Contingente italiano in Kosovo riceve segnalazione che in Italia una minorenne era ridotta e mantenuta in servitù anche attraverso violenza sessuale continuata.
REPUBBLICA ITALIANA
CORTE DI ASSISE DI PISA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
La Corte di Assise di Pisa composta dai Sigg.ri:
Dr. Luca Salutini, presidente estensore
Dr. Leonardo Degl'Innocenti, Giudice a latere
Sig. Mason Stefano, Giudice
Sig. Montagnani Giampiero, Giudice
Sig.ra Luschi Valeria, Giudice
Sig.ra Pacifico Anna, Giudice
Sig.ra Preta Anna Antonietta, Giudice
Sig. Valori Roberto, Giudice
ha pronunciato all'udienza del 15 marzo 2013 la seguente:
SENTENZA
nel processo n° 18046/10 R.G.N.R. e n° 1/12 C.A. a carico di:
M. E. nato a Pola (Croazia) il (omissis) residente a Pisa, località
Coltano, via dell'Idrovora 1 c/o campo nomadi, difeso di fiducia
dagli Avv. Luca Cianferoni del foro di Firenze e Nicola Giribaldi
del foro di Livorno
D. V. nata a Mitrovika (Repubblica del Kosovo) il (omissis) con
domicilio dichiarato in Pisa località Coltano, via dell'Idrovora 1
c/o campo nomadi, difesa di fiducia dagli Avv. Nicola Giribaldi del
foro di Livorno e Tiziana Mannocci del foro di Pisa
H. R. nato a Pola (Croazia) il (omissis) residente a Pisa, località
Coltano, via dell'Idrovora 1 c/o campo nomadi, difeso di fiducia
dagli Avv. Caterina Baroni del foro di Pisa e Luca Cianferoni del
foro di Firenze
D. I. nata a Vuctrin (Repubblica del Kosovo) il (omissis) (alias D.
I. nata a Vuctrin il 26.11.1977) con domicilio dichiarato a Pisa,
località Coltano, via dell'Idrovora 1 c/o campo nomadi, difesa di
fiducia dall'Avv. Giuseppe Cutellè del foro di Pisa
H. N. nata a Mitrovika (Repubblica del Kosovo) il (omissis) con
domicilio dichiarato a Pontedera, località Gello, Podere Cincinnati
n° 1 (alias Z. N., esatte generalità sconosciute), difesa di
fiducia dall'Avv. Luca Cianferoni del foro di Firenze e Marco Meoli
del foro di Pisa
H. A. nato a Mitrovika (Repubblica del Kosovo) il (omissis),
residente a Pontedera, località Gello, Podere Cincinnati n° 1,
difeso di fiducia dall'Avv. Luca Cianferoni del foro di Firenze e
Marco Meoli del foro di Pisa
IMPUTATI:
(vedi i fogli allegati)
Conclusioni delle parti:
il P.M. chiede la condanna di tutti gli imputati per i reati loro
rispettivamente ascritti, esclusa per tutti la concessione delle
attenuanti generiche, ritenuta la continuazione, alle seguenti
pene: M. E. 12 anni di reclusione, tutti gli altri imputati 15 anni
di reclusione ciascuno con interdizione in perpetuo dai pubblici
uffici e da qualunque incarico nelle scuole di ogni ordine e grado.
Avv. Meoli assoluzione dal reato sub A) perché il fatto non sussiste
o perché gli imputati non lo hanno commesso, dal capo D) per H. N.
perché il fatto non sussiste, dal capo E) per H. A. perché il fatto
non costituisce reato, dal capo F) per H. A. per non aver commesso
il fatto;
Avv. Cutellè per D. I. assoluzione dai reati sub A) e B) perché il
fatto non sussiste o per non averlo commesso, assoluzione con le
stesse formule anche per il reato di violenza sessuale;
Avv. Giribaldi assoluzione dei suoi assistiti per non aver commesso
il fatto;
Avv. Baroni per H. R.assoluzione da tutti i capi di imputazione
perché il fatto non sussiste o con altra formula di giustizia;
Avv. Cianferoni assoluzione dei suoi assistiti con formula di
giustizia, in ipotesi derubricarsi il capo A) nell'art. 12 D. Lvo
1998 n° 286, in ulteriore ipotesi per H. R.derubricazione in art.
594, attenuanti generiche, minimo della pena.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
A seguito del decreto di rinvio a giudizio emesso il 7 ottobre 2011 dal G.U.P. del Tribunale di Firenze i cittadini ex jugoslavi M. E., D. V., H. R., D. I., H. N. e H. A. venivano tratti a processo dinanzi alla Corte di Assise di Pisa all'udienza del 20 febbraio 2012 per rispondere:
A) tutti, del delitto di tratta di persone in danno della minorenne k. K. S.;
B) l'H. R.e la D. I. del delitto di riduzione e mantenimento in servitù della K.;
C) l'H. R.del delitto di violenza sessuale continuata in danno della K.;
D) la H. N., la D. I. e la D. V., in concorso col minore H. A., del delitto di violenza sessuale di gruppo in danno della K.;
E) l'H. A. del delitto di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina della minorenne k. K. L.;
F) il M. E., la D. V. e l'H. A. del delitto di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina della minore macedone R. M.
L'istruttoria dibattimentale - alla quale venivano acquisiti i verbali di incidente probatorio aventi ad oggetto le deposizioni rese dalla persona offesa K. S. in data 11 dicembre 2010 dinanzi al GIP di Firenze e in data 17 maggio 2011 dinanzi al Tribunale dei Minori di Firenze, nonché quella del teste C. S. in data 4 febbraio 2011 al GIP di Firenze - si svolgeva nell'arco di nove udienze e segnatamente in quelle del:
- 13 marzo 2012 (deposizione del dirigente della Squadra Mobile di Pisa T. G.),
- 24 aprile 2012 (testi Isp. P. L., Isp. R. S., Sovr. N. F., S. R., P. R., B. R.),
- 8 maggio 2012 (interamente dedicata alla visione dei filmati riproducenti le cerimonie di fidanzamento e di matrimonio tra la K. S. e l'H. A.),
- 17 luglio 2012 (testi Dal C. M., A. M., Sovr. D. L., Sost. Comm. O. S.),
- 18 settembre 2012 (deposizione della persona offesa R. M.),
- 28 settembre 2012 (esame degli imputati),
- 12 ottobre 2012 (deposizioni dei testi della difesa P. M., G. M., G. G., R. M., H. F., A. A., C. S.),
- 23 novembre 2012 (testi della difesa Z. M., M. D., Dr. L. F., Don R. M. A., M. I., Z. M., H. S.),
- 18 dicembre 2012 (teste ex art. 507 c.p.p. V. Quest. S. M., teste a difesa A. B., consulenti tecnici della difesa Prof. S. A. e Dr.ssa M. G.).
La discussione occupava le udienze del 18 gennaio 2013 e del 15 marzo 2013.
