12 maggio 2005 atti di gestione concreta, in quanto tali preclusi alla Giunta comunale ai sensi del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 3 e art. 107 T.U.E.L., anzichè atti di indirizzo politico. In realtà, all'epoca dell'adozione delle due delibere non era ancora stato approvato il bilancio preventivo per l'anno 2005, per cui l'organo collegiale, proprio perchè operante in regime di gestione provvisoria, doveva supplire alla mancanza di indirizzi programmatici; così fece la Giunta, chiamata a intervenire su una situazione di accertata emergenza, in ossequio alle indicazioni dettate dal consiglio comunale nella riunione del 21 marzo 2005. D'altronde la stessa corte (a pag. 156) riconosce la ineseguibilità della Delib. n. 644 perchè non indica il capitolo di spesa su cui far gravare l'esborso.
7.1.2 In secondo luogo la corte ha correttamente rilevato che, in regime di gestione provvisoria, cioè in mancanza di bilancio preventivo, ai sensi degli artt. 163 e 182 T.U.E.L. non era consentito all'ente locale di assumere impegni di spesa a parte determinate ipotesi, tra cui il pagamento del personale; e nel caso di specie i pagamenti ai dipendenti furono limitati alla quota di interessi loro spettante a seguito di erroneo versamento anticipato all'Inpdap delle ritenute previdenziali nonostante la sospensione operata dall'art. 5, comma 1, dell'Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 novembre 2002 n. 3254: si trattò quindi di una parte di retribuzione rimborsata, che i dipendenti avevano diritto a ricevere.
7.1.3 In terzo luogo, erroneamente la corte ritiene che il pagamento disposto dalle due delibere in questione sia vietato dal D.P.R. 30 marzo 1957 n. 361, art. 95 visto che in nessuno dei due atti erano stati fissati i termini di pagamento, affidati all'ufficio competente, cioè la ragioneria generale, anche se poi le modalità di pagamento furono determinate con una disposizione scritta impartita dal sindaco il 13 maggio 2005 alla suddetta ragioneria.
D'altronde i dipendenti comunali non hanno ricevuto un ingiusto vantaggio patrimoniale perchè l'erogazione era qualificata espressamente pro solvendo; e infatti i dipendenti hanno dovuto restituire quanto ricevuto a seguito del mancato accoglimento del ricorso dell'avvocatura comunale da parte del Tribunale di Catania, e anche perchè la Delib. 7 dicembre 2005, n. 629 che ha disposto la restituzione ha rilevato che con ordinanza del 10 giugno 2005, successiva quindi alle due Delib. nn. 644 e 645 della Giunta comunale di Catania, la Protezione civile aveva definitivamente identificato i Comuni della provincia destinatari della sospensione in questione, non comprendenti il Comune di Catania. La motivazione dunque è illogica laddove attribuisce all'atto frutto dell'abuso, cioè alle due Delib. nn. 644 e 645, efficacia causale quanto alla verificazione dell'evento (acquisizione di ingiusto vantaggio patrimoniale da parte dei dipendenti).
Ancora, la corte, nelle pagg. 176-180 della motivazione, ha ritenuto sussistente il reato elettorale distinguendo le elargizioni (atti di liberalità a qualsiasi titolo compiuti, e in quanto tali illegittimi nella settimana precedente le elezioni) dalle erogazioni che, se straordinarie, sarebbero vietate. La corte ha ignorato che l'erogazione era soltanto il pagamento di somme dovute ai dipendenti quale postumo versamento di quote di retribuzioni erroneamente a loro non corrisposte per la non attuata sospensione del versamento degli oneri previdenziali: non era quindi qualificabile erogazione straordinaria.
7.2 Il secondo motivo denuncia erronea applicazione della legge penale, mancata assunzione di prova decisiva disponibile e manifesta illogicità della motivazione.
7.2.1 Sulla consapevolezza e volontà degli imputati di contribuire con il loro voto a un abuso d'ufficio e al contestato reato elettorale la corte si è avvalsa più volte delle dichiarazioni del teste D'., da un lato contraddette dal dirigente dell'ufficio personale di Catania dottor R. laddove questi dichiara che mai nessun assessore partecipò alle riunioni relative alla tematica in oggetto con il sindaco, dall'altro esse stesse lasciando intendere che l'unico interessato in questa vicenda era il sindaco, che rischiava non solo di perdere le elezioni rispetto all'altro schieramento, ma anche di essere sostituito entro il suo da candidati alternativi (pagg.126-127); e il forte interesse del sindaco è stato dimostrato dalle sue disposizioni del 13 maggio 2005.
7.2.2 Erra la corte anche nel ritenere che l'avvocatura comunale avesse dato parere contrario: tale parere contrario riguardava solo una ordinanza d'urgenza del sindaco, non le delibere poi adottate dalla Giunta. La corte è incorsa in travisamento dell'elemento di prova, come risulta dalla testimonianza dell'avvocato P..
7.2.3 Erronea sarebbe altresì l'osservazione della corte che la Delib. n. 644 era illegittima anche perchè sprovvista del parere di regolarità contabile del ragioniere generale (pagg. 42 e 63), pur avendo questi dichiarato (pag. 46) che la delibera, non prevedendo alcun impegno di spesa, non esigeva un suo parere. La corte ha inoltre svalutato la portata dimostrativa della legittimità della Delib. n. 645 desumibile dal parere di regolarità tecnica, espresso dal segretario generale Gi., e contabile con attestazione di copertura finanziaria, formulato dal ragioniere generale C. (pagg.113-114), giungendo addirittura (pag.115) a ritenere non necessario che gli assessori sapessero con certezza che il pagamento sarebbe avvenuto prima delle elezioni.
7.2.4 Non è comprensibile inoltre il ragionamento per cui la corte attribuisce agli assessori competenza specifica: questi non potevano vantare alcuna dimestichezza con le norme regolanti la gestione amministrativa e finanziaria dell'ente. D'altronde la motivazione delle due delibere non presentava manifesta irragionevolezza perchè in gran parte riproduceva il ricorso proposto dall'avvocatura del Comune il 21 aprile 2005 al Tribunale di Catania, e rispecchiava gli orientamenti emersi nella riunione del consiglio comunale del 21 marzo 2005.
7.2.5 Sempre in tema di accertamento dell'elemento psicologico del reato di abuso d'ufficio, la difesa dei ricorrenti rammenta di aver impugnato l'ordinanza 30 giugno 2006 con cui il giudice di primo grado aveva respinto la richiesta di ammissione della testimonianza di B.G., F.E., L.G. e C.A. per dimostrare gli esatti indirizzi da loro impartiti alle amministrazioni locali; sul relativo motivo d'appello la corte territoriale ha errato perchè non le era stata chiesta l'assunzione di nuove prove, bensì l'ammissione di testimonianze già richieste in primo grado, per cui non avrebbe dovuto verificare la necessità della rinnovazione ex art. 603 c.p.p bensì la rilevanza della prova richiesta ex art. 495 c.p.p..
7.3 Il terzo motivo denuncia erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione laddove la corte ha escluso l'applicabilità della clausola di sussidiarietà di cui all'art. 323 c.p. in presenza di fattispecie poste a tutela di interessi giuridici differenti (pagg. 186 ss.) contrastando la giurisprudenza di legittimità e pervenendo a erronea applicazione dell'art. 81 c.p. rispetto ai due reati contestati.
7.4 Il quarto motivo denuncia la mancata declaratoria della prescrizione, ritenuta applicabile quella di due anni dalla data del verbale ultimo delle elezioni prevista dal D.P.R. 16 maggio 1960, n. 370, art. 100: diversamente opinando vengono violati l'art. 25 Cost., art. 14 prel. c.c. e art. 1 c.p., per cui i giudici di merito avrebbero dovuto prendere atto della sopravvenuta causa estintiva del reato.
7.5 Il quinto motivo censura erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione quanto alla scelta del trattamento sanzionatorio.
Gli argomenti difensivi esposti sono stati ripresi anche nella memoria successivamente depositata.
8. La difesa di G.F. si articola su quattro motivi.
8.1 Il primo motivo, ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), denuncia l'erronea applicazione dell'art. 323 c.p. sotto il profilo della ritenuta sussistenza della abusività della condotta dell'imputato, senza valutare le difese. La Delib. 10 maggio 2005, n. 644 non era illegittima bensì doverosa e inevitabile: al riguardo il ricorrente svolge una ricostruzione fondata sui vari provvedimenti attinenti all'applicazione del beneficio di sospensione dei versamenti previdenziali di cui alla O.P.C.M. del 29 novembre 2002 n. 3254, evidenziando che vi era stata anche interpretazione inclusiva del Comune di Catania. E' infatti di difficile comprensione ritenere che quando si fa riferimento ai comuni di una determinata provincia se ne esclude il capoluogo. L'insussistenza dell'esclusione ritenuta dal sindaco e dagli assessori fu sostenuta dai pareri del ragioniere generale e dell'avvocatura comunale. Il Comune di Catania nel periodo interessato dalla sospensione (novembre 2002-marzo 2004) aveva versato Euro 56.728.213,72 e numerosi tra i destinatari dei benefici intendevano agire giudiziariamente contro il Comune e l'Inpdap, tenuto conto anche del fatto che dipendenti di altre amministrazioni (per esempio Carabinieri e Marina militare ) avevano goduto delle agevolazioni. Pressato da più parti il sindaco di Catania indiceva una serie di lavori preparatori alle cui riunioni G. però non ha mai partecipato; parimenti non ha partecipato alla riunione della Giunta del 10 maggio 2005 e all'approvazione della Delib. n. 644, che è comunque un atto di indirizzo politico. La Delib. 12 maggio 2005, n. 645 ebbe solo il fine di integrare, con l'acquisizione dei pareri tecnici previsti dall'Ordinamento degli enti locali (erano presenti infatti l'Avvocato Capo e il Ragioniere Generale), quanto precedentemente deciso; l'imputato la votò nella piena convinzione della legittimità - considerati i pareri tecnico-legali e il visto di legittimità del Segretario Generale acquisiti - e doverosità; si trattava comunque di un atto di indirizzo politico anzichè di gestione finanziaria come ritenuto in sentenza.
8.2 Il secondo motivo, ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), denuncia l'erronea applicazione dell'art. 323 c.p. quanto al dolo intenzionale, erroneamente e immotivatamente ritenuto sussistente nella condotta dell'imputato, finalizzata invece ad evitare al Comune, già in grave sofferenza economica, ulteriori danni. Ai fini dell'art. 323 c.p. sono infatti penalmente perseguibili solo le condotte denotate da prava voluntas, cioè unicamente dal favoritismo verso il beneficiario, non essendo punibile una condotta diretta a realizzare gli interessi della pubblica amministrazione anche se simultaneamente con il consapevole risultato di creare a taluno un vantaggio ingiusto, come giurisprudenza di legittimità insegna. Non è poi giustificabile come, pur avendo esse tenuto lo stesso tipo di comportamento ad altre amministrazioni ciò non sia stato contestato ex art. 323 c.p.; e se vi è stato abuso, vi è stato per tutti gli imputati, a prescindere dal reato elettorale, e quindi non si spiega il proscioglimento in primo grado di due dei componenti della Giunta che approvarono entrambe le delibere.
8.3 Il terzo motivo denuncia vizio motivazionale in relazione al D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, art. 95 quanto agli elementi costitutivi del reato rappresentati da elargizioni di denaro e imminenza delle elezioni: elargizione implica liberalità, nel caso inesistente poichè le delibere miravano a un dovuto risarcimento ed erano comunque giustificate dal convincimento di una implicita doverosità atta a evitare un maggior danno all'erario comunale.
8.4 Il quarto motivo denuncia ancora vizio motivazionale in relazione al D.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, art. 95 laddove si è ritenuto sussistente un concorso formale tra esso e l'art. 323 c.p..
Erroneamente infatti è stata pronunciata condanna ritenendo sussistente continuazione tra i due reati, invece di accertare che si trattava di un'ipotesi di concorso apparente di norme, applicando ex art. 15 c.p. il principio di specialità, che include quello di sussidiarietà. L'abuso d'ufficio è strutturato infatti come fattispecie tipica con caratteristiche eventuali di sussidiarietà, per cui non è applicabile quando la condotta incriminata integra un più grave reato; e più grave è il citato art. 95.
