Millantato credito.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE , SENTENZA 18 aprile 2013 17941 Pres. Cortese – est. Paoloni , n.17941 - Pres. Cortese – est. Paoloni
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con ordinanza del 17.9.2012 il g.i.p. del Tribunale di Gela ha applicato ad A.E.P., indagata per quattro ipotesi di truffa (consistite nel far credere alle vittime, dietro versamento di somme di denaro, di essere in grado di far ottenere ai loro figli posti di lavoro a (OMISSIS)) e per due ipotesi di millantato credito di cui all'art. 346 c.p., comma 2, la misura cautelare della custodia in carcere in relazione ai fatti di millantato credito di cui ai capi C) e D) della provvisoria rubrica. Fatti criminosi commessi a (OMISSIS) ed integrati dall'essersi l' A. fatta consegnare:
- dai coniugi T.G. e Z.M. la complessiva somma di Euro 40.000,00 con il pretesto di dover impiegare parte di tale denaro "per comprare i favori di C.I.", cancelliere in servizio presso il Tribunale Civile di Gela, perchè si adoperasse per far loro aggiudicare a prezzo vantaggioso un appartamento oggetto di asserita procedura esecutiva immobiliare (capo C);
- da B.M.R. la complessiva somma di Euro 25.000,00 con il pretesto di dover impiegare parte del denaro "per comprare i favori di tale Co., da identificarsi in Co.Se., ufficiale giudiziario dell'ufficio N.E.P. di (OMISSIS)", perchè si adoperasse, "tramite sue conoscenze", per ottenere il trasferimento del figlio della B. presso lo stabilimento ENI di (OMISSIS) e l'assunzione della figlia della donna presso la mensa della Raffineria Gela S.p.A. con mansioni di aiuto-cuoca (capo D).
Il g.i.p. procedente ha ritenuto sussistenti gravi indizi di colpevolezza a carico della A., rappresentati: dalle lineari e attendibili denunce-querele, seguite da dettagliate informazioni testimoniali, delle persone vittime delle truffe e delle millanterie dell'indagata; dal riscontro che tali assunti accusatori hanno ricevuto dalla individuazione degli assegni bancari ceduti all'indagata; dalla pronta negoziazione per l'incasso di tali titoli da parte della stessa indagata; dalle ricevute delle singole dazioni rilasciate dalla donna con dissimulate causali di prestiti fiduciari personali.
Quanto alle esigenze cautelari legittimanti l'adozione della misura carceraria, il g.i.p. ha evidenziato il profilarsi di elevato pericolo di reiterazione di condotte criminose della stessa specie ad opera dell'indagata, avuto riguardo - oltre che alla oggettiva gravità dei fatti reato (compiuti in danno di persone anziane e facilmente suggestionabili) - ai suoi precedenti penali (per truffa, appropriazione indebita, emissione di assegni senza copertura) e ai procedimenti pendenti per analoghe vicende di truffa e millantato credito (pluralità di denunce proposte contro la donna).
2. Adito dall'istanza di riesame della A., precipuamente incentrata sul tema delle esigenze cautelari e su quello della asserita non configurabilità della fattispecie di cui all'art. 346 c.p., comma 2 per i fatti contestatile con il capo D) della rubrica, il Tribunale distrettuale di Caltanissetta con l'indicata ordinanza del 16.10.2012 ha confermato il provvedimento coercitivo del g.i.p. sotto il profilo della ravvisabilità dei gravi indizi di colpevolezza involgenti l'indagata, parzialmente accogliendo l'istanza di riesame in punto di adeguatezza dell'applicata misura cautelare, che ha ritenuto di sostituire con quella degli arresti domiciliari in città diversa da (OMISSIS) con divieto di contatti con persone estranee ai familiari conviventi. Misura meno afflittiva ritenuta idonea a contrastare il persistente pericolo di recidiva riferibile all'indagata.
3. Avverso l'ordinanza del Tribunale del riesame ha proposto ricorso per cassazione il difensore di A.E.P., articolando due motivi di censura.
3.1. Violazione dell'art. 346 c.p., comma 2 in riferimento alla condotta descritta nel capo D) dell'imputazione provvisoria.