In quest'ultima udienza la Corte, dopo essersi ritirata in camera di consiglio, dava lettura del pedissequo dispositivo.
Alla luce degli elementi di giudizio acquisiti con l'istruttoria dibattimentale la Corte di Assise ritiene che le imputazioni di riduzione e mantenimento in servitù di cui al capo B), di violenza sessuale di cui al capo C), di violenza sessuale di gruppo di cui al capo D) e di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina di cui al capo E) debbano essere riconosciute come infondate.
Sussistono invece i delitti di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina delle minori K. S. - così dovendo essere diversamente qualificato il delitto di tratta di persone contestato al capo A) - e R. M. (capo F).
Procediamo innanzitutto ad una sintetica ricostruzione dei fatti che hanno dato vita al presente giudizio.
Come hanno riferito in dibattimento gli appartenenti alla Polizia di Stato Dr. T. G. e Isp. P. L., il 17 agosto 2010 perveniva alla sala operativa della Questura di Pisa la telefonata di un cittadino kosovaro, tale K. C., il quale, dicendo di chiamare dai Balcani per conto dei genitori di una ragazza quindicenne i quali non erano in grado di esprimersi in italiano, denunciava che costei - di nome K. S. - sarebbe stata rapita da alcuni rom insediati in un campo nomadi sito a circa 12 km. da Pisa e sarebbe stata tenuta in stato di segregazione all'interno del campo.
Il giorno successivo la Questura di Pisa veniva nuovamente contattata, stavolta da un sottufficiale dei Carabinieri in servizio presso il contingente militare italiano in Kosovo, il M.llo R. A., il quale riferiva che i genitori della ragazza si erano rivolti anche a lui insistendo perché la stessa venisse liberata e dichiarando che a tenerla segregata erano i membri della famiglia rom degli H. (quest'ultima - osservava il T. - ben nota alla Polizia per i numerosi precedenti penali dei suoi appartenenti).
Vale la pena di chiarire subito, per orientamento di chi legge, che gli odierni imputati - a dispetto della diversità dei loro cognomi - appartengono tutti allo stesso nucleo familiare degli H..
M. E. (coniugato con D. V.) è infatti fratello di H. A. (coniugato con H. N.). Tra i numerosi figli di quest'ultima coppia - alcuni con cognome H. e altri con cognome Z. - vi è l'attuale imputato H. R.(coniugato con D. I.). A loro volta, costoro sono i genitori del minore H. A. (omonimo del nonno paterno) che è stato, come vedremo tra breve, lo sposo della persona offesa K. S.
In altre parole, sono protagoniste dell'odierna vicenda processuale tre generazioni della famiglia H.: i nonni H. A. e H. N., gli zii M. E. e D. V., i genitori H. R. e D. I. e il figlio minorenne di questi ultimi H. A. (giudicato separatamente dal Tribunale dei minori di Firenze).
Chiusa questa parentesi, e tornando ai fatti riferiti dal T. e dal P., si deve aggiungere che facendo seguito alla segnalazione telefonica sopra accennata il M.llo R. A. faceva pervenire via mail alla Questura di Pisa alcune foto della ragazza che sarebbe stata rapita, il suo certificato di nascita e una copia della denuncia che i genitori di costei avevano presentato alla Polizia di Ferizaj, loro città di origine nel Kosovo.
Quest'ultima denuncia (della quale, stante l'evidente reticenza del T. a riferirne l'esatto contenuto, la Corte ordinava la lettura integrale: cfr. pagg. 113-115 del verbale di fonotrascrizione) non confermava in realtà l'originaria versione del rapimento, ma si limitava ad esporre che la K. S. aveva rivelato per telefono ai suoi genitori di essere maltrattata dal giovane sposo A. e dal suocero H. R. e di essere tenuta segregata da costoro in una baracca del campo nomadi.
Ricevuta la notitia criminis, il 2 settembre 2010 - approfittando di un servizio di ordine pubblico predisposto in occasione della consegna di un gruppo di villette di edilizia popolare ad alcune famiglie nomadi stanziate nel campo di Coltano - la Polizia accedeva sul posto e accertava che la ragazza segnalata era effettivamente presente in loco, sebbene non ufficialmente censita tra la popolazione residente.
In particolare, essa veniva vista dalla Sovr. D. L. nell'atto di spazzare per terra, tenere in braccio un bambino, servire il caffè con una specie di inchino ad uno dei componenti della famiglia H..
La ragazza appariva alla D. come "pallida, smunta, stanca e spaventata".
L'8 settembre 2010 la Questura decideva di prelevare la K. dal campo nomadi e accompagnarla nei suoi uffici.
Il racconto della K. S.
Le dichiarazioni rese dalla K. nella prima fase delle indagini non sono ovviamente transitate negli atti del dibattimento.
Per dare continuità logica alla presente ricostruzione conviene quindi fare riferimento al racconto fatto da costei in occasione della sua prima audizione in incidente probatorio.
Esaminata dal GIP di Firenze l' 11 novembre 2010 la ragazza dichiarava che nei primi mesi dell'anno, mentre ancora viveva coi suoi familiari a Ferizaj, una sua zia acquistata, certa B. (moglie di suo zio paterno N.), la quale aveva una sorella - l'odierna imputata H. N. - sposata in Italia con H. A., le aveva accennato alla possibilità di sposarsi con un suo coetaneo anch'esso residente in Italia, A. (detto "T. "), nipote della suddetta H. N..
Incuriosita, si era messa in contatto via Skype con questo giovane, che le era piaciuto, tanto che d'intesa coi suoi genitori aveva dato il suo consenso a fidanzarsi con lui.
La cerimonia di fidanzamento si era svolta nel mese di marzo a Ferizaj, dove si erano appositamente recati i suoi futuri suoceri H. R.(detto "R. ") e D. I.
Nell'occasione costoro le avevano portato l'anello di fidanzamento, alcuni vestiti, e avevano consegnato 1.000 euro ai suoi genitori.
E' utile ricordare che già in ordine a questa prima cerimonia è stata reperita un'ampia documentazione filmica, della quale questa Corte si è pazientemente sorbita la visione all'udienza dell'8 maggio 2012.
Trattasi di una serie di videoriprese eseguite all'interno di un imprecisato ristorante balcanico, con ospiti più o meno pomposamente abbigliati, con un asfissiante sottofondo musicale, che culminano col gesto rituale dell'offerta di una somma di denaro dal padre dello sposo al padre della sposa.
Ma riprendiamo il racconto della K.. Nel mese di maggio i parenti dello sposo erano tornati in Kosovo per condurla in Italia. Stavolta si erano recati a Ferizaj la futura suocera D. I. e due parenti di questa, gli odierni imputati M. E. e la di lui moglie D. V.
La I. le aveva portato l'abito da sposa ed era poi subito ripartita in aereo per preparare la sua accoglienza in Italia.