Inoltre, come insegna giurisprudenza di legittimità, l'art. 95 è fattispecie che prescinde da ogni rapporto personale diretto tra l'agente e i singoli elettori; se il rapporto esiste, si versa nell'art. 96 dello stesso D.P.R., fattispecie che in astratto sarebbe qui ricorrente poichè le delibere sarebbero utilizzate per elargire ai dipendenti comunali soltanto, ma che in concreto non è supportata da presupposti probatori, non essendo emerso dalle indagini alcun contatto per promesse elettorali tra gli amministratori comunali e i dipendenti del Comune.
9. Il ricorso della difesa di F.F. è composto da cinque motivi.
9.1 I. primo motivo prospetta violazione dell'art. 178 c.p.p., lett. c), e art. 546 c.p.p., lett. c), per mancanza della imputazione.
L'imputazione, ex art. 546 c.p.p., lett. c), è uno dei requisiti della sentenza, e in suo difetto sussiste nullità assoluta del provvedimento; inoltre tale carenza ha compromesso la difesa incaricata della impugnazione che non ha potuto per tempo reperire tutti gli atti del procedimento, trovandosi nella impossibilità di risalire alla ricostruzione del fatto descritto nella imputazione, con conseguente nullità della sentenza anche ex art. 178 c.p.p., lett. c).
9.2 Il secondo motivo denuncia violazione degli artt. 40 e 41 c.p., artt. 3, 24, 27 e 111 Cost., art. 6 p. 1 CEDU, e il correlato vizio motivazionale. La sentenza infatti non valuta la condotta dell'imputato ma compie solo una disamina indifferenziata del fatto oggetto di imputazione, violando il principio costituzionale secondo cui la responsabilità penale è personale, nonchè l'art. 40 c.p..
Sostiene il ricorrente che il segmento causale e cronologico della partecipazione ai fatti dell'imputato è alieno alla integrazione delle violazioni di legge penale oggetto della sentenza giacchè il meccanismo eziologico che ha portato alla dazione del denaro si è innescato in un momento successivo e indipendente, individuabile nella Delib. 12 maggio 2005, n. 645 cui l'imputato non ha partecipato e nel cui ambito si è realizzato interamente l'atto dispositivo del patrimonio. La sentenza non ha accertato quello che avrebbe dovuto preliminarmente verificare, cioè che la Delib. 10 maggio 2005 sia stata da sola idonea a produrre il trasferimento di denaro ritenuto indebito, con effetti sotto il profilo amministrativo e contabile.
Dunque ha violato l'art. 40 c.p. - che esclude la condanna per fatti che non siano conseguenza dell'azione od omissione dell'imputato -, l'art. 41 c.p. - secondo cui il nesso di causalità è interrotto in presenza di cause sopravvenute da sole idonee a causare l'evento (e ciè è la Delib. n. 645) -, gli artt. 27, 24 e 111 Cost., nonchè l'art. 6 CEDU, in relazione alle garanzie del giusto processo.
9.3 Il terzo motivo denuncia violazione degli artt. 42, 43, 47, 323 c.p. e D.P.R. n. 391 del 1957, art. 95 nonchè il correlato vizio motivazionale. Difetta la sentenza dell'accertamento dell'elemento soggettivo dell'imputato, violando così l'art. 42 c.p., comma 2, e art. 43 c.p. e non tenendo conto che proprio lo svolgimento dei fatti da essa stessa descritto consente di escluderlo. Entrambi i reati contestati necessitano il dolo intenzionale, e quindi che l'agente realizzi la condotta illecita proprio al fine di cagionare l'evento:
non è sufficiente un dolo eventuale. Quando furono emesse le delibere il fatto presupposto che rendeva dovuta la "elargizione" non era messo in discussione perchè era stato dichiarato lo stato di emergenza per tutta la provincia di Catania e pertanto risultavano sospesi i contributi previdenziali e assistenziali da parte delle singole istituzioni. La necessità di corrispondere le somme ai contribuenti quale rimborso per i contributi versati non dovuti era fondata, come dimostrava la proposizione di numerosissimi ricorsi in sede amministrativa, i cui esiti di accoglimento nelle sentenze del Tar di Catania erano stati acquisiti al giudizio penale all'udienza dell'11 febbraio 2006. La condotta di chi ha concorso alla corresponsione allora potrebbe essere connotata tutt'al più da un errore sul fatto presupposto alla commissione del reato, rispetto al quale l'art. 47 c.p. esclude la punibilità: infatti la necessità della corresponsione era stata univocamente riconosciuta in favore dei dipendenti pubblici dei comuni della provincia di Catania e si poneva in forma dubitativa rispetto ai dipendenti del capoluogo, parimenti colpiti dallo stato di emergenza. Pertanto non vi è stato dolo, e tantomeno intenzionale, in capo all'imputato, la cui condotta - se la si ritiene colpevole nonostante la mancanza del nesso causale - sarebbe caratterizzata al più da un errore di fatto incidente sulla formazione dell'elemento volitivo o, a tutto concedere, da colpa (sotto forma di imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi) nella valutazione dei presupposti idonei a condurre al rimborso. Il fatto stesso che la pronuncia si dilunghi nella ricostruzione dei dati normativi e dei chiarimenti dati dalle autorità per applicarli è poi chiaro riconoscimento della confusione normativa presente al momento della Delib. n. 644.
9.4 Il quarto motivo denuncia violazione degli artt. 42 e 43 c.p. e D.P.R. n. 391 del 1957, art. 95, nonchè il correlato vizio motivazionale.
Il citato art. 95, infatti, punisce chi nella settimana che precede la elezione o nella giornata della elezione effettua elargizioni di denaro; ma la Delib. 10 maggio 2005, n. 644 escludeva l'immediatezza della corresponsione decidendo invece di procedervi nei modi e nei tempi concordati con la ragioneria generale; pertanto la partecipazione dell'imputato alla seduta del 10 maggio 2005 non ha comportato alcun impegno finanziario ma un mero atto di indirizzo. La sentenza è dunque inficiata dal vizio della omessa verifica della sussistenza degli elementi costitutivi del reato elettorale in capo all'imputato, e ciò si riverbera sulla legittimità della motivazione.
9.5 Il quinto motivo (erroneamente rubricato come quarto) denuncia la violazione dell'art. 192 c.p.p., art. 546 c.p.p., lett. c) e artt. 40, 41, 42 e 43 c.p., nonchè il correlativo vizio motivazionale.
E' inconsistente il ragionamento probatorio posto a fondamento della declaratoria di responsabilità, nonostante quanto appare dalla mera lettura del testo delle Delib. nn. 644 e 645. I giudici avrebbero dovuto tener conto che nella Delib. n. 644 non è scritto, come invece nel verbale, che le somme avrebbero dovuto essere pagate in due rate, una delle quali immediata; inoltre, per ritenere la condotta della Giunta nel corso della Delib. 10 maggio 2005 idonea a produrre illecito trasferimento di denaro o a crearne le concrete condizioni i giudici avrebbero dovuto spiegare perchè erano stati ripresi e votati nella seconda delibera gli stessi punti che già erano stati approvati nella prima. In realtà la seconda delibera è intitolata "integrazione" di quella precedente, il che logicamente porta a dedurre che, se la prima avesse contenuto tutti gli elementi idonei per la corresponsione delle somme, la seconda non sarebbe stata necessaria. Ne conseguono evidenti carenze motivazionali della sentenza, giunta a sostenere l'incidenza della prima deliberazione sulla dazione di denaro paragonandola alla seconda e ritenendola un vero atto di gestione finanziaria. Ancora, la sentenza ha dichiarato che la finalità perseguita dagli imputati (la possibile rielezione) esigeva una immediata definizione dell'impegno di pagamento. Ma allora o la Giunta aveva fretta di pagare prima delle elezioni, e dunque vi avrebbe provveduto con un unico atto nella seduta del 10 maggio 2005, oppure si ammette che con la seconda delibera la Giunta ha manifestato una nuova e differente volontà. Non è poi sostenibile che i giudici ritenessero implicitamente che con la prima deliberazione si voleva l'evento, risultato però irrealizzabile per difetto della imputazione di spesa, così da rendere necessaria la seconda delibera; in tal caso comunque la mancata individuazione del capitolo di spesa renderebbe impossibile il reato con la prima delibera, rimasto nell'area della pura intenzione. Vi è dunque violazione dell'art. 546 c.p.p., lett. c), per la mancata enunciazione delle ragioni contrarie alla estraneità dell'imputato ai fatti a lui ascritti. E' poi apodittica l'affermazione che la Delib. n. 644 non è atto di indirizzo politico perchè corrispondere al personale il risarcimento del danno è scelta dell'amministrazione esecutiva, come lo è procedere alla corresponsione nei modi e nei tempi concordati con la ragioneria generale (pag. 42 della motivazione): in realtà il 10 maggio 2005 non erano ancora stati adottati provvedimenti di natura esecutiva, mancando anche il parere di regolarità contabile del ragioniere generale C.; e la sentenza incorre in contraddizione laddove da un lato qualifica la Delib. n. 644 un vero e proprio atto di gestione finanziaria (pag.195), quindi con valenza esecutiva, non essendo un mero atto di indirizzo politico (pag. 42), e dall'altro riporta le dichiarazioni del ragioniere generale il quale esclude che tale delibera avesse avuto natura esecutiva (pag. 43). Secondo il ricorrente, in realtà, la Delib. n. 644 era atto di indirizzo politico inidoneo al fine esecutivo, e solo la Delib. n. 645, con la previsione dei capitoli su cui far gravare la spesa disposta, per la prima volta decideva la corresponsione effettiva delle somme. E' illogico pertanto ritenere la sussistenza di causalità tra la condotta dell'imputato e la Delib. n. 645, assolutamente indipendente dalla sua volontà.
10. Con memoria depositata il 22 ottobre 2012 la difesa di F. ha introdotto due ulteriori motivi.
10.1 Con il sesto motivo in tal modo aggiunto è denunciata, ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), la violazione degli artt. 110 e 323 c.p., D.P.R. n. 361 del 1957, art. 95, art. 192 c.p.p., artt. 24 e 111 Cost., evidenziando che, per il delitto di cui al capo A, l'ingiusto vantaggio patrimoniale si concretizza nell'ingiusto profitto conseguito dai dipendenti per l'elargizione, solo la condotta di elargizione consumando quindi il delitto, e che a uguali conclusioni porta il delitto del capo B, dato che prima dell'elargizione non poteva essere perpetrato; nessun suo segmento condottuale sarebbe stato permeato dalla consapevolezza che l'elargizione sarebbe avvenuta nella settimana precedente le elezioni e dalla volontà che in tale periodo la disponibilità manifestata dal Comune si concretizzasse. Se per entrambi i reati, allora, la condotta penalmente rilevante consiste nella elargizione di denaro, il coinvolgimento del ricorrente a titolo di concorso esige una sua fattiva partecipazione alla elargizione di denaro, ovvero una condotta tale da costituire antecedente causale necessario alla elargizione. Ma il ricorrente era assente quando fu deliberata, nell'ammontare e nei tempi, l'elargizione. Non vi è quindi condotta di rilievo concorsuale, la sua partecipazione a titolo di concorso essendo così indeterminata da non lasciare la possibilità di individuare con precisione la condotta sanzionabile, in conflitto con il principio di tassatività e in lesione del diritto di difesa e del giusto processo.
10.2 Aggiunto infine è il settimo motivo, che denuncia, ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), la violazione degli artt. 42, 43, 47 e 323 c.p., D.P.R. n. 361 del 1957, art. 95, poichè la sentenza manca dell'accertamento della illegittimità del rimborso e, prima ancora, della consapevolezza della illegittimità da parte degli assessori.
11. Si è costituita la parte civile B.V. a mezzo del suo difensore, depositando una memoria con cui ha contraddetto i motivi del ricorso della difesa di S.U., nei cui confronti soltanto sussiste il rapporto processuale, e richiesto in conclusione il rigetto di tale ricorso, con vittoria di spese.
(Torna su   ) Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
12. La sintesi delle difese delle parti ricorrenti appena effettuata evidenzia che taluni dei motivi sono condivisi, in modo completo o parziale, da alcune di esse; di ciò si terrà conto nel percorso di vaglio dei singoli ricorsi.
