Misura di prevenzione con obbligo di soggiorno inflitta dalla Corte di appello di Messina. Il ricorrente lamenta la mancanza di pericolosità attuale. La Corte deduce che in Cassazione è rilevabile solo il vizio della violazione di legge.
Autorità: Cassazione penale sez. I
Data udienza: 16 gennaio 2013
Numero: n. 2877
Intestazione
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ZAMPETTI Umberto - Presidente -
Dott. CAVALLO Aldo - Consigliere -
Dott. BONITO Francesco M. S - Consigliere -
Dott. CAPRIOGLIO Piera M. - rel. Consigliere -
Dott. LA POSTA Lucia - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
C.A. N. IL (OMISSIS);
avverso il decreto n. 8/2011 CORTE APPELLO di MESSINA, del
07/12/2011;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. PIERA MARIA SEVERINA
CAPRIOGLIO;
lette le conclusioni del PG di inammissibilità del ricorso.
(Torna su ) Fatto
RITENUTO IN FATTO
1. Con decreto del 7.12.2011, la corte d'appello di Messina confermava il decreto del Tribunale della stessa città con cui era stata disposta la misura di prevenzione di PS per anni tre, con obbligo di soggiorno, nei confronti di C.A.. La Corte rilevava che non era affatto remoto il carattere delle condotte delittuose ascritte all'interessato, considerate quelle degli anni 2006/2008; che il prevenuto risultava inserito in un contesto a sfondo mafioso, con frequentazioni allarmanti che testimoniavano il consolidato e risalente inserimento dello stesso in pericolosi circuiti criminali, con il che si giustificava l'adozione della misura suindicata.
2. Avverso detta sentenza, ha interposto ricorso per cassazione la difesa per dedurre violazione della L. n. 575 del 1965, art. 1, per avere la corte territoriale erroneamente ritenuto sussistente l'attualità della pericolosità del C., pur essendo i suoi precedenti lontani nel tempo; la perduranza del vincolo associativo non poteva essere presunta, non foss'altro perchè il sodalizio ebbe a disintegrarsi medio tempore e poi perchè egli ebbe a recedere da detto vincolo, per lo meno a far tempo dal 2007; viene aggiunto che l'addebito associativo gli venne mosso quando C. era detenuto da più di un anno e che sullo stesso non era ancora intervenuta condanna. I reati fine erano risalenti nel tempo e pertanto la pericolosità non poteva ritenersi attuale.
3. Il Procuratore Generale ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso.
(Torna su ) Diritto
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso va dichiarato inammissibile, così come richiesto dal Procuratore Generale, considerato che le doglianze non sono state mantenute all'interno del rigoroso perimetro previsto dalla legge (deducibilità solo del vizio di violazione di legge), ma sono state estese al controllo sull'adeguatezza e sulla coerenza logica del discorso giustificativo. Nel caso di specie, deve essere sottolineato come i giudici a quibus abbiano valorizzato correttamente -per addivenire ad un giudizio sull'attuale pericolosità sociale del prevenuto- sia i precedenti penali, che il pregresso accertato inserimento del C. in un sodalizio di stampo mafioso, che non poteva dirsi cessato in ragione delle frequentazioni del medesimo con soggetti pericolosi, dimostrativa di contiguità. Il fatto poi che il C. abbia trascorso un periodo in stato di custodia cautelare non poteva essere considerato dimostrativo del recesso dal sodalizio, considerato che ben possono essere mantenuti rapporti anche durante la detenzione carceraria.
Il provvedimento impugnato non evidenzia alcuna forzatura del dato normativo ed è supportato da motivazione esente da vizi di gravità tale (fittizietà o contraddittorietà) integranti la violazione di legge, laddove la semplice insufficienza e la non puntualità del discorso giustificativo costituiscono vizi afferenti la motivazione che non sono deducibili in detta sede.
Si impone quindi la dichiarazione di inammissibilità del ricorso; a tale declaratoria, riconducibile a colpa del ricorrente, consegue la sua condanna al pagamento delle spese del procedimento e di somma che congruamente si determina in Euro mille, a favore della cassa delle ammende, giusto il disposto dell'art. 616 c.p.p., così come deve essere interpretato alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 186/2000.
(Torna su ) P.Q.M.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro mille alla cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2013.
Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2013
02-02-2013 15:53
Richiedi una Consulenza