Il M. e la V. si erano invece trattenuti qualche giorno di più per partecipare alla festa di matrimonio - che aveva avuto il suo epilogo nell'esibizione della sposa per le strade di Ferizaj a bordo di una lussuosa limousine a noleggio - e poi per accompagnarla in Italia, cosa che essi avevano fatto servendosi di un'autovettura Mercedes di colore nero.
Il viaggio di trasferimento aveva richiesto tre giorni. Fino a Belgrado la teste era stata accompagnata anche da suo zio paterno N. e da due sue cugine.
Successivamente, nella capitale serba, il M. e la V. le avevano procurato un falso documento di identità (che essa non aveva nemmeno visto) e le avevano cambiato il colore dei capelli da biondo a castano e - a mezzo di lenti a contatto - anche il colore degli occhi onde renderla somigliante alla foto apposta sul documento di comodo.
I fornitori del falso documento erano stati compensati dal M. con una somma di 6.000 euro che questi aveva prelevato da certa Frozen Bank.
La V. le aveva poi impartito istruzioni su come comportarsi in occasione dell'attraversamento delle frontiere, e le aveva somministrato una bevanda (nella quale era stata disciolta un'imprecisata sostanza della quale era imbevuto un pezzetto di stoffa di colore giallo: qui il racconto della teste era per verità piuttosto confuso) che aveva avuto come effetto quello di farla dormire durante il passaggio ai valichi confinari.
Il 20 maggio essa era giunta finalmente in Italia e aveva per la prima volta conosciuto di persona il suo sposo A.
Dopo la festa nuziale di arrivo al campo (poi seguita - come risulta dalla vasta documentazione filmica e fotografica acquisita agli atti - da numerosi altri festeggiamenti e cerimonie protrattisi per una decina di giorni) c'era stata la prima notte di nozze e con essa il cosiddetto "rito della verginità", quest'ultimo consistente nella pubblica ostensione del lenzuolo macchiato di sangue a riprova dell'illibatezza della sposa.
Richiesta a questo punto dal G.I.P. se avesse liberamente acconsentito o no alla consumazione del matrimonio, la K. rispondeva testualmente così: "non saprei dire, volevo e non volevo, però so che non mi è piaciuto" (pag. 45 del verbale di fonotrascrizione).
Contestatele dal G.I.P. le diverse dichiarazioni rese alla Polizia (nelle quali - sembra di capire - aveva parlato di una violenza consumata contro la sua volontà) la ragazza dichiarava che in effetti, alla richiesta dello sposo di praticare il rapporto, in un primo momento essa aveva risposto di no.
A tal punto il marito aveva fatto intervenire la sua mamma I., la zia V. e la nonna N. le quali l'avevano sollecitata a sottomettersi al rito anche in considerazione di tutte le persone che ne attendevano l'esito ("mi hanno detto che devi fare questa cosa perché gli altri stanno aspettando fuori" - pag. 46).
Ad ulteriore contestazione, aggiungeva che la V., per vincere la sua resistenza, le aveva ricordato di avere picchiato la sua nuora allorquando anch'essa aveva cercato di sottrarsi al primo amplesso maritale (pag. 67).
Il matrimonio era stato così finalmente consumato e l'esito positivo del rito della verginità era stato festeggiato fino a notte fonda con canti e balli ai quali anch'essa (la S.) aveva partecipato.
Il giorno successivo era iniziata la sua vita quotidiana al campo nomadi.
Le prime due settimane - dichiarava la K. - essa si era trovata bene ("per due settimane sì, bene.. solo due settimane sono stata bene.." - pag. 49).
Poi la sua vita era diventata progressivamente sempre più intollerabile.
La teste lamentava di essere stata costretta a sbrigare lavori domestici estenuanti, dalle 6 della mattina alle 3 della notte, sempre esposta alle critiche di sua suocera che la considerava una sfaccendata e le inibiva addirittura l'uso della televisione.
Mentre - quando abitava coi suoi genitori in Kosovo - essa era abituata a non far niente in casa, a non andare nemmeno a scuola, e a starsene tutto il giorno inoperosa a chattare su internet ("non mi piace la scuola.. stavo tutto il giorno a internet" - pag. 116 - 177).
Non poteva telefonare ai suoi genitori, o doveva farlo di nascosto.
Oltre a ciò, il suo sposo la maltrattava continuamente per costringerla ad avere rapporti sessuali, in ciò spalleggiato da suo padre e sua madre.
Venendo in particolare al comportamento tenuto nei suoi confronti dal suocero H. R., la ragazza affermava che costui, quando litigavano, le diceva che anche lei era sua moglie e che glielo doveva prendere in bocca.
Ammetteva tuttavia che di fatto il suocero non l'aveva mai toccata (pag. 52).
Contraddittoriamente, a rilettura delle diverse dichiarazioni rese alla polizia, confermava invece che una sera, presenti la I. e un fratello dell'H. R., il suocero le si era gettato addosso "come un animale" gridandole "prendimelo in bocca sennò ti sotterro" (pag. 69).
Era dovuto intervenire il fratello dell'H. R.per allontanarlo da lei, ed anzi i due avevano finito per azzuffarsi tra loro.
La K. smentiva invece completamente la fondatezza dell'ulteriore episodio di molestie sessuali riferito a S.I.T. (allorquando aveva affermato che il suocero in una circostanza le aveva esibito il suo organo sessuale), riconoscendo che si era trattato di un fatto solo accidentale (una mattina, entrando nella camera dei suoceri, essa aveva visto il sesso dell'H. R.mentre questi stava pacificamente dormendo nel suo letto - pag. 70).
(Delle contraddizioni esistenti tra l'incidente probatorio ora appena sintetizzato e quello che la K. sosteneva cinque mesi più tardi davanti al Tribunale dei Minori di Firenze si dirà più avanti nella parte analitica della presente esposizione).
Sulla scorta delle dichiarazioni della persona offesa il G.I.P. del Tribunale di Firenze emetteva un provvedimento di custodia in carcere a carico di tutti gli attuali imputati con la sola eccezione del patriarca H. A.
Il provvedimento restrittivo veniva eseguito il 26 ottobre 2010.
Le perquisizioni domiciliari correlate all'esecuzione della misura portavano all'acquisizione di rilevanti elementi istruttori (si vedano in argomento le deposizioni T., A., N., D. e O.).
In particolare:
nella villetta di edilizia popolare data in concessione alla famiglia dell'H. R.veniva rinvenuto, nascosto nel reparto congelatore del frigorifero, un quantitativo di oltre 4 chili d'oro;
nella stessa abitazione venivano altresì ritrovati:
- filmati e foto delle cerimonie di fidanzamento e di matrimonio della K.;
- i biglietti aerei del viaggio della D. I. da Villafranca a Pristina e ritorno svoltosi il 11-16 maggio 2010;
- la copia di una dichiarazione indirizzata da certo S. R. all'Ambasciata italiana nel Kosovo nella quale questi, spacciandosi per zio delle sorelle minorenni K. S. e K. Laura, chiedeva il rilascio di un visto turistico a loro nome precisando che esse sarebbero state accompagnate in Italia da D. V. (anch'essa falsamente qualificata come loro zia).