12.1 Il primo motivo del ricorso di S.U. attiene al rigetto della richiesta, presentata nei motivi d'appello, di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per un'audizione di testi che viene prospettata come prova decisiva in ordine a entrambi i reati contestati. In particolare, secondo il ricorrente, le deposizioni testimoniali avrebbero consentito di indagare a fondo l'aspetto psicologico con cui gli imputati avevano trattato la problematica, in tal modo potendosi confutare sia il dolo intenzionale del delitto di cui all'art. 323 c.p. sia lo spirito di liberalità delle elargizioni rilevanti ai fini del delitto elettorale. Censura il ricorrente la sentenza impugnata per non avere adempiuto l'obbligo motivazionale sulle ragioni per cui ha disatteso la richiesta. Allo scopo indica alcuni passi (pag. 12, pag. 119, pag.
13) che rappresenterebbero la incongruità e la illogicità della motivazione sul punto.
12.2 Il motivo è infondato. Ciò emerge anzitutto dalla stessa contraddittorietà con cui è formulato: la prova viene qualificata decisiva, per quanto riguarda l'abuso d'ufficio, in riferimento al dolo intenzionale; pur tuttavia, il ricorrente secerne dalla motivazione della sentenza impugnata proprio il passaggio (pag. 13) in cui il giudice di merito afferma che il dolo intenzionale che deve sorreggere la condotta dell'abuso d'ufficio va tratto da elementi obiettivi, e non si può "delegare" ai testi. Sostiene il ricorrente che ciò dimostrerebbe illogicità, errando incomprensibilmente il giudice nel ritenere che la difesa intendesse delegare ai testi il giudizio sulla sussistenza del dolo. La lettura del ricorrente non è impostata in modo adeguato, non tenendo conto, come esigono tanto la precisione nella percezione, quanto l'esattezza nella recezione del significato (incompatibile con l'estrapolazione isolante dei segmenti di un ragionamento unitario e complesso, giacchè, come insegna Cass. sez. 2^, 22 aprile 2008 n. 18163, solo l'esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento si contestualizza consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi di prova, o al contrario la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell'impianto argomentativo della motivazione), del fatto che il verbo "delegare" è posto tra le virgolette. Contestualizzando, invece, la parte conclusiva del ragionamento della corte (quella che attiene, a pag.13, al "delegare") con il precedente percorso del ragionamento stesso (che si prolunga per una pagina e mezzo, a partire dalla metà di pag. 11 della motivazione) risulta evidente che la corte non ha mai attribuito alla difesa alcuna delega ai testi in senso proprio, bensì ha usato una espressione non del tutto congrua (come ha dimostrato di essere consapevole ponendola tra virgolette) ma comunque inequivoca per concludere, ormai ad abundantiam, quanto aveva in precedenza già nettamente e chiaramente esposto.
12.3 L'estrapolazione decontestualizzante (e pertanto non idonea a illustrare il reale contenuto del ragionamento del giudice: cfr.
altresì Cass. sez. 2^, 11 gennaio 2007 n. 7380 e Cass. sez. 1^, 11 novembre 1998 n. 13528) inficia, seppure in modo meno marcato, anche gli ulteriori due riferimenti alla motivazione (pag.12 e pag. 119) attuati dalla difesa. E ciò conduce al centro della censura mossa alla corte territoriale: il rigetto della richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per una prova testimoniale prospettata come decisiva.
Premesso che è esatto l'asserto della sussistenza di un obbligo di congrua motivazione del rigetto della richiesta di rinnovazione dibattimentale, occorre peraltro un breve approfondimento sulla conformazione dell'interpretazione giurisprudenziale al riguardo.
Deve infatti distinguersi la fattispecie in cui il presupposto della richiesta è la prova nuova e sopravvenuta rispetto a quel che era l'oggetto di quella species del diritto di difesa che è il potere dispositivo probatorio in primo grado dalla fattispecie in cui la richiesta in secondo grado costituisce ancora esercizio del potere dispositivo espletato nel grado precedente, nel senso che ripropone istanze in esso già respinte. In quest'ultimo caso, evidentemente, non vi è richiesta di deroga alla presunzione di completezza propria del compendio probatorio acquisito in primo grado, bensì manifestazione del diritto di difesa nella conformazione di tale compendio. A ciò corrisponde, logicamente, un diverso grado di tutela dal libero convincimento del giudice attraverso quello strumento che intrinsecamente lo confina rappresentato dalla motivazione. Nel primo caso, la tutela è più tenue, rientrando pienamente nel libero convincimento del giudice la valutazione di poter giudicare o meno allo stato degli atti; nel secondo, invece, non si riscontra alcun ambito discrezionale, dovendo il giudice d'appello decidere ex art. 190 c.p.p. anzichè ex art. 603 c.p.p. (Cass., sez. 6^, 10 ottobre 2006-16 gennaio 2007 n. 761; Cass., sez. 5^, 9 giugno 2004 n. 26885) esercitando adeguatamente, ed esternandolo tramite la garanzia motivazionale, il potere, simmetrico rispetto al diritto alla prova della parte, di escludere le prove manifestamente superflue ed irrilevanti (cfr. S.U. 25 febbraio 2010 n. 15208) se ne sussistono i presupposti.
Il discrimen tra le due fattispecie, allora, si riflette proprio sulla motivazione come veicolo di tutela in sede di legittimità nel caso in cui l'obbligo motivazionale assume uno spessore più elevato:
la giurisprudenza di questa Suprema Corte insegna, infatti, che, la mancata assunzione di prova decisiva nel giudizio di appello può costituire motivo ex art. 606 c.p.p., lett. d), solo quando si tratti di prove sopravvenute o scoperte dopo la pronuncia di primo grado, altrimenti potendosi adire la Cassazione ai sensi dell'art. 606 c.p.p., lett. e), per mancanza o manifesta illogicità della motivazione, sempre che si tratti (ovvio presupposto di interesse) di prova decisiva (v. p.es. Cass., sez. 5^, 8 maggio 2008 n. 34643;
Cass., sez. 4^, 14 marzo 2008 n. 23505; Cass., sez. 4^, 17 maggio 2006-6 febbraio 2007 n. 4675). E come in ogni caso di vaglio motivazionale, preclusa al giudice di legittimità è la valutazione della superfluità ed irrilevanza delle prove, circoscrivendosi il suo sindacato all'accertamento della sussistenza o meno nella motivazione di vizi logico-giuridici (da ultimo ancora S.U. 25 febbraio 2010 n. 15208).
La corte territoriale ha espresso una motivazione adeguata e specifica sulla manifesta superfluità delle prove testimoniali richieste vista l'ampia documentazione in atti; tale motivazione (pagg. 11-13) non è affetta da vizi logico-giuridici, in particolare, considerandola in modo completo e contestualizzato, risultando esente da ogni contraddittorietà. Invero, a pag. 12 la corte non nega la rinnovazione, come sostiene il ricorrente, perchè l'elemento oggettivo della fattispecie è esterno rispetto alla questione della illegittima ritenuta inclusione del Comune di Catania nel beneficio; al contrario, fin da pag. 11 la corte menziona, evidentemente come dato rilevante, la "interpretazione di inclusione (o meno) anche del Comune di Catania nell'elenco di quelli i cui residenti avrebbero beneficiato della sospensione dell'obbligazione contributiva", per addurre che tale interpretazione "è frutto di atti normativi" per cui "non può essere rimessa all'indicazione di un teste"; la qualificazione, poi, dell'"elemento oggettivo della fattispecie costituito dalla violazione di legge" come "ultroneo...perchè in nessuna delle violazioni di legge si fa riferimento alla illegittima ritenuta inclusione del Comune di Catania nell'elenco di quelli i cui residenti avrebbero beneficiato della sospensione dell'obbigazione contributiva" (pag. 12) attiene evidentemente alle violazioni di legge contestate quale elemento oggettivo del delitto di cui all'art. 323 c.p., che sono effettivamente altre, come dimostra l'imputazione contestata; ne discende che non vi è alcuna contraddizione neppure con il passo di pag. 119 richiamato dalla difesa a proposito dell'accertamento della liberalità delle elargizioni ai fini del delitto elettorale (passo in cui, per di più, neanche si cita l'elenco dei Comuni beneficiari).
12.4 Sempre in questo primo motivo la difesa di S. riversa quello che in realtà è un argomento diverso rispetto alla pretesa lesione del diritto alla prova: censura la corte per avere ritenuto irrilevante il contenuto dei provvedimenti successivi, dovendosi valutare la condotta degli imputati secondo la normativa vigente all'epoca dei fatti (pagg. 19-20), riferendosi alle pronunce del Tar di Catania. Secondo il ricorrente, la corte incorre così in una illogicità: le sentenze del Tar non incidono sul profilo psicologico degli imputati ma dimostrano ex post che la questione della sospensione dei contributi era controversa e risolvibile a vantaggio dei lavoratori, e ciò porta sia ad escludere la liberalità delle elargizioni sia a mettere in dubbio l'internazionalità del dolo.
Le sentenze del Tar, allora, secondo la stessa impostazione del ricorrente, hanno ai fini dell'accertamento penale una portata meramente probatoria. La valutazione del contenuto delle prove e della incidenza di questo sugli elementi sia oggettivo che soggettivo dei reati contestati è riservata al giudice di merito, pervenendo al sindacato del giudice di legittimità solo se la valutazione è esternata con una motivazione carente o inficiata da vizi logici e giuridici (Cass., sez. 1^, 19 ottobre 2011 n. 41738; S.U. 25 febbraio 2010 n. 15208, cit). Nel caso di specie, avere ritenuto che l'incidenza prospettata dal ricorrente non sussista non significa illogicità della valutazione, ma semmai - il che è un concetto del tutto diverso - non condivisione della prospettazione difensiva. Il vizio prospettato dal ricorrente quindi non ricorre, e ciò porta a concludere per la completa infondatezza del primo motivo del ricorso S..
12.5 Il secondo motivo del ricorso presentato dalla difesa di S.U. è composto da due censure: in primo luogo, la violazione di legge riguardante la corretta configurazione del reato di abuso d'ufficio e, in secondo, la sussistenza di contraddittorietà della motivazione in una pluralità di passi della stessa.
In primo luogo, allora, dando atto che nei motivi di appello il ricorrente aveva sostenuto l'insussistenza del dolo intenzionale, al contrario propugnando che sia il sindaco sia gli assessori erano pienamente convinti che i dipendenti avessero diritto alle somme ingiustamente trattenute dal Comune e versate all'Inpdap dato che avevano giustificato convincimento che Catania rientrasse tra i Comuni beneficiari della sospensione del versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali, deve rilevarsi che il ricorrente imputa alla corte di avere ricostruito la questione in modo confuso e travisante la cronologia degli atti, di non avere consentito le prove testimoniali su colloqui che avevano eliminato ogni dubbio degli imputati sull'esistenza del diritto dei dipendenti, di non avere tenuto conto del fatto che l'esistenza di tale diritto era comunque percepita da tutti tanto che il Consiglio Comunale il 21 marzo 2005 aveva espresso unanime auspicio per il suo riconoscimento e l'avvocatura comunale aveva più volte manifestato il convincimento dell'esistenza del diritto dei lavoratori. Da tutto ciò deriverebbe l'inesistenza del dolo intenzionale, tutt'al più ricorrendo un dolo eventuale.
La corte non ha mai negato, bensì ha esplicitamente riconosciuto che il delitto di abuso d'ufficio esige il dolo intenzionale (come d'altronde è corretto ritenere: da ultimo Cass., sez. 6^, 19 dicembre 2011-24 febbraio 2012 n. 7384; Cass., sez. 5^, 3 dicembre 2010-27 gennaio 2011). Lo stesso ricorrente non imputa alla corte di aver affermato la sufficienza di un dolo eventuale. E' dunque evidente che non sussiste la violazione di legge addotta dal ricorrente. Invero, quel che il ricorrente contesta alla corte è la valutazione, a suo avviso non condivisibile, degli elementi probatori, nel senso che tali elementi, secondo il ricorrente, dimostravano l'esistenza tutt'al più di un dolo eventuale. La valutazione di merito può essere oggetto di sindacato da parte del giudice di legittimità soltanto e nei limiti in cui si riflette in una motivazione affetta da vizi logici e giuridici. Non è dunque sufficiente elencare gli elementi probatori che, secondo il ricorrente, dovrebbero dare risultanze diverse da quelle scelte dalla corte territoriale, occorrendo invece indicare specificamente i vizi della motivazione tramite la quale la non condivisa valutazione è stata esposta dal giudice di merito. Nella parte in cui, dunque, denuncia violazione di legge il secondo motivo del ricorso S. è infondato.
