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Sentenza

Gup Trapani. Pubblico ufficiale imputata di falso ideologico per falsa attestazione apposta in calce ad alcune firme di presentazione di una lista di candidatura per le elezioni di un sindaco della provincia.
Gup Trapani. Pubblico ufficiale imputata di falso ideologico per falsa attestazione apposta in calce ad alcune firme di presentazione di una lista di candidatura per le elezioni di un sindaco della provincia.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 24 aprile - 22 maggio 2013, n. 22023
Presidente Marasca – Relatore Lignola

Ritenuto in fatto

Con sentenza del 27 aprile 2012 del G.U.P. di Trapani, P.A. era prosciolta dall'accusa di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, con riferimento alla falsa attestazione apposta in calce ad alcune firme di presentazione di una lista di candidatura per le elezioni del sindaco del consiglio comunale di ..., previa riqualificazione del reato nella contravvenzione prevista dall'articolo 100, comma 3, del d.P.R. 361 del 1957, per essere il reato estinto a seguito di prescrizione.
Ricorre per cassazione il Procuratore Generale di Palermo, con atto recante un unico motivo, per inosservanza ed erronea applicazione la legge penale, in relazione agli articoli 479 e 157 c.p. nonché 100 del d.P.R. 361 del 1957, perché, a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale di tale ultima norma, con sentenza n. 394 del 2006 della Consulta, la condotta rientra nella previsione del delitto di cui all'articolo 479 c.p., originariamente contestato, e dunque la prescrizione non è maturata.

Considerato in diritto

1. Preliminarmente deve darsi atto che, pur essendo previsto per lo svolgimento del presente giudizio la forma del rito camerale, a norma dell'art. 428, comma 3 e 127 c.p.p., si è proceduto in pubblica udienza, con la partecipazione del difensore dell'imputato, che ha depositato in questa sede la nomina fiduciaria. Ciò peraltro non comporta alcun vizio del giudizio, poiché la forma pubblica presenta maggiori garanzie per l'imputato.
1.1 Nel merito il ricorso è fondato e pertanto va accolto.
2.1 Invero, al prevenuto era originariamente contestato il reato di falso di cui all'art. 479 c.p. per la falsa attestazione apposta in calce ad alcune firme di presentazione di una lista di candidatura per le elezioni del sindaco del consiglio comunale di Alcamo; il giudice per l'udienza preliminare, invece, ha riqualificato la condotta ai sensi dell'art. 100, comma 3, del d.P.R. 361 del 1957, come sostituito dall'art. 1, comma 1, lett. a), I. 2 marzo 2004, n. 61, dichiarando il reato estinto per prescrizione.
Come è noto il legislatore, con la L. n. 61 del 2004, art. 1, ha estrapolato dall'art. 100, comma 2, del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati le falsità relative alla formazione delle liste dei candidati o alla loro autenticazione e le ha inserite nel terzo comma, allo scopo di riservare loro un trattamento più mite ossia trasformandole da delitti in contravvenzioni punibili con la sola ammenda cioè in contravvenzioni oblazionabili. Il testo della disposizione prevedeva infatti che "chiunque commette uno dei reati previsti dai Capi III e IV del Titolo VII del Libro secondo del codice penale aventi ad oggetto l'autenticazione delle sottoscrizioni di liste di elettori o di candidati ovvero forma falsamente, in tutto o in parte, liste di elettori o di candidati, è punito con la pena dell'ammenda da 500 Euro a 2.000 Euro".
La Corte costituzionale, con la sentenza dianzi citata, ha dichiarato l'illegittimità di tale norma, perché ha ritenuto irragionevole la previsione per il reato di falsità nella formazione o nella autenticazione delle sottoscrizioni di liste di elettori o di candidati, la sola pena dell'ammenda, mentre per tutti gli altri reati di falso in atto pubblico è prevista la più grave della reclusione.
Orbene la pronuncia d'illegittimità costituzionale ha fatto rivivere l'originaria sanzione, la quale ha riacquistato vigore a seguito dell'annullamento da parte della Corte costituzionale.
La fattispecie in esame non presenta i problemi che invece pone la dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma abrogatrice di una preesistente norma incriminatrice, proprio perché la norma preesistente non è stata abrogata dal legislatore, il quale si è limitato a trasformare in contravvenzione un delitto. In ogni caso, il problema della reviviscenza della norma abrogata sostituita da quella dichiarata incostituzionale non può essere risolto in base ad una rigida contrapposizione tra norma abrogata o sostituita da quella dichiarata incostituzionale e pronuncia d'illegittimità, ma deve essere valutato caso per caso tenuto conto della natura, struttura e tipologia della disposizione abrogante, ritenuta incostituzionale, della posizione della norma abrogata o sostituita nel sistema e dei possibili modi per ricomporre il sistema stesso a seguito della pronuncia d'incostituzionalità, del contenuto della decisione della Corte Costituzionale, ecc; e ciò anche in virtù del principio generale di conservazione degli atti non viziati e di quello della divisibilità dell'atto legislativo, unanimemente ammessa al pari di quello amministrativo o negoziale (art. 1419 oc, e di quello giurisdizionale (art. 159 c.p.p. e implicitamente art. 189 c.p.p.). Nella fattispecie la modificazione legislativa non ha riguardato l'illiceità penale del fatto, ma solo la sanzione e solo per il trattamento sanzionatorio la norma modificativa è stata ritenuta incostituzionale. Pertanto, avendo la Consulta ritenuto irragionevole la trasformazione del trattamento sanzionatorio, rivive quello originario.
Né si pongono problemi di retroattività di una norma penale di minor favore, in primo luogo perché la condotta contestata è comunque successiva alla pubblicazione della decisione di illegittimità costituzionale della norma più favorevole; inoltre perché, come chiarito dalla Consulta nella decisione in esame, "il principio di legalità impedisce certamente alla Corte di configurare nuove norme penali; ma non le preclude decisioni ablative di norme che sottraggano determinati gruppi di soggetti o di condotte alla sfera applicativa di una norma comune o comunque più generale, accordando loro un trattamento più benevolo (sentenza n. 148 del 1983): e ciò a prescindere dall'istituto o dal mezzo tecnico tramite il quale tale trattamento si realizza (previsione di una scriminante, di una causa di non punibilità, di una causa di estinzione del reato o della pena, di una circostanza attenuante o di una figura autonoma di reato punita in modo più mite)". Ciò significa che l'eventuale effetto in malam partem rappresenta una conseguenza dell'automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di una incostituzionale disciplina derogatoria. "Tale riespansione - chiarisce la Corte - costituisce una reazione naturale dell'ordinamento - conseguente alla sua unitarietà - alla scomparsa della norma incostituzionale: reazione che si verificherebbe in ugual modo anche qualora la fattispecie derogatoria rimossa fosse più grave; nel qual caso a riespandersi sarebbe la norma penale generale meno grave, senza che in siffatto fenomeno possa ravvisarsi alcun intervento creativo o additivo della Corte in materia punitiva".
In sede di discussione il difensore dell'imputata ha sollecitato la Corte a sollevare la questione di illegittimità costituzionale della normativa regionale, a suo dire applicabile alla fattispecie, di tenore analogo a quello della normativa oggetto della già citata decisione della Consulta. Tale richiesta deve ritenersi inammissibile, attesa la sua assoluta genericità; non viene infatti individuata né la disposizione oggetto di censura, né la norma costituzionale evocata come parametro. La sentenza impugnata deve in conclusione essere annullata, con rinvio al Tribunale di Trapani, per nuovo esame.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio al per nuovo esame al Tribunale di Trapani.
Avv. Antonino Sugamele

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