La genesi di questo documento è stata chiarita dalla deposizione del S. R. all'udienza del 24.4.2012.
In questa sede costui riconosceva candidamente di averlo confezionato su richiesta dei nonni H. A. e H. N. i quali erano disperati perché non sapevano come far entrare in Italia le sorelle K. - che il teste ammetteva di nemmeno conoscere ("è scritto che sono nipoti miei, per fare una finta..") - che erano state promesse in spose a due loro nipoti.
Nella baracca dei coniugi M. E. e D. V. veniva invece trovata una minorenne macedone, M. R., non censita tra la popolazione residente nel campo nomadi e priva di permesso di soggiorno, la quale risultava essere stata presa in sposa dal loro figliolo A.
Venivano altresì reperiti nella baracca dei M. il passaporto macedone della M. e una dichiarazione redatta il 18 marzo 2010 davanti ad un notaio di Skopje con la quale la madre di costei, R. R., ne autorizzava l'espatrio dalla Macedonia affidandola al M. E., falsamente qualificato come suo zio.
Il racconto di R. M.
La vicenda personale della R. M., quale ricostruita in dibattimento dalla diretta interessata, aveva, soprattutto nella sua parte iniziale, forti analogie con quella della K. S.
Sentita come teste all'udienza del 18 settembre 2012 la R. - ancora minorenne all'atto della deposizione in quanto nata il 15 ottobre 1994, e in quel momento affidata ad una struttura di accoglienza ad Arezzo - dichiarava che ai primi dell'anno 2010 aveva conosciuto via internet, su presentazione di una sua cugina, Lisa, andata in sposa ad un figlio dei coniugi M., un altro giovane membro di questa famiglia, il suo attuale sposo M. A..
Comunicando con questi tramite computer se ne era innamorata ed aveva deciso di sposarlo.
I genitori di A., M. E. e D. V., si erano recati in Macedonia e lì, d'accordo coi genitori di lei, avevano concordato il fidanzamento e il matrimonio.
Per consentirle di arrivare in Italia i suoi (della teste) genitori le avevano fatto fare un regolare passaporto e l'avevano munita della già citata dichiarazione di assenso all'espatrio, seppure falsamente qualificando come zii coloro che in realtà erano solo i suoi futuri suoceri.
A marzo essa era stata condotta in Italia in auto dal M. e dalla V. Ai valichi di confine i suoi documenti erano stati controllati ed era stata fatta transitare senza problemi.
Giunta al campo nomadi di Coltano si era finalmente congiunta col suo sposo, del quale era stata e tutt'ora dichiarava di essere innamorata.
La teste affermava di essersi trovata bene a Coltano, di essere stata sempre ben trattata dai suoi suoceri e di non essersi mai pentita della sua scelta di sposare A., tanto che in una occasione, allorquando la polizia l'aveva affidata alla struttura di accoglienza di Arezzo, essa ne era fuggita per ricongiungersi al suo sposo minorenne.
Incidentalmente la M. riferiva poi di avere conosciuto al campo nomadi anche la K. S. e ne dipingeva l'esistenza quotidiana in termini di assoluta pacificità, affermando di non averla mai vista svolgere lavori pesanti e di avere invece spesso ascoltato musica con lei e fatto il bagno in una piscinetta installata tra le baracche del campo.
Ai primi di novembre 2010 - riferiva ancora nella sua deposizione il dirigente della Squadra Mobile T. - si erano diffuse sui quotidiani locali notizie di stampa secondo cui i genitori della K. S. avrebbero a breve ritrattato la denuncia di rapimento della loro figliola (perché questo - sia detto a censura di tutte le parti interessate - è stato un procedimento che nella fase delle indagini preliminari si è combattuto più sui mass media che sul terreno del riserbo istruttorio).
Nella convinzione che fosse in atto un tentativo di inquinamento probatorio venivano messe sotto controllo a partire dal 3 novembre 2010 le utenze telefoniche di numerosi soggetti a vario titolo coinvolti nella vicenda processuale.
In particolare venivano sottoposte ad intercettazione le utenze del M. E. (RIT 3779/10), dell'H. A. (RIT 3780/10 e 3781/10), dei genitori della K. S. (RIT 3775/10 e 4401/10), di certa Z. S. (figlia degli H.), incaricata, come tra breve vedremo, di recarsi in Kosovo per intessere trattative coi K. (RIT 4066/10), e infine del teste C. S. (RIT 3776/10 e 4402/10).
Le intercettazioni telefoniche
Con riserva di citare, a tempo debito, le parti più significative delle conversazioni intercettate, e limitandoci in questa fase solo ad un sommario resoconto, si deve rilevare che l'attività di ascolto gettava utili spiragli di luce su numerosi aspetti rilevanti ai fini del decidere.
Spendiamo innanzitutto qualche parola sul supposto tentativo di inquinamento probatorio.
Va brevemente premesso che con un volo del 6 novembre 2010 da Villafranca a Pristina una figlia del patriarca H. A. - Z. S. - raggiungeva la città di Ferizaj nel Kosovo e prendeva contatti coi genitori della K. S., F. e A., onde indurli a ritrattare la denuncia di rapimento della loro figliola.
Le trattative, svoltesi alla presenza di un imprecisato avvocato del posto, ebbero come esito il rilascio di una dichiarazione in lingua kosovara che fu poi tradotta in italiano da certo S. S., interprete dell'Ambasciata italiana in Kosovo (se ne veda la copia prodotta in atti dal P.M.), il cui contenuto fu anticipato dallo stesso S. via fax alla Questura di Pisa, e il cui testo originale fu trasportato in Italia dalla Z. S. col volo di rientro del 9 novembre 2010.
Nella dichiarazione ora accennata i K. ristabilivano, né più né meno, la verità dei fatti: riconoscevano che la loro figliola non era mai stata rapita, come da essi falsamente dichiarato all'inizio, ma che il suo fidanzamento e il suo matrimonio erano stati liberamente consentiti sia da lei che da loro genitori ("nonostante il fatto che S. era minorenne, questo matrimonio l'abbiamo fatto con il consenso e con la piena volontà di S."), e spiegavano ancora che il rito della verginità celebratosi al campo di Coltano era una cerimonia tipica del loro costume nazionale, della quale sia i parenti dello sposo, sia essi stessi dal Kosovo, avevano atteso ansiosamente l'esito "per la buona notizia della loro figliola (il fatto della verginità)".
Come si vede, dunque, non di un vero inquinamento probatorio si trattò, ma solo di un ingenuo tentativo degli H. di ristabilire la verità dei fatti, nell'errata convinzione che le imputazioni che avevano condotto in carcere buona parte della loro famiglia si reggessero (come in realtà non si reggevano) sull'originaria denuncia di rapimento della minore.