La seconda parte del motivo attiene, come si è detto, a pretese illogicità della motivazione, che il ricorrente enuclea in quattordici punti.
Il primo concerne la strumentalizzazione dell'avvocatura comunale e il travisamento delle dichiarazioni testimoniali degli avvocati del Comune attribuendo loro la smentita di aver prospettato la soluzione adottata con le Delib. nn. 644 e 645 (pag. 23 e pag. 162). La censura è palesemente infondata: aver attribuito (pag. 23) agli imputati una strumentalizzazione dell'avvocatura non è una contraddizione, ma semmai una valutazione sulla condotta degli imputati stessi; nessun travisamento sussiste in relazione al contenuto di pag. 162, dove la corte si limita a trascrivere il testo di un documento agli atti (fax 9 marzo 2005).
Il secondo punto attribuisce alla corte di essersi contraddetta, da un lato affermando la sussistenza del dolo intenzionale e dall'altro riconoscendo la incertezza obiettiva sull'applicabilità al Comune di Catania della sospensione dei versamenti, con particolare riguardo a pag. 19 della motivazione ("la questione...era chiara in senso negativo, ma tuttavia veniva messa in discussione quanto meno da alcune amministrazioni pubbliche"). La contraddizione non si riscontra, giacchè la corte, riprendendo a sua volta una frase del giudice di primo grado (pagg. 3-4), ha semplicemente riconosciuto che alcune amministrazioni pubbliche mettevano in discussione la questione, nonostante che questa fosse chiara: il che evidentemente non equivale ad ammettere che oggettivamente fosse incerta, significando invece l'esatto contrario.
Il terzo punto imputa alla corte di avere ritenuto irrilevante il contenuto delle sentenze del Tar dovendosi valutare la condotta degli imputati in base alla normativa vigente; secondo il ricorrente, invece, le sentenze non servivano all'accertamento della normativa vigente all'epoca dei fatti ma a dimostrare la bontà dell'interpretazione degli imputati. Si tratta evidentemente non di una contraddizione, bensì (come già osservato più sopra) di una diversa valutazione della valenza delle sentenze del Tar.
Sostiene poi il ricorrente che la corte si sarebbe contraddetta perchè, dopo avere affermato l'irrilevanza delle sentenze del Tar, ha ritenuto rilevante la Delib. 5 dicembre 2005, n. 629 in quanto, adottandola, gli stessi imputati dimostrano che quando furono emesse le delibere del maggio 2005 vi era totale carenza di diritto risarcitorio in capo ai dipendenti. La contraddittorietà non sussiste, dal momento che il rilievo di un provvedimento posteriore in questo caso discende dal fatto che sia stato emanato dagli stessi imputati, con un contenuto tale da potere essere valutato come ammissivo, se non confessorio.
Il quarto punto di contraddittorietà fa riferimento al fatto che la corte non motiva sulla Delib. Consiglio Comunale 21 marzo 2005, nella quale tutti, indipendentemente dalla posizione politica, ritennero errato il versamento dei contributi, limitandosi la corte a pag. 75 della motivazione a osservare che una cosa è auspicare che l'amministrazione dia una risposta alle aspettative, un'altra è deliberare. Premesso che, comunque, la sentenza di merito non è tenuta a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico ed adeguato, le ragioni del convincimento, dimostrando che ogni fatto decisivo è stato tenuto presente (così, da ultimo, Cass., sez. 4^, 13 maggio 2011 n. 26660), è evidente che non vi è alcuna contraddizione in questa posizione della corte, bensì una valutazione sull'incidenza della delibera del consiglio comunale ancora una volta non condivisa dal ricorrente; l'osservazione della corte, inoltre, si estende anche a chiarire espressamente che un auspicio del consiglio comunale non significava comunque legittimazione della successiva condotta degli imputati.
Il quinto punto imputa alla corte il travisamento della deposizione testimoniale dell'avvocato capo del Comune, A., per avere ritenuto che i ricorsi dei dipendenti comunali non abbiano inciso sulla vicenda; in realtà la corte non ha travisato la deposizione del teste, bensì ha valutato l'incidenza dei ricorsi ancora in un modo diverso rispetto a quello che prospetta il ricorrente, condividendo la valutazione del primo giudice nel senso che, avendo il Tribunale del lavoro di Catania già respinto il primo ricorso, non vi era motivo per presagire che quello successivo avrebbe avuto una sorte diversa.
Il sesto punto imputa alla corte di non avere condiviso l'assunto difensivo sulla legittimità del convincimento degli amministratori di Catania che il Comune rientrasse tra quelli per cui era stato dichiarato lo stato di emergenza, rilevando (pag. 155) che le note al riguardo invocate dalla difesa non provengono dal Ministero dell'Economia, unico a poter giuridicamente concedere la sospensione di cui si tratta. Secondo la difesa, tale asserto è illogico perchè è la Protezione Civile che disciplina la materia dell'emergenza. A tacer d'altro, è sufficiente constatare che il contenuto del passo di motivazione citato non è quello rappresentato dalla difesa, perchè il ragionamento mette a parte ("anche a prescindere ecc.") la provenienza delle note, per sostenersi invece sul fatto che "trattasi di documenti che riguardano una più ampia congerie di determinazioni e rimandano sempre all'emanazione di dettagliati elenchi da parte dei competenti organi".
Il settimo punto asserisce la sussistenza di un travisamento della deposizione del teste D'. e che la corte ha attribuito alle dichiarazioni rese da questi al P.M., lette per contestazione, il valore riconoscibile solo alla deposizione testimoniale resa in dibattimento. In realtà, come si evince dalle ampie citazioni della deposizione testimoniale in questione, D'. ha durante essa esplicitamente confermato tutto quanto gli veniva richiamato dal PM, per cui quello che ha utilizzato il giudice per costruire il suo convincimento non sono le dichiarazioni al PM, bensì le risposte date dal teste in dibattimento. Quanto all'esistenza di un travisamento, la corte ha ampiamente trascritto parola per parola le dichiarazioni del teste, a tale specifico contenuto conformando l'utilizzazione probatoria (pagg. 125 ss. e 166 ss.); e considerato che per raggiungere il livello del travisamento occorre una palese e non controvertibile difformità tra i risultati obbiettivamente derivanti dall'assunzione della prova e quelli che il giudice di merito ne abbia inopinatamente tratto (da ultimo Cass. sez. 3^, 7 luglio 2011 n. 37756), la censura risulta manifestamente infondata.
L'ottavo punto censura la corte perchè, dopo avere correttamente richiamato la giurisprudenza sugli elementi sintomatici del dolo intenzionale nell'abuso d'ufficio, a fronte della prospettazione difensiva che gli amministratori comunali non potevano avere certezza di violare disposizione di legge sussistendo i pareri del ragioniere generale e del segretario generale del Comune, ha affermato apoditticamente che le violazioni di legge erano così gravi da non poter non essere percepite dagli amministratori, essendo facilmente riconoscibili anche da un uomo medio. Quello che viene addotto dalla difesa non è, evidentemente, una contraddizione, bensì ancora una diversa valutazione degli esiti probatori (e in particolare, dell'incidenza dei pareri tecnici dei funzionari comunali) che si qualifica questione di fatto in ordine all'accertamento dell'elemento soggettivo del reato. Nè può ritenersi che tale valutazione sia stata manifestata dalla corte con una motivazione apodittica, ovvero apparente, avendo al contrario il giudice di merito esposto analiticamente e ampiamente la formazione del proprio convincimento nelle pagg. 131 ss. della sentenza impugnata.
Il nono punto censura la corte di travisamento per avere ritenuto che la riconoscibilità da parte degli imputati della violazione di legge derivava anche dall'assenza alle sedute in cui furono votate le delibere dell'assessore al bilancio, essendo loro noto che aveva scelto di non votare perchè contrario (pag. 42, pag. 102, pagg. 112 ss.), laddove tale assessore, D.A., all'udienza del 12 gennaio 2007 giustificava la sua assenza con ragioni di salute. Anche in questo caso diverso è l'effettivo contenuto della motivazione. La corte infatti esplicita che a suo avviso l'assenza dell'assessore al bilancio non fu casuale (pag. 42) così lasciando agevolmente intendere non un travisamento, bensì una valutazione di inattendibilità della dichiarazione sull'assenza resa dall'assessore in sede testimoniale; successivamente valuta l'assenza dell'assessore al bilancio nella sua incidenza oggettiva (pag. 102, pagg. 112-113) senza incorrere in alcuna illogicità.
Il decimo punto consiste globalmente, poi, in una ricostruzione alternativa dell'incidenza di alcune circostanze fattuali relative all'Inpdap, che è pertanto inammissibile in questa sede. Nè è qualificabile come contraddizione il fatto che a pag. 24 la corte afferma che il Comune ricevette un secco rifiuto dall'ente suddetto, ma a pag. 25 richiama la dichiarazione del direttore Inpdap nel senso che dopo l'incontro uscì una nota della direzione generale che sospendeva nei confronti degli enti qualunque attività. Anche in questo caso la censura non corrisponde al contenuto della motivazione: a pag. 24 la corte, fondandosi sulle deposizioni testimoniali dell'assessore al bilancio D.A. e del direttore Inpdap Sc., da atto che l'Inpdap formulò un secco e categorico rifiuto dinanzi alla proposta dell'assessore di concordare una compensazione delle somme trattenute nei periodi di sospensione contributiva con quelle che il Comune doveva ancora corrispondere all'ente; e nella seguente pagina pone la nota richiamata dalla difesa, quale oggetto di deposizione da parte del teste Sc., nel senso di conferma della indisponibilità dell'Inpdap al rimborso delle somme: la nota, infatti, sospendeva in sostanza accordi del genere per motivi finanziari (con essa, dichiara il teste, "si sospese nei confronti degli enti qualunque attività relativa perchè...l'impatto economico-finanziario della questione era talmente alto che richiedeva una finanziaria").
Il punto undicesimo censura la corte nel senso che non vi sarebbe prova della consapevolezza degli imputati della violazione di legge, ma semmai della inconsapevolezza, sulla base della deposizione del segretario generale Gi.: si tratta evidentemente di una questione di fatto, sulla quale la difesa propone una valutazione diversa, in questa sede inammissibile non emergendo specifici vizi motivazionali.
Il dodicesimo punto censura la corte per motivazione contraddittoria che deriverebbe dal fatto che il primo giudice aveva ritenuto non provato l'elemento soggettivo del reato per coloro che non si ricandidavano, affermando poi la corte, come la prima sentenza, che lo scopo elettorale sostiene con valenza esclusiva la sussistenza del dolo intenzionale ma in seguito, avvedendosi che tale fine consiste nel perseguimento di un vantaggio diverso dal fine patrimoniale individuato per il reato di abuso d'ufficio, trasformando il fine elettorale in uno scopo ulteriore.
Va anzitutto premesso che, essendosi formato il giudicato sul proscioglimento dichiarato nei confronti di due imputati dal tribunale di Catania, i motivi che hanno sorretto tale proscioglimento non incidono in questa sede.
Riguardo poi al dolo intenzionale per il reato di abuso d'ufficio, la contraddizione addotta dalla difesa non sussiste, avendo semplicemente la corte - in risposta al motivo d'appello della difesa stessa fondato sul fatto che il fine che aveva mosso gli imputati nel disporre le elargizioni era quello elettorale, non il fine patrimoniale rilevante per il reato di abuso d'ufficio, onde questo non sussisterebbe per mancanza dell'elemento soggettivo - evidenziato che occorre distinguere il dolo intenzionale dal fine esterno al dolo (pagg. 145-146).