Erroneamente il giudice cautelare prima e i giudici del riesame poi hanno ritenuto sussumibile la condotta di millanteria della A. nei confronti della p.o. B.M.R. nella ipotesi criminosa di cui all'art. 346 c.p., comma 2. Secondo l'accusa la pretestuosa interposizione "favoristica" dell'ufficiale giudiziario Co.
avrebbe dovuto esplicarsi presso società private quali l'ENI e una sua controllata. Sicchè l'eventuale attività del pubblico ufficiale prefigurata dall' A. non delinea un'ipotesi di corruzione del pubblico ufficiale, giacchè questi avrebbe dovuto agire al di fuori delle sue funzioni, non rendendosi infedele alle stesse, nè realizzando atti scorretti propri del suo ufficio o servizio pubblico. L'interesse protetto dall'art. 346 c.p. presuppone che alla qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio dell'interposto si connetta la natura pubblica dell'ente in cui egli è inserito, come afferma la giurisprudenza della S.C. (Cass. Sez. 6, 16.6.1980 n. 1230, Campese, rv. 146784).
3.2. Erronea applicazione dell'art. 192 c.p.p. e difetto di motivazione in punto di sussistenza delle condotte illecite ascritte alla prevenuta.
Il Tribunale del riesame non ha fornito adeguata giustificazione della sussistenza degli elementi costitutivi del reato di millantato credito configurato con le imputazione sub C) e sub D) contestate alla ricorrente. Gli elementi indiziari valorizzati dai giudici del riesame sono ambigui e incerti. In particolare non è stata operata adeguata verifica delle affermazioni accusatorie delle presunte vittime. Il solo dato certo è costituito dalle dazioni di denaro alla A., ma tali dazioni sono sorrette da ricevute che ne attestano una natura lecita ("prestiti"). Le "vanterie" attribuite alla A. nelle testimonianze dei denuncianti non sono descritte in maniera specifica e fanno dubitare dell'attendibilità degli stessi dichiaranti, interessati al "recupero del denaro trasferito alla A.".
4. Il ricorso proposto nell'interesse di A.E.P. deve essere rigettato, perchè il primo motivo di censura è infondato e il secondo motivo è indeducibile.
4.1. A prescindere dalla sua mancanza di specificità (per vaghezza degli assunti critici), il secondo motivo di ricorso non può ritenersi consentito - nel rispetto del generale principio devolutivo dell'impugnazione - nell'attuale giudizio di legittimità, perchè estraneo al thema decidendum della regiudicanda cautelare, quale definito dall'impugnata ordinanza del Tribunale e dall'originaria richiesta di riesame (come precisata con memoria difensiva del 16.10.2012). In vero tale richiesta non sollevava alcuna censura sulla concludenza del quadro indiziario concernente l' A., fatta eccezione - oltre che per la principale doglianza attinente alle esigenze cautelari - per la qualificazione giuridica dei fatti considerati dalla sola imputazione ex art. 346 c.p. di cui al capo D) della rubrica. Ciò non senza aggiungere che ad ogni buon conto il Tribunale del riesame ha comunque vagliato in via preliminare il compendio degli elementi indiziari prospettantisi nei confronti dell'indagata, evidenziandone con lineari e logici argomenti la gravità e la convergenza già delineate dal g.i.p. del Tribunale di Gela.
4.2. Il primo motivo di impugnazione è infondato, poichè muove da una fuorviante individuazione degli elementi strutturali del reato previsto dall'art. 346 c.p., comma 2, pacificamente qualificabile come fattispecie autonoma di reato e non come ipotesi aggravata della generale illecita condotta descritta nell'art. 346 c.p., comma 1.
Diversamente da quanto si ipotizza nel ricorso, la natura pubblica della struttura organizzativa e amministrativa in cui sia inserito il pubblico ufficiale o il pubblico dipendente incaricato di un pubblico servizio o, meglio, il "pubblico impiegato" (come recita l'art. 346 c.p., comma 2), di cui il soggetto millantatore fa pretestuosamente credere di "dover comprare il favore" ovvero di "doverlo remunerare", non è un presupposto del reato. Al riguardo non può reputarsi pertinente il remoto precedente giurisprudenziale evocato nel ricorso (Cass. Sez. 6, 16.6.1980 n. 12320, Campese, rv. 146784), che - non a caso - è incentrato unicamente sulla qualifica pubblica o non del soggetto presso il quale è millantato credito (v. sent. cit.: "il millantare credito presso un impiegato privato, incaricato di un pubblico servizio, non integra la fattispecie di cui all'art. 346 c.p.").