Le intercettazioni permettevano altresì di chiarire che - nonostante i problemi giudiziari creati dalla S. - proseguivano le trattative per far arrivare in Italia anche la sorella di costei, Laura, promessa in sposa ad un altro nipote del patriarca H. A., tale M. E. (detto "G. ").
In alcune delle conversazioni monitorate, infatti, l'H. invitava L. ad approfittare della presenza di sua figlia S. in Kosovo per venire in Italia insieme a lei (Tel. 3, 6, 19 della RIT 3775/10).
Ciò portava all'emissione di un provvedimento di custodia cautelare in carcere anche a carico dell'H. A.
Dopo il rientro in Italia della Z. S., tuttavia, i rapporti tra i K. e gli H. si guastavano nuovamente.
Entrambi i nuclei familiari si trovavano infatti disillusi sui risultati che avevano progettato di ottenere col loro precario accordo conciliativo: i K. perché si attendevano l'immediato rientro della loro figliola in Kosovo, che non si era verificato, e gli H. perché confidavano in una sollecita scarcerazione dei loro familiari detenuti, anche questa totalmente mancata.
Tutto ciò portava a nuovi dissapori tra i due clan, e in conseguenza di questi, nel gennaio 2011, alla rottura del fidanzamento tra l'E. e la L. (Tel. 30 della RIT 4401/10), che veniva subito dopo promessa in sposa dai K. ad un altro pretendente, tale Ergin (Tel. 31).
I colloqui intercettati tra la S. - in quel momento affidata ad una struttura protetta a Lucca - e i genitori di costei in Kosovo facevano emergere altri aspetti processualmente rilevanti.
Risultava in primo luogo che la ragazza, consapevole di avere dichiarato il falso nelle prime versioni rese alla Polizia, allorquando si era presentata come vittima di un rapimento, si mostrava preoccupata che la sua menzogna potesse venire scoperta in occasione dell'incidente probatorio ("io ho paura, ho paura, perché se dico che sono venuta con piacere loro mi creano dei problemi pure a me (..) io ho detto che mi hanno portato via di casa (..) io ho detto che mi hanno rubata, ho detto così (..) mi diranno: "come mai hai mentito?"), anche in considerazione del reperimento di filmati del suo fidanzamento e del matrimonio che smentivano il suo racconto iniziale ("se vedono le cassette che sono uscita di casa.. che devo fare io?" - Tel. 38 del 12.11.2010 della RIT 3775).
In risposta a questi timori, il padre e la madre la istruivano a dichiarare che, essendo stata fatta espatriare senza documenti validi, era come se fosse stata rapita (Tel. 62 del 23.11.2010: A. "no, no, devi dire che siccome sapevi che eri senza documenti era la stessa cosa come essere stata rubata"; Tel. 68 del 7.12.2010, F.: "figlia mia, non è la faccenda che ti hanno rubata, ma che ti hanno tradita (..) devi dire che ci hanno tradito, che eri senza documenti..").
Paradossalmente, dunque, le intercettazioni rivelavano che se un tentativo di inquinamento probatorio era in corso, questo era non tanto ad opera degli indagati, quanto dei genitori della persona offesa.
Persone - queste ultime - del resto non aliene dall'uso spregiudicato e strumentale delle denunce penali, come si ricavava ad esempio (oltre che dalla calunniosa accusa iniziale di rapimento) dalle Tel. 23 e 33 della RIT 4401 nelle quali il K. F., indispettito per non aver ancora ottenuto il rientro di sua figlia in Kosovo (di cui dava infondatamente la colpa agli H.), progettava di togliere efficacia alla dichiarazione resa a novembre presentandola falsamente come il frutto di una estorsione perpetrata a suo danno da un gruppo di albanesi intervenuti a dare man forte alla Z. S. (Tel. 23 della RIT 4401: "sai che dirò? (..) dirò che S. è venuta con degli albanesi e mi ha costretto a scrivere questa dichiarazione.. te lo giuro su Allah!"; e ancora, Tel. 33: "quando te lo chiedono, tu devi dire così, per dispetto.. "sono andati in casa con degli albanesi (..) e ha dovuto fare la dichiarazione che liberassero N." devi dire così.. e fregatene!").
Altro rilevante aspetto illuminato dall'attività di monitoraggio telefonico era rappresentato dall'individuazione di uno dei motivi - se non del motivo principale - per il quale era naufragato il matrimonio tra la S. e l'H. A.
Dalle conversazioni intercorse tra la S. e sua sorella Laura era dato infatti di apprendere che la prima era stata sentimentalmente legata, prima di partire per l'Italia, con un ragazzo kosovaro a nome R., e ancora ne era innamorata, tanto da incaricare la sorella di riferire a costui che lo amava ancora e che lo avrebbe sposato appena rientrata in patria.
Si veda a questo proposito la Tel. 71 dell'11.12.2010 della RIT 3775:
L.: "sai che ha detto R.? "appena arriva S. sarà solo mia!"
S.: "giuralo sul Corano!"
L.: "R. mi ha detto: "mi sono pentito e appena arriverà sarà mia, la prenderò subito, mi fidanzerò e mi sposerò con lei!"
S.: "io lo amo ancora.. diglielo, diglielo quando lo senti! Digli: "anche se prendo cento uomini il tuo posto non lo prenderà nessuno!" (..) Prendo lui e non mi sposo più con nessun altro!".
(Nello stesso senso può vedersi anche la Tel. 18 della RIT 4401).
Per concludere questa sommaria rassegna delle intercettazioni merita infine di essere menzionata la lunga ed aspra conversazione telefonica che il 12 dicembre 2010 - vale a dire, all'indomani dell'incidente probatorio svoltosi davanti al GIP di Firenze - intercorreva tra due dei principali protagonisti della presente vicenda: D. I. da una parte (nel frattempo messa agli arresti domiciliari), e K. F. dall'altra (Tel. 73 della RIT 3775/10).
Questa Corte ritiene di dover annettere particolare rilievo a questa intercettazione.
Trattasi infatti di un colloquio tra due persone entrambe a conoscenza della verità delle cose, ognuna in grado di controllare la veridicità delle affermazioni dell'altra, e come tale altamente significativo in ordine alla fondatezza degli addebiti che i due gruppi familiari contrapposti ritenevano di potersi reciprocamente rivolgere.
Ebbene, se si legge attentamente il verbale di trascrizione di questa telefonata, è facile constatare che l'unica recriminazione che il K. F. rivolgeva alla I. (che su questo non replicava) era quella di aver fatto espatriare sua figlia senza documenti in regola.