Il tredicesimo punto qualifica grave difetto di motivazione l'assoluta mancanza degli elementi probatori a sostegno dell'asserita finalità dell'ingiusto vantaggio patrimoniale quale scopo precipuo degli agenti, essendo la motivazione fondata sull'aspetto elettorale.
La censura è palesemente generica; d'altronde la corte ha illustrato più che ampiamente il profilo dell'elemento soggettivo (soprattutto, come già rilevato, nelle pagg. 129-166).
Infine il quattordicesimo punto censura il riconoscimento al candidato concorrente Vincenzo Bianco, costituitosi parte civile, di un danno ingiusto, laddove il reato è stato strutturato come abuso a vantaggio e non come abuso a danno nella contestazione; la censura è palesemente infondata vista la generale portata dell'art. 185 c.p..
12.6 Il terzo motivo del ricorso della difesa di S.U. è suddivisibile in due parti.
12.6.1 In primo luogo, si denunciano la violazione del D.P.R. n. 361 del 1957, art. 95 e il conseguente vizio motivazionale. Nei motivi di appello la difesa aveva evidenziato che le "elargizioni di denaro" sono le erogazioni effettuate per liberalità; il delitto quindi non sussiste se, come secondo la difesa avvenne, gli imputati agirono nel convincimento che le somme fossero in realtà dovute. La corte avrebbe forzato la norma introducendovi come penalmente rilevanti le erogazioni straordinarie, per quanto prive di liberalità.
Nelle pagg. 176 ss. della sentenza il giudice di secondo grado ha ampiamente illustrato la sua interpretazione del D.P.R. n. 361 del 1957, art. 95 improntata a una corretta lettura complessiva e contestualizzante della norma. Questa, invero, punisce "chiunque, in nome proprio o anche per conto di terzi o di enti privati e pubblici, eccettuate per questi ultimi le ordinarie erogazioni di istituto, nella settimana che precede la elezione e nella giornata della elezione, effettua elargizioni di denaro, generi commestibili, oggetti di vestiario o altri donativi, a qualsiasi titolo" (la disposizione, prevista per le elezioni politiche, è estesa alle elezioni amministrative negli enti locali dalla L. n. 633 del 1964, art. 3). La corte centra il nucleo della questione interpretativa, che non è, in effetti, individuabile nella differenza tra erogazioni ed elargizioni, bensì, a ben guardare, nella differenza soggettiva tra i potenziali agenti. "Chiunque" può commettere il reato; la puntualizzazione che comporta il riferimento alle "erogazioni" è introdotta, invece, solo per gli enti pubblici. E' logica e condivisibile l'osservazione che per l'ente pubblico effettuare donazioni è un'attività di assoluta eccezionalità (pag.179): ne deriva, ovviamente, che, se per l'ente pubblico soltanto tale attività è da ritenersi penalmente rilevante ai fini della norma in esame, la norma si svuota di significato. In forza del principio della conservazione ermeneutica occorre pertanto trarre indicazione - solo a questo punto, e cioè sul fondante presupposto che la norma deve avere effettività anche riguardo all'attività degli enti pubblici - proprio dalla specificazione legislativa che sottrae dal campo generale (le elargizioni a qualsiasi titolo) un settore specifico (le ordinarie erogazioni di istituto) per conseguire una reale incidenza della disposizione sull'attività degli enti pubblici e, al tempo stesso, sfuggire all'eccesso opposto dello svuotamento di significato, vale a dire garantire e non paralizzare l'ordinaria legittima attività dei suddetti enti. In questo senso è condivisibile la conclusione cui perviene la corte territoriale, e cioè che per quanto concerne gli enti pubblici il termine "elargizioni" diventa, alla luce di una interpretazione sistematica, sovrapponibile a "erogazioni". Le erogazioni non qualificabili come "ordinarie erogazioni di istituto", ovvero quelle non riconducibili all'attività ordinaria dell'ente, integrano le elargizioni penalmente rilevanti. Non sussiste pertanto la violazione di legge denunciata, avendo la corte territoriale interpretato il D.P.R. n. 361 del 1957, art. 95 in modo completamente esatto.
12.6.2 In secondo luogo, sempre con il terzo motivo il ricorso della difesa S. nega che sia stato dimostrato che l'autore del reato avesse piena conoscenza di un elemento costitutivo di esso, quale è la circostanza temporale che la elargizione sia effettuata nella settimana precedente le elezioni. Secondo il ricorrente, seguendo il primo giudice che aveva ritenuto fortemente indiziaria nel senso di tale conoscenza la lettera del sindaco del 13 maggio 2005 al ragioniere generale e al direttore del personale, la corte, a prescindere dalla equiparazione della posizione degli assessori con quella del sindaco, utilizza illogici argomenti vista la spiegazione dei fatti fornita nell'interrogatorio reso in dibattimento dallo stesso sindaco. Premesso che non ha interesse la difesa di S. a censurare la sentenza quanto alla posizione degli assessori, la doglianza è palesemente infondata, giacchè non attribuire prevalenza di significato probatorio alle dichiarazioni dell'imputato nell'interrogatorio dibattimentale rispetto ad un altro dato probatorio non equivale a illogicità, bensì a valutazione che il giudice può compiere secondo il suo libero convincimento.
12.7 Il quarto motivo del ricorso in esame denuncia la violazione dell'art. 323 c.p. e D.P.R. n. 361 del 1957, art. 95 con correlato vizio motivazionale, avendo la corte ritenuto, come il primo giudice, sussistente il concorso formale fra i suddetti reati anzichè il concorso apparente. Secondo il ricorrente la corte incorre in contraddizione rilevando che la violazione di legge integratrice del delitto di abuso d'ufficio è costituita dalla norma penale di cui al citato art. 95, per cui vi è perfetta sovrapponibilità tra il reato elettorale e una parte significativa dell'abuso; ulteriore illogicità si riscontra nella non significatività della circostanza che l'elemento soggettivo dei due reati si atteggia in forme diverse di dolo, essendo il dolo intenzionale dell'abuso identificato nel tentativo di captare la benevolenza elettorale attraverso la commissione del reato elettorale de quo.
La corte ha affrontato in vari passi della motivazione la questione del concorso apparente prospettata dalle difese (come già più sopra ricordato, pagg. 77 ss., 119 ss., 185 ss.), in sostanza fondandone la negazione sulla tutela dei beni giuridici diversi da un lato e sulla insufficienza della identità del fatto in senso naturalistico dall'altro. Non è in ciò ravvisarle alcuna illogicità sotto il profilo motivazionale. Quanto poi alla pretesa violazione di legge, il giudice di merito non si è discostato dagli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità in tema di concorso apparente.
Giurisprudenza consolidata insegna, invero, che il concorso apparente di norme sussiste quando lo stesso fatto appare disciplinato da più norme ma in realtà solo una di esse è applicabile, con esclusione quindi delle norme che regolano il concorso di reati (ex multis, da ultimo Cass., sez. 3^, 1^ dicembre 2011-3 aprile 2012 n.12455). Per dirimere il problema identificativo, l'art. 15 c.p. detta il principio della specialità, dando precedenza alla norma speciale di cui così viene garantita la deroga alla legge generale, salvo sia altrimenti stabilito. Si tratta di un dispositivo logico-giuridico grazie al quale, in caso di coincidenza totale della condotta punita dalla fattispecie speciale con quella prevista dalla legge generale, con l'aggiunta di un plus, appunto, specializzante (da cui può conseguire plurioffensività: p. es. Cass., sez. 1^, 11 maggio 2011 n. 26188) la norma generale non assorbe, sopravvivendo la norma speciale alla situazione di apparente concorso (per un'ipotesi relativa proprio all'art. 323 c.p. v. Cass., sez. 2^, 20 maggio 2010 n. 23628). L'art. 15 c.p. pone come presupposto che le norme concomitanti attengano alla stessa materia. Per determinare detta coincidenza, la giurisprudenza di legittimità esclude il riferimento al fatto concreto in esame, spostando l'identità a livello puramente giuridico, e cioè assumendo come parametro la fattispecie astratta, il fatto tipico corrispondente alla norma (S.U. 19 aprile 2007 n. 16568), in tal modo, inoltre, tutelando il principio della legalità nel senso di tassatività della fattispecie penale (S.U. 28 ottobre 2010 n. 1963); il che comporta, naturalmente, la diversità dei beni giuridici tutelati (da ultimo Cass. sez. 3^, 22 giugno 2010 n. 35731), anche parziale (nell'ipotesi, sopra già menzionata, della plurioffensività). Nel caso in esame, quindi, è condivisibile la valutazione giuridica effettuata dalla corte territoriale, per la diversa obiettività giuridica delle fattispecie, nelle quali sussiste (come significativamente in sostanza ammette la stessa difesa del ricorrente) una coincidenza soltanto parziale della condotta, quella comportante la violazione del D.P.R. n. 361 del 1957, art. 95.
12.8 Il quinto motivo del ricorso afferma, in sintesi, l'applicabilità alla fattispecie di cui all'appena citato art. 95 della prescrizione di cui al D.P.R. 16 maggio 1960, n. 570, art. 100, comma 2, prescrizione biennale decorrente dalla data del verbale ultimo delle elezioni. Tale motivo è infondato.
In primo luogo, giurisprudenza consolidata conferma il dato letterale nel senso che la norma invocata è applicabile esclusivamente alle fattispecie previste nello stesso decreto, escludendone - in quanto norma speciale - ogni spiraglio ermeneutico estensivo (Cass., sez. 3^, 10 ottobre 2006 n. 38836; Cass., sez. 5^, 6 ottobre 2003 n. 957;
Cass., sez. 3^, 1^ febbraio 1973, n. 6443; Cass., sez. 3^, 27 aprile 1967 n. 547).
In secondo luogo, occorre dare atto, anzitutto, che tale esclusione è stata correlata dalla citata giurisprudenza a una interpretazione del contenuto del D.P.R. n. 570 del 1960, art. 100, comma 2, radicante la sua specialità rispetto al regime prescrizionale generale dell'art. 157 c.p., intendendo che la norma prevede una prescrizione biennale, peculiare anche nella decorrenza, per i reati dello stesso testo normativo (cfr. altresì su questa linea interpretativa Cass., sez. 3^, 25 ottobre 2006 n. 42199; Cass., sez. 3^, 9 dicembre 1997 n. 1035; Cass., sez. 3^, 23 giugno 1975 n. 705).
Di recente, tuttavia, la giurisprudenza si è diversamente orientata, intensificando lo spessore di specialità della norma e al tempo stesso svincolandolo dall'art. 157 c.p., ovvero dall'ambito della prescrizione del reato (Cass., sez. 3^, 11 gennaio 2011 n. 5603;
Cass., sez. 3^, 11 novembre 2008 n. 43370; Cass., sez. 3^, 23 marzo 2005 n. 17630), spostando l'incidenza del termine sull'esercizio dell'azione penale popolare.
Alla luce anche di significativi interventi della Corte Costituzionale (C. Cost. 30 dicembre 1998 n. 455 e C. Cost. ord. 9 luglio 1999 n. 288, in ordine alla discrezionalità del legislatore sull'an e il quomodo della punibilità dei reati nonchè C. Cost. 23 luglio 2010 n. 281 sulla ragionevole durata processuale) il più recente dei suddetti arresti, Cass., sez. 3^, 11 gennaio 2011 n. 5603, è pervenuto da ultimo a una completa e adeguata ricostruzione ermeneutica, pienamente condivisibile.
Invero, va da un lato evidenziato che il sintagma "azione penale" dell'art. 100, comma 1 in esame non può assumere significato diverso nel comma 2, dovendosi quindi circoscrivere il suo riferimento all'iniziativa popolare e non all'azione penale del pubblico ministero. Conforta tale coerenza letterale, a monte, il rilievo che l'azione popolare è strumento la cui peculiarità trova adeguata giustificazione nella natura degli illeciti contro cui può essere esercitato; ma al tempo stesso proprio per questa natura potrebbe essere attivato per impulso politico nel senso negativo del termine, onde necessita di un rigoroso e restrittivo limite temporale in qualche misura preventivo contro eventuali abusi "di parte".