Evidenziandosi come l'art. 346 c.p., comma 2, non richieda, a differenza del comma 1, che l'impiegato pubblico svolga anche un servizio pubblico nel senso tecnico di tale nozione ricavabile dall'art. 358 c.p., è soltanto la qualifica di pubblico ufficiale o, comunque e in via assorbente, di "pubblico impiegato" del soggetto nei cui confronti il millantatore fa credere di dover spendere la propria "mediazione" che costituisce, infatti, condizione necessaria e sufficiente di esistenza del reato di millantato credito nella struttura prevista dall'art. 346 c.p., comma 2. Struttura che, può aggiungersi, concorre a delineare un peculiare dato differenziale rispetto alla nuova fattispecie del traffico di influenze illecite ex art. 346 bis c.p. (introdotta con L. 6 novembre 2012, n. 190).
Fattispecie, questa, configurabile soltanto in rapporto alla indebita "mediazione" verso un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio (e non in genere verso un qualsiasi dipendente pubblico: id est "pubblico impiegato"); mediazione da correlare necessariamente al compimento della funzione o del servizio pubblico svolti dal potenziale destinatario della mediazione o influenza illecita prefigurate, grazie alle "relazioni esistenti" con costui e - dunque - reali e non soltanto vantate o millantate, dal soggetto interpostosi come "mediatore" e punibile ai sensi dell'art. 346 bis c.p., comma 1.
4.3. L'interesse protetto dalle due fattispecie sanzionate dall'art. 346 c.p. va individuato (come affermano dottrina e giurisprudenza concordi) nel prestigio e nella esteriore e tangibile credibilità della pubblica amministrazione, sì che ogni pubblico ufficiale o impiegato pubblico esercente un pubblico servizio (art. 346 c.p., comma 1) ovvero ogni pubblico ufficiale o impiegato pubblico pur non esercente un pubblico servizio (art. 346 c.p., comma 2) non appaia facilmente "avvicinabile" e disposto a favorire interessi privati in violazione dei principi di imparzialità e di correttezza comportamentale che debbono ispirarne l'azione nelle suindicate qualità. Se cosè è, non può dubitarsi che - per realizzare il discredito e la denigrazione della pubblica amministrazione costituente l'oggettività giuridica del reato di millantato credito previsto dall'art. 346 c.p., comma 2 - non occorre nè che il soggetto "millantato" sia specificamente individuato o individuabile, nè che disponga di effettiva competenza funzionale (ratione officii) rispetto al beneficio o favore fatto sperare o promesso dal millantatore alla persona offesa (id est danneggiata) dalla illecita "vanteria". Per perfezionare il reato di cui all'art. 346 c.p., comma 2, è sufficiente che il millantatore faccia credere alla vittima di essere in grado di intervenire presso un pubblico ufficiale o un pubblico impiegato perchè questi per denaro spenda a "favore" della vittima il prestigio, l'autorevolezza e l'influenza connessi alla sua qualità di pubblico impiegato, non occorrendo che egli eserciti o presti una funzione pubblica o un servizio pubblico strumentali rispetto alla realizzazione del prefigurato "favore" (ex multis:
Cass. Sez. 6, 27.1.2000 n. 2645, Agrusti, rv. 215651).
Ne consegue, allora, che non necessariamente (e a differenza di quanto prevede la fattispecie di nuovo conio di cui all'art. 346 bis c.p.) il pubblico funzionario (pubblico ufficiale o pubblico impiegato) "abbordabile" dal millantatore debba essere descritto come corrotto o pronto a rendersi partecipe di una corruzione passiva in senso proprio (cioè correlata, in tesi, ad atti o attività funzionali dello specifico ufficio o pubblico servizio da lui espletato), essendo sufficiente che ne sia preannunciata anche la sua disponibilità, "comprabile" o "remuneratile", a svolgere interventi presso altri pubblici funzionari o presso soggetti terzi volti a favorire la vittima della millanteria, compromettendo con simile condotta la propria immagine di correttezza istituzionale.