Per contro, la I. rinfacciava al K., senza trovare smentita, una lunga serie di torti fatti da lui e da sua figlia ai loro danni, menzionando in particolare:
1) che avevano acconsentito all'unione con suo figlio A. pur sapendo che S. era innamorata di un altro ("voi sapevate che vostra figlia aveva qualche altro desiderio, allora perché, fratello mio, mi avete aperto la porta e me l'avete data?");
2) che S. li aveva calunniati affermando che l'avevano rapita ("come fa a parlare tua figlia e dire che noi l'abbiamo rubata e l'abbiamo presa per forza e l'abbiamo portata qui per forza? (..) non te l'ho rubata, io di lei non dico nulla, solo che deve dire la verità davanti a Dio su come è andata..", al che l'interlocutore ammetteva "no, no, ascolta I., sorella mia, io l'ho mandato al processo.. il C.D. e tutto.. là si vede che non è stata rubata, il processo ha verificato che questa ragazza non è rubata, capito?");
3) che essa aveva anche calunniato suo marito R., accusandolo di averla sessualmente molestata, mentre la verità era che lui (R.) preferiva S. alla sua stessa figliola ("è una vergogna per quel pane che abbiamo mangiato insieme, che tua figlia faccia queste cose e faccia questo a mio marito, è una vergogna per voi!.. sta mentendo troppo, come fa a non vergognarsi per le bugie che dice?.. io non voglio nulla da voi, solo che tua figlia deve dire la verità, che mio marito non ha fatto nulla, lei ha detto che mio marito ha voluto violentarla!");
4) che false erano anche le accuse di S. di essere stata trattata come una schiava, la verità essendo invece che costei era una ragazza trasandata, svogliata, che non aveva mai fatto nulla per contribuire al mènage familiare ("tua figlia non lavava mai nemmeno il suo viso.. non puliva e non lavava mai i piedi, stava tutto il giorno a letto e alla televisione insieme a mia figlia (..) non ha mai cucinato.. ho sempre lavato io le sue mutande piene di sangue.. io gliele lavavo!");
4) infine, che era stata la stessa mamma di S. a sollecitare lo svolgimento del rito della verginità, adducendo che di lì a poco a sua figlia sarebbero venute le mestruazioni, il che - sembra di capire - avrebbe falsato la prova della deflorazione ("tua moglie mi ha detto: "porta mia figlia a dormire subito perché altrimenti le vengono le mestruazioni!").
Osserva la Corte di Assise che il fatto che il padre della persona offesa abbia subito, senza nulla replicare, questo ben motivato torrente di recriminazioni costituisce uno dei criteri alla luce dei quali dovrà essere vagliata la fondatezza dell'impianto accusatorio.
Resta da dire, prima di passare ad una sintetica ricostruzione delle acquisizioni testimoniali, dell'incidente probatorio concernente il teste C. S.
Sentito il 4 febbraio 2011 dal GIP di Firenze il C. premetteva di essere il responsabile USL del campo nomadi di Coltano.
Dichiarava che il 20 maggio 2010, mentre si trovava al campo, aveva sentito gli echi di un festeggiamento e, avvicinatosi, aveva visto una giovane ragazza vestita da sposa, alla quale aveva scattato anche qualche foto, che gli era stata presentata come la moglie dell'H. A.
Era presente anche il M. E. che gli aveva confidato che era stato lui ad accompagnarla in Italia.
Aveva poi rivisto la ragazza anche in altre occasioni, intenta a spazzare lo spiazzo antistante la baracca dove viveva.
Dopo che la Polizia l'aveva portata via, ebbe modo di parlare dell'accaduto con gli H. i quali, per dimostrargli la loro innocenza, gli fecero visionare alcuni video che riprendevano la cerimonia del suo fidanzamento in Kosovo, aggiungendo che ai genitori della ragazza erano stati dati 20.000 euro.
Alla sua replica che se la Polizia l'aveva portata via, una ragione doveva pur esserci, l'H. R.gli aveva risposto che "la ragazza era stata picchiata perché non voleva scopare con il figlio".
Indignato di questa ammissione, l'aveva subito riferita alla Questura.
Da allora gli H. l'avevano individuato come uno dei principali responsabili dei loro guai giudiziari e lo avevano più volte minacciato di morte.
Richiestogli dai difensori quale genere di vita la K. conducesse al campo nomadi, rispondeva che essa faceva le stesse pulizie che facevano tutte le altre donne dell'insediamento, che non l'aveva mai vista svolgere lavori pesanti, non l'aveva mai vista pulire baracche altrui, insomma che "non faceva niente di particolare", aggiungendo che se avesse avuto sentore di qualche forma di schiavitù l'avrebbe sicuramente denunciata alla Polizia.
Le altre deposizioni testimoniali
Molto brevemente, e prescindendo dalle deposizioni prive di concreto rilievo probatorio, basterà ricordare che:
P. R. e B. R. (assistenti sociali) riferivano di avere contattato il minore H. A. durante la sua restrizione in carcere e di avere appreso da costui che la sua sposa gli era stata procurata dai nonni paterni, che era stata pagata 20.000 euro, che era stata portata in Italia da suo zio M. E. e da sua zia D. V., che era ancora innamorato di lei e che l'unica colpa che si riconosceva era quella di averle dato uno schiaffo perché si era rifiutata di pulirgli le scarpe.
P. M. (titolare di un negozio di parrucchiera a Ponsacco), G. M. e G. G. (contitolari del bar-alimentari "La bottega di Coltano"), R. M. (titolare di un bar in località Biscottino), M. D. (titolare di una gelateria-yogurteria a Stagno) dichiaravano di avere visto più volte nei rispettivi esercizi la K. S. la quale era loro apparsa come "pulita, elegante, bella, tranquilla, sorridente" (teste P.), "biondina, giovane, carina, sorridente" (teste G.), intenta a farsi i capelli, a prendere un gelato o un panino, a rientrare al campo dopo una giornata trascorsa al mare.
Z. M., M. I., Z. M., H. S., A. B. (tutti parenti o amici degli attuali imputati) dichiaravano che S. faceva una vita del tutto normale, usciva con loro a prendere un gelato, andava in pizzeria, era stata alla luminaria di San Ranieri, all'Aqua Park di Cecina, alle giostre all'interno della base americana di Camp Darby, al mare, aveva trascorso lunghi periodi nella casa di campagna dei nonni H. a Gello di Pontedera, si truccava, ascoltava musica, faceva piccoli lavori domestici come lavare i piatti, gettare via la spazzatura, cose che i testi vedevano fare anche a tutte le altre donne del campo.
Don A. R. M., missionario saveriano residente all'interno del campo nomadi di Coltano, affermava di essersi spesso recato a far visita ai membri della famiglia H. e in questo contesto di avere più volte incontrato la K. S.
Affermava che costei frequentava le altre ragazze del campo, ascoltava musica, ballava, usciva in motorino col suo giovane sposo A.
Negava di averle mai visto svolgere lavori umili o pesanti, ma solo normali faccende domestiche ("no, sono lavori che tutte le ragazze del campo, anche all'età di 10 anni, fanno, come quello di preparare il caffè, come quello di pulire la stanza, come quello di dare un occhio ai bambini piccoli..").