D'altro lato, sussiste un ancor più pregnante argomento sistemico, in rapporto al principio di ragionevole durata del processo che la Corte Costituzionale, con la già citata sentenza 23 luglio 2010 n. 281, ha di recente considerato. Non si può non ricordare che l'intervento della Consulta è succeduto a un decennio, per così dire, di fermentazione giurisprudenziale del principio costituzionalizzato nel 1999, che lo ha collocato al centro dell'ermeneutica processuale, percependolo come intrinseco alla giustizia del processo (in sintesi, ora il giusto processo è il processo che si effettua nel contraddittorio in un tempo ragionevole). Della ragionevole durata, tuttavia, in misura più che predominante è stata percepita - anche in rapporto con la contestualizzazione comunitaria - la significanza acceleratoria, ovvero l'incidenza riduttiva (per non dire negativa) sulla protrazione temporale del giudizio. La Corte Costituzionale ha peraltro rilevato che il principio de quo assicura anche che il processo "duri per il tempo necessario a consentire un adeguato spiegamento del contraddittorio e l'esercizio del diritto di difesa":
e la necessarietà del tempo introduce nella sostanza ancipite della "ragionevole durata". Questa, infatti, presenta pure una facies positiva nel senso di cautelativa della effettività dello strumento processuale, per stornare una indiretta deprivazione di effettività della norma sostanziale cui è finalizzato. In tal senso l'ha valorizzata, dunque, la citata ultima giurisprudenza di questa corte, evidenziando come il processo debba svolgersi in un lasso di tempo sufficiente all'espletamento del contraddittorio tenuto conto della complessità degli incombenti processuali necessari per la conformazione della fattispecie sostanziale, in rapporto anche alla gravità di quest'ultima. Sarebbe pertanto configgente con il principio della ragionevole durata del processo una prescrizione biennale del reato in esame, e altresì (pur tenendo conto della discrezionalità del legislatore ordinario come rilevata dalle già richiamate C. Cost. 30 dicembre 1998 n. 455 e C. Cost. ord. 9 luglio 1999 n. 288) contrasterebbe con l'ulteriore principio dell'eguaglianza, inteso come ragionevolezza, in riferimento alla normativa prescrizionale dettata dall'art. 157 c.p. per reati anche di assai minor disvalore.
Non può che concludersi, pertanto, per la inapplicabilità della prescrizione biennale alla fattispecie in esame in questa sede, non sussistendo, considerata la condivisione meritata dal più recente orientamento giurisprudenziale che consente di definirlo ormai consolidato, i presupposti per la rimessione della questione alle Sezioni Unite.
12.9 Il sesto motivo viene presentato sia come censura di vizio motivazionale sia come denuncia di violazione di legge (art. 185 c.p.) in relazione al nesso di causalità tra il reato e il danno liquidato alla parte civile, nonchè alla sua quantificazione. Il motivo si presenta affetto da una certa genericità, e in realtà attiene solo a una pretesa carenza motivazionale, non essendo alla pronuncia attribuita, nè riscontrabile, alcuna specifica interpretazione erronea dell'art. 185 c.p.. Esso è comunque infondato giacchè la corte ha motivato, senza evidenze di illogicità, la connessione tra i reati contestati agli imputati e la perdita di chances del candidato concorrente, quantificando secondo equità questo tipo di danno, e quindi inevitabilmente con una spiegazione concisa, ma esente da vizi logico-giuridici (si vedano nella motivazione: pag. 121; pagg. 128 ss.; pag. 194).
In conclusione, il ricorso della difesa di S.U. va rigettato, con ogni conseguenza di legge.
13.1 Il ricorso presentato dalla difesa dell'imputato N. A. condivide con il ricorso della difesa di S. U., come si è visto, integralmente il terzo motivo (che corrisponde al quarto del ricorso S.) e il quarto motivo (che ne riprende il quinto). Tali due motivi devono quindi essere disattesi per quel che si è già osservato.
13.2 Il primo motivo del ricorso N. corrisponde al secondo del ricorso S. aggiungendovi il rilievo che la posizione dell'imputato lo differenzia da quella degli altri essendo egli dotato di minore esperienza politica e di minore istruzione, non avendo altresì neppure partecipato alle riunioni preparatorie delle delibere; e infatti il sindaco all'udienza del 9 giugno 2011 si è assunto la piena responsabilità delle decisioni dell'amministrazione. Si tratta evidentemente di elementi fattuali che, non riverberandosi in vizi specifici motivazionali indicati dal ricorrente, costituiscono quaestio facti in questa sede inammissibile.
13.3 Il secondo motivo del ricorso N. corrisponde al terzo del ricorso S., ancora con una integrazione: l'accusa non ha provato che l'imputato abbia avuto piena conoscenza che l'elargizione sarebbe stata effettuata nella settimana che precede le elezioni.
Anche qui, non essendo indicato uno specifico vizio motivazionale, si tratta di accertamento di merito inammissibile in sede di legittimità. Che poi si addebiti alla corte di non avere fatto cenno all'assenza degli elementi probatori relativi a questo profilo, se così genericamente conformato questo debba intendersi vizio motivazionale, non corrisponde al reale contenuto della motivazione (pagg. 115 ss. e 219 ss.)- Pure questo motivo va pertanto disatteso.
In conclusione, il ricorso della difesa di N.A. va rigettato, con ogni conseguenza di legge.
14. Come già esposto, l'imputato St.An. ha presentato due ricorsi tramite i suoi difensori.
14.1 Nel ricorso sottoscritto dall'avvocato Strano Francesco Tagliareni sono proposti due motivi.
14.1.1 Il primo motivo, qualificato sia come denuncia di violazione di legge sia come censura di vizio motivazionale, si connette in buona parte a una memoria difensiva del secondo grado di merito e, ricostruendo la sequenza dei provvedimenti relativi alla sospensione dei contributi previdenziali, imputa al giudice di primo grado l'incompletezza al riguardo dell'accertamento e al giudice di secondo la condivisione della posizione del primo giudicante, parimenti la Corte d'appello avendo errato nel ritenere le decisioni del Tar irrilevanti, poichè successive all'emanazione delle delibere. Tali decisioni invece sarebbero decisive sia quanto all'elemento oggettivo del reato in termini di ingiustizia dell'atto, sia quanto a quello soggettivo, avendo gli imputati agito in base a un'interpretazione da esse confermata.
Vale per questo motivo quanto già osservato - e da intendersi qui riportato - a proposito della seconda parte del motivo del ricorso S., trattandosi di valutazione probatoria che rientra sul piano fattuale; l'essere nel ricorso St. rubricato il motivo pure come vizio motivazionale non incide, anche perchè in effetti non è indicato specifico difetto giuridico e/o logico-strutturale della motivazione. Il primo motivo va dunque rigettato.
14.1.2 Il secondo motivo, sempre con la stessa doppia qualificazione, pone come riferimento entrambi i reati contestati in relazione agli artt. 40, 42, 43 e 110 c.p. e si articola in più punti.
In primo luogo censura la corte per avere ritenuto elemento probatorio anche nei confronti degli assessori la disposizione di immediato pagamento data dal sindaco il 13 maggio 2005; tale atto avrebbe interrotto il nesso di causalità tra l'approvazione della Delib. n. 645 e l'erogazione ai dipendenti, tanto più che il reato elettorale ha come elemento costitutivo l'elargizione.
La valutazione dell'elemento probatorio rientra ancora nell'accertamento fattuale di merito e il ricorrente non adduce specifici vizi di motivazione bensì soltanto non condivide la valutazione stessa. Sotto tale aspetto il motivo è inammissibile.
Quanto poi alla elargizione come elemento costitutivo del reato elettorale da intendere nel senso di effettivo pagamento, per cui non sarebbe sufficiente la disposizione del pagamento stesso, il motivo è sussumibile effettivamente nell'art. 606 c.p.p., lett. b), ma è infondato. Per una interpretazione che non elude, svuotandolo di effettività, il contenuto della norma, nell'ipotesi in cui il soggetto che elargisce è un ente, ovvero un soggetto che agisce in modo procedimentale, con una sequenza di atti il cui effetto confluisce dall'uno nell'altro, l'elemento costitutivo non può identificarsi automaticamente, per il reato di cui al D.P.R. n. 361 del 1957, art. 95 nella materiale e conclusiva traditio del bene nelle mani del beneficiario, ma deve conformarsi alla conformazione concreta del potere dell'organo dell'ente che dispone l'elargizione.
Analogamente, invero, proprio a proposito della fattispecie contigua (per quanto solo in parte) dell'abuso d'ufficio ex art. 323 c.p. la giurisprudenza di questa Suprema Corte anche di recente ha ribadito che il reato può essere integrato anche solo da un atto interno procedimentale, non rilevando che il provvedimento definitivo sia emesso da altro pubblico ufficiale (Cass., sez. 3^, 12 ottobre 2011 n. 43669), nè rilevando comunque una scissione tra attività volitiva e attività materiale (Cass., sez. 6^, 1^ febbraio 1995 n. 2797; Cass., sez. 6^, 30 aprile 1992 n. 9730); quel che rileva, infatti, è che l'atto sia posto in essere per il fine antigiuridico delineato dalla norma (sempre a proposito della contigua fattispecie ex art. 323 c.p. cfr. Cass., sez. 6^, 5 luglio 2011 n. 35597).
In secondo luogo, sempre nell'ambito del secondo motivo, il ricorso evidenzia, a proposito del dolo intenzionale richiesto dall'abuso d'ufficio, che spesso i componenti di un organo collegiale non hanno concreta possibilità di valutare tutte le implicazioni degli atti che formalmente deliberano, prospettando l'alternativa del dolo eventuale e dando atto altresì che l'atteggiamento della volontà deve risultare da fatti concreti e significativi che, per l'imputato St., si concludono con l'approvazione delle due delibere, onde, se la disposizione del sindaco del 13 maggio 2005 non fosse stata data, non vi sarebbe stato reato, occorrendo allo scopo anche l'effettiva consegna del bene. La motivazione sull'elemento soggettivo qui riguarderebbe quasi esclusivamente la posizione del sindaco.
Per quanto concerne la necessità della disposizione del sindaco per integrare la fattispecie criminosa, si è già detto più sopra a proposito del D.P.R. n. 361 del 1957, art. 95; e quanto si è rilevato, in particolare in riferimento alla ora direttamente pertinente giurisprudenza richiamata, a fortiori è applicabile all'abuso d'ufficio.
Poichè poi è indubbio che il giudice di secondo grado ha ritenuto necessario il dolo intenzionale per l'abuso d'ufficio, la censura è da qualificarsi come mancata condivisione di una valutazione probatoria sull'esistenza dell'elemento soggettivo per la fattispecie di cui all'art. 323 c.p., senza peraltro l'indicazione di specifici vizi logico-giuridici della motivazione a suo sostegno, con conseguenza di inammissibilità. Generica, infatti, è la doglianza sull'assenza di motivazione relativa all'elemento soggettivo degli assessori, doglianza comunque infondata visto il reale, ampio e specifico contenuto (pagg. 129-166) della motivazione sul dolo intenzionale degli imputati.
14.2 Il ricorso per l'imputato St. sottoscritto dall'avvocato Giulia Bongiorno si compone di tre motivi.
14.2.1 Il primo motivo denuncia violazione dell'art. 323 c.p. e censura il relativo vizio di motivazione.
In primis, adduce la violazione del principio della c.d. doppia ingiustizia giacchè l'ingiustizia del vantaggio patrimoniale dei dipendenti (come pure del danno subito dal concorrente sindaco B.V.) non può derivare automaticamente dalla illegittimità del mezzo utilizzato per conseguirlo; e che questo comunque non fosse illegittimo sarebbe dimostrato dalle decisioni del Tar di Catania, che hanno annullato la O.P.C.M. del 10 giugno 2005, non incidendo la posteriorità delle sentenze stesse, che rilevano sia quanto alla obiettiva ingiustizia del vantaggio patrimoniale sia quanto al dolo (avuto riguardo anche all'art. 47 c.p.), rendendo impossibile sostenere che gli imputati abbiano agito con l'intenzione di fare conseguire ai dipendenti comunali un vantaggio ingiusto.