4.4. Per tralaticio assunto interpretativo si suole sostenere che il soggetto pubblico (pubblico ufficiale o pubblico impiegato) di cui il millantatore ostenti l'avvicinabilità debba essere descritto come corrotto o corruttibile.
Ma, avendo puntuale riguardo alla particolare struttura della fattispecie di cui all'art. 346 c.p., comma 2, non sempre è o deve essere così, perchè l'area della corruttibilità o della potenziale rilevanza penale delle condotte non esaurisce la gamma dei possibili contegni che - secondo la pretestuosa prospettazione del millantatore - il funzionario pubblico può tenere per assecondare il personale privato interesse della vittima della millanteria. Nella pretestuosa rappresentazione del millantatore, ad esempio, il funzionario pubblico ben potrebbe al detto fine realizzare (se è altresì pubblico ufficiale) una concussione o altre forme di abuso della sua sola qualità pubblica e dei connessi doveri e non anche e necessariamente dei suoi poteri funzionali. Ben potrebbe, ancora ad esempio, limitarsi a spendere soltanto la sua qualità di funzionario pubblico, facendo valere presso altri dipendenti pubblici o semplici privati tale sua specifica veste e il credito ad essa legato per segnalare, perorare o "raccomandare" le ragioni della persona vittima di millanteria, così attuando un vero e proprio abuso di "ruolo".
Non sembra dubitabile, del resto, che un tale fraudolento ritratto dell'azione del pubblico funzionario "comprabile" o "remunerabile", che giustifichi la dazione o promessa di denaro cui viene falsamente indotta la vittima, è già di per sè idonea a ledere il prestigio e l'immagine di correttezza della pubblica amministrazione, compromessi dal rappresentarne i dipendenti come disponibili a far indebitamente "pesare" la propria qualità di funzionari pubblici. Il che giustifica, per la più rilevante offensività della condotta millantatoria, la maggiore estensione applicativa della fattispecie prevista dall'art. 346 c.p., comma 2, che rende punibile la millanteria "remuneratoria" di qualunque pubblico impiegato (e non del solo pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio).
Nè al riguardo è superfluo rilevare, per completezza, che - per il codice di comportamento dei dipendenti pubblici richiamato dal D.Lgs. n. 165 del 2001 - il pubblico impiegato è tenuto a evitare ogni contegno che possa distorcere l'esteriore percezione della pubblica amministrazione o deteriorarne ingiustificatamente l'immagine. Non è un caso che il codice di comportamento vieti all'impiegato pubblico di approfittare della propria posizione e del proprio ruolo (art. 9 codice, intitolato al comportamento nella vita sociale: "Il dipendente non sfrutta la posizione che ricopre nell'amministrazione per ottenere utilità che non gli spettino. Nei rapporti privatL.non menziona nè fa altrimenti intendere, di propria iniziativa, tale posizione, qualora ciò possa nuocere all'immagine dell'amministrazione").
4.5. Quella appena descritta è esattamente la situazione presa in esame dall'accusa di cui al capo D) della rubrica ascritta alla ricorrente A.. Accusa in base alla quale è evidente che la pretestuosa prospettazione alla danneggiata B. di possibili "interventi" dell'ufficiale giudiziario Co.Se. si correla proprio e soltanto alla possibilità che costui - anche grazie alle sue "conoscenze" e aderenze - si adoperi in favore dei due figli della B., facendo leva sul prestigio della sua pubblica funzione di ufficiale giudiziario, ben conosciuta in una città non grande come (OMISSIS), e sull'ascendente da essa esercitata a livello locale presso qualunque terzo (soggetto pubblico o privato che sia).
Alla concludenza dei dati indiziari afferenti a tale episodio criminoso ed alla apprezzabilità penale, per gli effetti di cui all'art. 346 c.p., comma 2, della condotta della A. nei confronti della malcapitata signora B. congruamente e correttamente si è riportato il Tribunale del riesame nisseno.
Il rigetto dell'impugnazione impone la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
24-05-2013 23:12
Richiedi una Consulenza