Z. M. (fratello dell'H. R.) ricostruiva in termini tanto fantasiosi quanto privi di aggancio con le altre risultanze processuali la presunta aggressione sessuale che una sera il fratello avrebbe posto in essere ai danni della S., affermando che si era solo trattato di una discussione tra lui (il teste) e la ragazza, nel corso della quale lui (il teste) l'aveva strattonata per un braccio, al che il R. sarebbe intervenuto per dirgli che non doveva permettersi di toccarla.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Queste essendo essenzialmente le risultanze processuali, passiamo ora all'inquadramento penalistico dei fatti.
Questa Corte ritiene di dovere innanzitutto affrontare la questione del grado di attendibilità che deve essere attribuito alle deposizioni della K. S., sul cui racconto si basa per buona parte - se non per intero - l'impianto accusatorio.
Valore della deposizione di K. S.
Costituisce consolidato principio giurisprudenziale che le dichiarazioni della persona offesa possono costituire, anche da sole, base probatoria sufficiente per l'affermazione della penale responsabilità degli imputati, purché le stesse - sottoposte a doveroso vaglio critico - superino indenni il controllo della loro credibilità intrinseca ed estrinseca.
Insegna infatti la Suprema Corte (Cass. 27.4.2006 n° 34110) che "In tema di valutazione della testimonianza della persona offesa dal reato, le dichiarazioni della stessa vanno vagliate con opportuna cautela, compiendone un esame penetrante e rigoroso, atteso che tale testimonianza può essere assunta da sola quale fonte di prova unicamente se sottoposta ad un riscontro di credibilità oggettiva e soggettiva, senza peraltro che ciò implichi la necessità di riscontri esterni".
Il controllo dell'attendibilità dovrà essere ancora più penetrante quando la persona offesa risulti essere portatrice di un potenziale interesse a distorcere la rappresentazione dei fatti, quale può essere prodotto dalle sue aspettative risarcitorie, o più in generale da qualsiasi altra riconoscibile motivazione personale emergente dagli atti.
Ha statuito ad esempio Cass. 18.7.2012 n° 40849: "In tema di valutazione della prova, le dichiarazioni della persona offesa, specie se costituitasi parte civile, non sono assistite da alcuna presunzione di credibilità, con la conseguenza che il giudice deve procedere anche d'ufficio ad una rigorosa e penetrante verifica di attendibilità intrinseca ed estrinseca del racconto accusatorio, che deve essere confrontato con tutti gli altri elementi processuali, non potendo gravare sull'imputato l'onere di provare la falsità della deposizione".
Ancora più rigoroso dovrà infine essere il metro di giudizio quando risulti che il teste ha mentito su taluni fatti o circostanze della vicenda processuale, dato che è lecito inferire da ciò un fondato motivo di sospetto in ordine alla veridicità delle ulteriori propalazioni della stessa fonte.
E' bensì consentito, in questi casi, procedere ad una valutazione frazionata del racconto accusatorio che valga a salvare le porzioni dichiarative non inficiate da sicura falsità.
Occorrerà tuttavia vagliare ancor più attentamente la coerenza intrinseca del dichiarato e la sua rispondenza alle altre emergenze istruttorie, fin quasi ad esigere la presenza di riscontri esterni alla deposizione dell'offeso.
Si veda in argomento quanto chiarito da Cass. 20.12.2010 n° 3015: "E' legittima una valutazione frazionata delle dichiarazioni della parte offesa, e l'eventuale giudizio di inattendibilità, riferito ad alcune circostanze, non inficia la credibilità delle altre parti del racconto, sempre che non esista un'interferenza fattuale e logica tra le parti del narrato per le quali non si ritiene raggiunta la prova della veridicità e le altre parti che siano intrinsecamente attendibili ed adeguatamente riscontrate e sempre che l'inattendibilità di alcune delle parti della dichiarazione non sia talmente macroscopica, per conclamato contrasto con altre sicure emergenze probatorie, da compromettere per intero la stessa credibilità del dichiarante".
Ebbene, valutando alla luce dei succitati principi di diritto le dichiarazioni della K. S., devono essere evidenziati soprattutto tre aspetti:
1) in primo luogo, che la teste - avendo vissuto una esperienza estremamente negativa al campo nomadi di Coltano (perché non innamorata del marito e ancora invaghita di un altro giovane, perché costretta a svolgere faccende domestiche a lei ingrate, perché obbiettivamente maltrattata dal marito e dai suoceri) - aveva ogni motivo per amplificare il suo racconto accusatorio onde conseguire l'utile risultato di far ritorno a casa;
2) in secondo luogo, che le sue dichiarazioni appaiono affette - come si vedrà tra breve - da tali e tante contraddizioni da minarne gravemente la credibilità;
3) in terzo luogo, infine, che è positivamente provato - alla luce delle successive ritrattazioni della stessa K. - che in almeno due occasioni essa incolpò falsamente gli Hamiti di reati mai commessi: di averla rapita e (l'H. R.) di averla sessualmente molestata con la esibizione del suo organo sessuale.
Trattasi dunque di una teste non pienamente affidabile, le cui parole dovranno essere valutate con estremo rigore ed attenzione alla luce di tutte le altre emergenze istruttorie.
Fatta questa doverosa premessa metodologica, e passando ora all'esame delle fattispecie criminose contestate, la prima accusa sollevata nei confronti degli odierni imputati è quella di tratta di persone (capo A).
Il delitto di tratta di persone
L'art. 601 del codice penale, come modificato dalla legge 11.8.2003 n° 228, disegna una duplice fattispecie criminosa.
La prima, prevista nella parte iniziale della norma, e praticamente sconosciuta all'esperienza giurisprudenziale italiana, si sostanzia nel delitto di tratta di persona in stato di schiavitù, che è un reato a forma libera realizzato da chi faccia commercio di soggetti che si trovino nelle condizioni previste dall'art. 600 cod. pen.
La seconda fattispecie - introdotta dalla disgiuntiva "ovvero" - è invece costruita come un reato di evento a condotta tipica alternativa connotato, sul piano dell'elemento soggettivo, dal dolo specifico.
Per il suo perfezionamento occorre che l'agente - adottando alternativamente una delle condotte descritte dalla norma incriminatrice (inganno, violenza, minaccia, abuso di autorità, approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica, promessa o dazione di denaro a chi ha autorità sulla persona offesa) - induca o costringa quest'ultima ad un evento individuato nel fare ingresso, uscire, trasferirsi sul territorio dello Stato, avendo di mira (dolo specifico) la commissione di un reato-fine rappresentato dalla sua riduzione o mantenimento in stato di schiavitù o in condizione analoga alla schiavitù.