L'erogazione infatti, secondo il ricorso, non mirava a un vantaggio ingiusto bensì riconosceva ai dipendenti una situazione meritevole di tutela per evitare un maggior danno che poteva sortire all'amministrazione da un pericoloso contenzioso; ciò tenuto conto anche sia del fatto che la corresponsione sarebbe avvenuta pro solvendo sia della Delib. n. 629 del 2005 con cui erano stati evitati l'ingiusto arricchimento dei dipendenti e il preteso danno all'amministrazione.
Come attesta lo stesso riferimento all'art. 47 c.p., le questioni che così prospetta il motivo rientrano nell'accertamento di fatto, e si fondano infatti sull'effetto probatorio delle sentenze del Tar, di cui si è detto più sopra a proposito del ricorso S. e del precedente già esaminato ricorso St.. La corte non ha mai negato, d'altronde, la necessità della c.d. doppia ingiustizia (indiscutibile è invero che il reato di abuso d'ufficio viene integrato dalla doppia e autonoma ingiustizia, sia della condotta che deve essere connotata da violazione di legge, sia dell'evento di vantaggio patrimoniale in quanto non spettante in base al diritto oggettivo, con la conseguente necessità di una duplice valutazione, non discendendo l'illegittimità del vantaggio da quella della condotta: da ultimo Cass., sez. 6^, 24 maggio 2011 n. 36020; Cass., sez. 2^, 11 dicembre 2009-21 gennaio 2010 n. 2754; Cass., sez. 5^, 2 dicembre 2008-21 aprile 2009 n. 16895); nè ha mai affermato che l'ingiustizia del vantaggio è mero contagio della natura non jure del mezzo utilizzato per attribuirlo. Ad abundantiam meramente, allora, si rileva l'evidente non incidenza del fatto che la cessione era pro solvendo, poichè ciò non toglie la corresponsione del denaro; e parimenti si sottolinea la non incidenza del recupero successivo con la Delib. n. 629 del 2005 sull'esistenza della corresponsione.
In secondo luogo si adduce che la corte ha valutato erroneamente nel riconoscere un danno al candidato B.V. giacchè, pur essendo indubbia la risarcibilità dei danni non patrimoniali, ben difficilmente possono rientrarvi semplici aspettative elettorali, che avrebbero dovuto essere provate, il che sarebbe stato impossibile;
per di più il danno doveva essere specificamente collegato al proposito criminoso e non esserne conseguenza accessoria.
E motivo di denuncia di violazione di legge questo appena riassunto, laddove nega la risarcibilità del danno da perdita di chances elettorali. Si tratta però di una censura infondata, da tempo la giurisprudenza avendo riconosciuto la risarcibilità, in generale, del danno da perdita di chances, ovvero di una potenzialità (o aspettativa) che non si realizza a motivo di interferenza illecita nella serie causale che avrebbe condotto alla sua concretizzazione (da ultimo Cass. civ., sez. 1^, 18 maggio 2012 n. 7827); danno poi che può configurarsi, a seconda del diritto leso, come patrimoniale (p. es. Cass. civ., sez. 1^, 29 dicembre 2011 n. 29579) o non patrimoniale (ancora p. es. Cass. civ., sez. 3^, 18 settembre 2008 n. 23846). Nel caso di specie, il conferimento di un vantaggio patrimoniale ingiusto non minimale da parte di pubblici ufficiali al tempo stesso candidati in elezioni imminenti costituisce senza dubbio interferenza illecita nella serie causale che poteva condurre la potenzialità, rappresentata dalla candidatura elettorale, a convertirsi in effettivo accesso alla carica pubblica elettiva, così ledendo diritti di valenza costituzionale di realizzazione e di contributo nell'attività politica, come l'art. 51 e, prima ancora, gli artt. 2 e 3 Cost., e così integrando un danno non patrimoniale da perdita di chances. La valenza costituzionale dei diritti lesi, invero, già di per sè comporta la risarcibilità del danno non patrimoniale (da ultimo Cass. civ., sez. 3^, 9 marzo 2012 n. 3718);
nel caso in esame il danno è configurato come connesso - sul piano della risarcibilità del danno civile, ai sensi dell'art. 185 c.p. nonchè dell'art. 2059 c.c. - come conseguenza diretta, e non quale effetto accessorio (come in palese violazione delle suddette due norme prospetta il motivo in esame) - eziologicamente a due fattispecie criminose, il che ad abundantiam ne avvalora la risarcibilità.
Va altresì osservato che, in generale, il danno da perdita di chances è qualificabile come un danno futuro, il cui accertamento, presupposto per l'identificazione dell'equivalente risarcitorio, deve pertanto effettuarsi tramite una valutazione ex ante da ricondursi, diacronicamente, al momento in cui il comportamento illecito ha inciso su tale potenzialità in termini di conseguenza dannosa a sua volta potenziale (Cass. civ., sez. 3^, 17 aprile 2008 n. 10111). Il che incide ovviamente sulla tipologia, ma non sulla modalità giuridica della prova (la cui impossibilità è da ritenersi logicamente negata, dal legislatore prima e dalla giurisprudenza poi, nel momento in cui viene riconosciuta la risarcibilità del danno), nel senso che, il pregiudizio essendo rivolto appunto al futuro, il giudice dovrà avvalersi di un criterio probabilistico sull'esito favorevole dell'aspettativa (la tipica prognosi ex ante), fondato anche sulla utilizzazione, sempre, si ripete, nei limiti di legge, di strumenti presuntivi (Cass. civ., sez. 1^, 25 ottobre 2007 n. 22370;
Cass. civ., sez. 1^, 28 settembre 2005 n. 18953).
Per quel che concerne l'esito probatorio cui concretamente è pervenuta la corte per ritenere sussistente (an) un danno da perdita di chances come diretta conseguenza della condotta criminosa degli imputati e per dimensionarlo (quantum), si rientra nella cognizione di fatto, in relazione alla quale la parte ricorrente non ha presentato specifici vizi motivazionali.
Sempre nello stesso motivo, la difesa dell'imputato nega la sussistenza del danno all'amministrazione, in quanto l'impegno di spesa di cui alle delibere sarebbe stato giustificato dalla necessità di evitare un maggior danno patrimoniale al Comune, come risulterebbe dalla deposizione dell'avvocato del Comune P.: si tratta evidentemente di un'ulteriore questione di fatto, non prospettata come specifico vizio motivazionale in termini logico- giuridici.
Ancora, si imputa alla corte di avere erroneamente ritenuto sussistente il dolo intenzionale, non potendosene ricavare la prova solo dalla illegittimità del comportamento dell'agente; non condivisibile ritiene la difesa l'utilizzo del collegamento logico- temporale con le elezioni per valutare l'intenzionalità, trattandosi di mera congettura; la corte inoltre si è avvalsa della - contraddittoria - distinzione operata dal primo giudice tra gli assessori ricandidati e i non ricandidati e non ha considerato che l'imputato ha agito per realizzare gli interessi generali dell'amministrazione; non ha neppure considerato che se l'abuso deriva da una incompleta e/o errata interpretazione di norme o di una prassi amministrativa il fatto non costituisce reato per difetto dell'elemento psicologico.
Come risulta dalla stessa esposizione della difesa, si tratta in gran parte di prospettazioni di valutazioni alternative rispetto alla valutazione scelta dalla corte e ritenuta quindi non condivisibile.
Non sono però indicati specifici vizi motivazionali, venendo in realtà censurata l'utilizzazione degli elementi probatori per pervenire a una soluzione non condivisibile. Non è poi corretto, come già si rilevava a proposito del ricorso S., isolare un elemento probatorio che è stato utilizzato in una costruzione complessiva; nè può definirsi mera congettura anzichè indizio la circostanza, oggettivamente certa, della prossimità stretta delle elezioni rispetto al momento di approvazione delle delibere. E quanto all'asserto che l'imputato abbia provveduto sulla base di una sua errata interpretazione delle disposizioni normative, anch'esso si assesta chiaramente in punto di fatto; come pure l'ulteriore asserto che sia stato provato che l'imputato ha agito per realizzare gli interessi generali dell'amministrazione. Nè infine la corte ha mai affermato che il dolo intenzionale fosse provato soltanto dalla illegittimità del comportamento, come dimostra pure l'ampiezza della motivazione (già più sopra richiamata) al riguardo dell'elemento soggettivo in questione.
Disatteso dunque il primo motivo, si osserva che il secondo denuncia violazione del D.P.R. n. 361 del 1957, art. 95 con correlato vizio motivazionale, imputando alla corte un arbitrario ampliamento della fattispecie nonchè l'avere riscontrato una liberalità assente trattandosi di cessione pro solvendo e relativa a un rapporto di lavoro; la fattispecie sarebbe scriminata quanto meno ex artt. 51 e 59 c.p..
Riguardo al preteso ampliamento che la corte avrebbe effettuato della fattispecie del reato elettorale, si rimanda a quanto esposto a proposito del terzo motivo del ricorso S.. Non incide, evidentemente, il fatto che la cessione fosse pro solvendo, dal momento che, come già più sopra si rilevava, vi è stata comunque una corresponsione di denaro, cioè una elargizione ai sensi dell'art. 95 citato. Che poi la somma corrisposta sia da qualificare come ordinaria erogazione di istituto, cioè come versamento penalmente irrilevante, o meno, rientra nell'accertamento di fatto relativo all'elemento oggettivo del reato e non vi corrisponde l'identificazione da parte del ricorso di vizi logico-giuridici della motivazione sul punto.
Deve pertanto respingersi anche il secondo motivo.
14.2.3 Il terzo motivo ripropone la questione del concorso apparente, in sostanza senza introdurre argomenti diversi da quelli utilizzati nel motivo quarto del ricorso S.; si rimanda pertanto a quanto esposto in ordine ad esso.
In conclusione, va rigettato anche il secondo ricorso a favore dell'imputato St., con ogni conseguenza di legge.
15. Il ricorso della difesa D. - D.M. presenta cinque motivi.
15.1 Il primo, che denuncia violazione di legge e censura motivazionale, è tripartito.
15.1.1 In primo luogo imputa alla corte l'avere ritenuto le delibere atti di gestione concreta anzichè di indirizzo politico. Si tratta di questione di fatto relativa all'accertamento dell'elemento oggettivo dei reati. Riguardo alla motivazione, non sussistono indicazioni di specifiche criticità (a meno che non si voglia ritenere tale il riferimento a pag. 156 dove la corte riconosce la ineseguibilità della Delib. n. 644, elemento peraltro chiaramente insufficiente e "isolante", avendo la corte ritenuto che le due delibere siano un'unitarietà).
15.1.2 In secondo luogo si adduce che, nella gestione provvisoria essendo consentito all'ente locale di pagare il personale, nel caso di specie si trattò di una parte di retribuzione rimborsata. Anche questa è una qualifica di fatto attribuita al contenuto delle delibere, che costituisce parte dell'elemento oggettivo del reato ed è quindi frutto di una valutazione riservata al giudice di merito, del quale non sono addotti specifici vizi motivazionali al riguardo.
15.1.3 In terzo luogo si denuncia l'erronea applicazione del D.P.R. n. 361 del 1957, art. 95 perchè nelle delibere non erano stati fissati termini di pagamento; si tratta in realtà di un'ulteriore questione di fatto, come evidenzia la stessa motivazione della corte laddove costruisce un accertamento nel senso che vi era stato un accordo ("ribadito" posteriormente dal sindaco con la sua disposizione del 13 maggio 2005) per il pagamento immediato, accordo coinvolgente tutti coloro che votarono le delibere.
La motivazione sarebbe poi illogica, secondo i ricorrenti, laddove attribuisce alle delibere efficacia causale nella acquisizione di ingiusto vantaggio patrimoniale da parte dei dipendenti comunali, dato che questi non hanno ricevuto ingiusto vantaggio poichè l'erogazione era pro solvendo e la Delib. 7 dicembre 2005, n. 629 dispose la restituzione della somma. E' evidente che non vi è alcuna illogicità, essendo sufficiente a integrare un vantaggio patrimoniale la disponibilità di una somma di denaro anche per un tempo determinato.
Alla corte è imputata altresì l'erronea applicazione del D.P.R. n. 361 del 1957, art. 95 poichè l'erogazione era solo il pagamento di somme dovute ai dipendenti; come già esposto a proposito dell'analogo motivo nel secondo ricorso St., la qualificazione dell'erogazione rientra nell'accertamento di fatto dell'elemento oggettivo del reato.
15.2 Il secondo motivo a sua volta è composto di una pluralità di censure, rubricate come erronea applicazione della legge penale, mancata assunzione di prova decisiva e vizio di manifesta illogicità della motivazione.
15.2.1 Si dolgono i ricorrenti che la corte si sia avvalsa della testimonianza D'. quanto all'elemento soggettivo di entrambi i reati contestati, testimonianza contraddetta dal dirigente dell'ufficio personale di Catania R. riguardo alla partecipazione di assessori alle riunioni di preparazione delle delibere, e che d'altronde lascerebbe intendere che l'unico interessato nella vicenda era il sindaco. E' evidente, sotto questo profilo, che si propone una diversa valutazione degli esiti istruttori, con particolare riguardo al confronto tra la deposizione D'. e la deposizione R. e alla stessa interpretazione della testimonianza D'.: questioni di fatto che non trovano corrispondenza in alcuna effettiva illogicità della motivazione.
15.2.2 Ulteriore errore della corte sarebbe stato ritenere che l'avvocatura del Comune avesse dato parere contrario, travisando, come risulterebbe dalla deposizione P.. Pur se formulata in modo non del tutto coincidente, la censura del travisamento in relazione al ruolo dell'avvocatura si è già riscontrata nel secondo motivo del ricorso S., ed è stata disattesa: a quanto in quella sede osservato pertanto si rimanda, dando atto che invero non emergono dalla motivazione difformità rispetto all'effettivo contenuto delle deposizioni testimoniali sia dell'avvocato P. sia del suo capo, l'avvocato A..
15.2.3 Si dolgono poi i ricorrenti del fatto che la corte non ha valutato l'incidenza dei pareri tecnici sulle delibere, non essendo d'altronde comprensibile quanto da essa affermato in ordine alla competenza specifica degli assessori e pervenendosi quindi alla censura della mancata ammissione delle testimonianze di B. G., F.E., L.G. e C.A., per cui non si sarebbe dovuta verificare la necessità di una rinnovazione ex art. 603 c.p.p., bensì la rilevanza della prova richiesta ex art. 495 c.p.p.. Si rimanda a quanto osservato a proposito del ricorso S., primo motivo, riguardo al rigetto della richiesta di ammissione delle testimonianze; per quel che concerne, poi, le valutazioni della corte sull'incidenza dei pareri tecnici e sulla competenza specifica, si tratta evidentemente, appunto, di valutazioni di fatto (rispettivamente relative all'elemento oggettivo e all'elemento soggettivo dei reati contestati) non condivise dalla difesa ma non riversate in uno specifico vizio motivazionale.
15.3 Il terzo motivo del ricorso ripropone in sostanza, come violazione di legge, la questione del concorso apparente di norme, per cui si rimanda a quanto sopra già osservato a proposito delle difese S. e St..
15.4 Il quarto motivo a sua volta ripropone la questione della prescrizione applicabile, per cui si rimanda ancora a quanto già evidenziato a proposito dei suddetti ricorsi.
15.5 Infine il quinto in relazione al trattamento sanzionatorio prospetta erronea applicazione della legge penale e manifesta illogicità della motivazione. In realtà, dalla sentenza impugnata (pagg. 221 ss.), che conferma la posizione del giudice di primo grado, nulla del genere emerge, risultando una limpida e lineare motivazione con cui viene illustrato un ragionamento esente da violazioni di legge, distinguendo la posizione degli assessori da quella del sindaco.
16.1 Il ricorso della difesa di G.F. presenta come primo di quattro motivi, ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed e), l'erronea applicazione dell'art. 323 c.p. non avendo la corte valutato le difese in ordine alla ritenuta sussistenza dell'abusività della condotta: la Delib. n. 644 era doverosa e la Delib. n. 645 (l'unica alla cui approvazione l'imputato partecipò) ebbe solo il fine di integrare quanto precedentemente deciso. Si tratta in realtà di questioni di fatto sull'elemento oggettivo del reato, cui non corrisponde un'indicazione vera e propria di specifici vizi motivazionali. Il motivo va dunque rigettato.
16.2 Il secondo motivo, pure ex art. 606 c.p.p.,lett. b) ed e), denuncia ancora l'erronea applicazione dell'art. 323 c.p., per avere la corte immotivatamente ed erroneamente ritenuto il dolo intenzionale sussistente nella condotta dell'imputato, non essendo punibile una condotta diretta a realizzare gli interessi della pubblica amministrazione, e non essendo giustificabile come ad altre amministrazioni che hanno tenuto lo stesso comportamento non sia stato contestato l'abuso d'ufficio; se poi vi è stato abuso, è parimenti non giustificabile il proscioglimento in primo grado di due dei componenti della giunta che approvarono entrambe le delibere.
Per quanto concerne il contenuto della delibera come manifestazione di una condotta diretta a realizzare gli interessi della pubblica amministrazione, si tratta chiaramente di una questione di fatto la cui valutazione è riservata al giudice di merito; non corrisponde peraltro a vizi motivazionali, anche perchè è chiaramente irrilevante in questa sede la pretesa condotta criminosa di altre amministrazioni, come pure è irrilevante il proscioglimento in primo grado di due imputati, rispetto al quale il giudice di secondo grado non ha avuto alcuna cognizione essendosi già formato il giudicato.
Pure questo motivo va pertanto disatteso.
Il terzo motivo denuncia vizio motivazionale quanto al reato elettorale in ordine agli elementi costitutivi del reato stesso: non sussisteva liberalità perchè le delibere miravano a un dovuto risarcimento ed erano sorrette dal convincimento di doverosità.
Anche in questo caso si tratta in realtà della non condivisione di valutazioni della corte in tema di accertamento di merito, senza peraltro specifica indicazione di reali vizi motivazionali, per cui il motivo va respinto.
16.4 Il quarto motivo propone ancora il vizio motivazionale rispetto al reato elettorale laddove si è ritenuto sussistente un concorso formale tra esso e l'art. 323 c.p., non essendo stata accertata la sussistenza di concorso apparente applicando il principio di specialità; semmai sarebbe stato sussistente il reato di cui al D.P.R. n. 361 del 30 marzo 1957, art. 96. Si tratta, anche se rappresentata sotto profilo di vizio motivazionale, della questione del concorso apparente già esaminata più sopra, senza introduzione di elementi nuovi rilevanti, ed essendo palesemente non pertinente il riferimento all'art. 96 citato, nessuno avendo contestato rapporti diretti tra la Giunta e i dipendenti del Comune. La motivazione in realtà non è oggetto di specifiche censure di vizi, non potendosi certo ritenere che la questione del concorso apparente non sia stata accertata, essendo stata invece oggetto di una motivazione tutt'altro che apparente, ma anzi particolarmente approfondita. Anche questo motivo va dunque respinto.
17. Il ricorso della difesa di F.F. è composto di sette motivi.
17.1 Il primo attiene alla mancanza della imputazione non riportata in sentenza di secondo grado, che comporterebbe violazione dell'art. 178 c.p.p., lett. c), e dell'art. 546 c.p.p., lett. c). In realtà non sussiste alcun vizio procedurale. Già nel vigore del precedente codice di procedura penale (per cui la mancata enunciazione dei fatti imputati comportava la nullità della sentenza) la giurisprudenza aveva ritenuto che, nella sentenza d'appello, la mancata trascrizione dei fatti addebitati all'imputato non determinava tale nullità quando dalla motivazione risultava evidente il riferimento ai capi d'imputazione contestati nel giudizio di primo grado. Il codice attualmente vigente non prevede più tale causa di nullità della sentenza, come si evince dall'art. 546 c.p.p., comma 3, e art. 547 c.p.p.: il ricorso per cassazione può avere ad oggetto solo i vizi formali della sentenza concernenti il dispositivo e l'omessa sottoscrizione del giudice (Cass., sez. 3^, 22 gennaio 1997 n. 2059) dato che la mancanza o incompleta indicazione in ogni sentenza - non più solo d'appello - del capo di imputazione non rende nulla la sentenza stessa, poichè l'enunciazione dei fatti e delle circostanze ascritti all'imputato può essere desunta dal contenuto complessivo della decisione (Cass., sez. 5^, 17 dicembre 2008-13 gennaio 2009 n. 1137). E l'articolato contenuto del ricorso ben dimostra che la difesa non ha subito alcuna lesione, potendo agevolmente evincere dall'ampia sentenza quel che era stato contestato all'imputato.
17.2 Il secondo motivo denuncia violazione degli artt. 40 e 41 c.p., artt. 3, 24, 27 e 111 Cost., art. 61 CEDU, e correlato vizio motivazionale, per non avere la sentenza valutato la condotta dell'imputato, esaminando in modo indifferenziato il fatto oggetto di imputazione e senza considerare che la Delib. 10 maggio 2005 non era idonea a produrre da sola il trasferimento del denaro. Il motivo è infondato: la corte ha svolto la sua valutazione di fatto in ordine alla inscindibilità, ai fini dell'integrazione dei reati ascritti agli imputati, delle due delibere, e ha manifestato ciò senza contraddizioni e illogicità motivazionali (si vedano in particolare pag. 135 e pag. 199).
17.3 Il terzo motivo denuncia violazione degli artt. 42, 43, 47 e 323 c.p., e D.P.R. n. 361 del 1957, art. 95 e correlato vizio motivazionale, per difetto nella sentenza di accertamento dell'elemento soggettivo dell'imputato, riproponendo argomenti (sulla doverosità di corrispondere le somme, sulle sentenze del Tar, sull'errore sul fatto presupposto alla commissione del reato ex art. 47 c.p.) già proposti dalle difese dei ricorsi più sopra esaminati, al cui vaglio pertanto si rimanda, ribadendo che l'ampia motivazione del giudice di merito sull'elemento soggettivo (pagg. 129-166) non presenta alcun vizio logico-giuridico.
17.4 Il quarto motivo denuncia la violazione degli artt. 42 e 43 c.p. e D.P.R. n. 361 del 1957, art. 95 nonchè il vizio motivazionale, adducendo che la partecipazione dell'imputato alla seduta del 10 maggio 2005 non ha comportato alcun impegno finanziario ma un mero atto di indirizzo. Anche questo profilo è già stato vagliato nell'esame del secondo motivo del ricorso dell'avvocato Strano Tagliareni proposto in difesa dell'imputato St., cui pertanto si rimanda. Non sussiste, poi, alcuno specifico vizio motivazionale riconducibile a esso.
17.5 Il quinto motivo censura, sia come violazione di legge sia come vizio motivazionale, l'accertamento della corte in ordine alla incidenza criminosa della Delib. n. 644, che secondo la difesa, per il suo contenuto, renderebbe impossibile il reato. Si ripropone, in tal modo, quanto era già stato prospettato nel secondo motivo.
17.6 Il sesto motivo ripropone di nuovo la questione dell'incidenza della Delib. n. 644, che secondo la difesa non ha un contenuto tale da creare una fattiva partecipazione alla elargizione del denaro, per cui non vi sarebbe condotta di rilievo concorsuale nel reato. Si tratta, in sostanza, ancora di quanto rappresentato nel secondo motivo in ordine alla inidoneità della Delib. n. 644 a costituire elemento oggettivo dei reati contestati.
17.7 Infine, il settimo motivo censura la mancanza di accertamento della illegittimità del rimborso e prima ancora della consapevolezza della illegittimità in capo agli assessori: si tratta evidentemente dell'accertamento dell'elemento oggettivo e dell'elemento soggettivo di entrambi i reati, rispetto al quale non sussiste carenza di motivazione, come già si è visto più volte, per cui anche questo motivo va disatteso.
18. In conclusione, tutti i ricorsi presentati risultano meritevoli di rigetto, con conseguente condanna alle spese processuali.
S.U. deve altresì essere condannato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile B.V., liquidate come da dispositivo.
(Torna su   ) P.Q.M.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè S.U. al rimborso delle spese in favore della parte civile, che liquida in complessivi Euro 4600,00 (quattromilaseicento), di cui Euro 600,00 per spese, oltre a IVA e CPA come per legge.
Così deciso in Roma, il 7 novembre 2012.
Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2013
Avv. Antonino Sugamele

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