La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di chiarire che il reato di tratta di cui ora ci occupiamo non presuppone la preesistenza dello stato di servaggio della persona offesa ("il delitto di tratta si ravvisa anche se una persona libera è condotta con inganno in Italia per portarla nel nostro territorio in condizione analoga alla schiavitù" - Cass. 24.9.2010 n° 40045), che per il suo perfezionamento non si richiede che la riduzione in schiavitù, oggetto del dolo specifico, sia effettivamente conseguita ("non è necessario che venga commesso il reato di riduzione in schiavitù, quale previsto dalla norma richiamata (art. 600 c.p.) atteso che con tale richiamo il legislatore ha voluto stabilire il requisito del dolo specifico che deve connotare la condotta dell'agente, non rilevando la mancata realizzazione della finalità perseguita" - Cass. 25.3.2010 n° 20740), che il concetto di "condizione analoga alla schiavitù" descrive una situazione di fatto che si realizza "se la persona è ridotta in stato di soggezione e costretta a prestazioni di lavoro stressanti, o alla prostituzione con sfruttamento dei compensi a lei dovuti, con inganno, per abuso di autorità, profittamento della situazione di inferiorità fisica o psichica o di necessità, oltre che minaccia o violenza" - Cass. 24.9.2010 già sopra citata).
A parità di evento materiale (l'ingresso della persona offesa nel territorio dello Stato), il reato di tratta si distingue da quello di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina previsto dall'art. 12 del D. Lvo 1998 n° 286 per effetto di alcuni profili di specialità reciproca.
Da un lato, perché l'immigrazione considerata dall'art. 12 è contrassegnata dal requisito dell'illegalità ("chiunque.. compie atti diretti a procurare illegalmente l'ingresso nel territorio dello Stato"), che non è invece richiesto ai fini del delitto di tratta, il quale si consuma anche quando l'ingresso nel territorio dello Stato sia formalmente regolare.
Da un altro lato perché, mentre il delitto di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina è a forma libera e a dolo generico, quello previsto dall'art. 601 è a condotta tipica e a dolo specifico.
Tra le due fattispecie ora in discussione opera la clausola di riserva posta dall'art. 12 ("salvo che il fatto costituisca più grave reato"), cosicché, in caso di compresenza degli elementi costitutivi di entrambe le previsioni normative, trova applicazione il solo reato di tratta, che assorbe quello di favoreggiamento ("deve pertanto affermarsi che, qualora l'agevolazione all'ingresso in Italia di uno straniero costituisca al contempo un mezzo per realizzare la tratta del medesimo, si verifica assorbimento della prima condotta nella seconda, più gravemente sanzionata" - Cass. 25.3.2010 già sopra citata).
Questo premesso in punto di diritto, passiamo ora all'analisi delle risultanze probatorie attinenti al reato di cui al capo A).
Il capo di imputazione è stato costruito dalla Pubblica Accusa, per così dire, in modo ambivalente, dato che in parte (laddove fa riferimento alla consegna ai genitori della K. S. della somma di 1.000 euro, acconto della maggior somma di 20.000 euro) sembra alludere ad una vera e propria compravendita di persona, come tale rientrante a pieno titolo nella nozione di tratta di soggetto in condizione di schiavitù.
Per altra parte, laddove fa riferimento alla indigenza economica della famiglia di origine, alla prospettazione di un matrimonio poi mai celebrato, alla promessa di vivere da signora in una bella casa, si iscrive invece nella fattispecie dell'induzione a immigrare in Italia a fini di riduzione in stato di servitù prevista nella seconda parte dell'art. 601.
Esaminiamo uno per uno i profili ora evidenziati.
Si è fatto gran parlare, nel dibattimento, della somma di 10.000 o 20.000 euro (l'esatta entità della corresponsione è rimasta dubbia) che fu consegnata ai genitori della K. S., e si è lungamente discusso se quella somma rappresentò il corrispettivo di una transazione commerciale avente ad oggetto una persona, o non piuttosto una dazione rituale tipica del costume matrimoniale kosovaro.
Sul punto la Corte ha ascoltato con estremo interesse l'ampia dissertazione del consulente della difesa, Prof. A. S., che ha illustrato come il versamento di una somma di denaro ai genitori della sposa sia un classico dell'etnologia mondiale, e in particolare come, nella cultura delle popolazioni del nord dell'Albania e del Kosovo, esso non rappresenti "il corrispettivo dell'acquisto di una sposa, ma è una somma destinata a suggellare l'accordo tra le famiglie" (pag. 39 del verbale di fonotrascrizione).
La Corte ritiene comunque di dovere del tutto prescindere da questi parametri antropologico/culturali di valutazione, dal momento che ciò che conta, ai fini dell'ordinamento positivo italiano, è che nessuna persona sia data in matrimonio ad altri senza il suo consenso, sia questo accompagnato o meno da statuizioni patrimoniali accessorie.
Dunque, quello che rileva ai fini del decidere è solo questo: la K. venne in sposa in Italia perché compravenduta, o per sua libera scelta?
Lasciamo rispondere la diretta interessata.
Interrogata dal Tribunale dei Minori di Firenze nell'incidente probatorio del 17.5.2011 sulla genesi del suo matrimonio, la K. dichiarava che, dopo aver visto il suo potenziale sposo su internet, questi le era piaciuto, così come la solleticava l'idea di trasferirsi in Italia ("dice che sì, a me personalmente mi è piaciuto.. mi è piaciuto anche venire in Italia.." - pag. 7 della fonotrascrizione).
Lei e i suoi genitori si erano presi una settimana di tempo per dare una risposta, e alla scadere di questo termine suo padre le aveva chiesto che cosa avesse deciso di fare.
Lei gli aveva risposto "questa è la mia vita, io voglio sposarmi e farò così!" (pag. 8).
Chiudiamo allora una volta per tutte una questione sulla quale si è anche troppo discusso ed equivocato: la K. arrivò in Italia per sua libera scelta, e non perché oggetto di compravendita, o peggio ancora di rapimento.
Passiamo ora agli altri addebiti ipotizzati dalla Pubblica Accusa.
Si è detto che il consenso della K. fu viziato da inganno, essendole stato promesso che avrebbe vissuto da signora in una bella casa, ed essendosi poi costei ritrovata in una baracca di un campo nomadi.
Sul punto, per la verità, le dichiarazioni della ragazza appaiono contraddittorie. Infatti, mentre al GIP di Firenze aveva dichiarato "non sapevo che venivo in un campo, sapevo che avevano una casa per bene" (pag. 57 delle fonotrascrizioni), al Tribunale dei Minori riferiva invece una cosa diversa dicendo "perché non me l'hanno spiegato che dovevo fare proprio questo tipo di vita, no? Come era questo ambiente, là nel camper, no?" (pag. 5).
In altre parole, mentre nella prima versione parlava (implicitamente) di false assicurazioni datele circa la sua futura casa di abitazione, nella seconda affermava che nessuna informazione le era stata fornita al riguardo.
E quest'ultima è senz'altro la versione più credibile, anche perché è da ritenere che gli H. - la cui congiunta B. era zia dell'odierna persona offesa - supponessero che quest'ultima fosse perfettamente al corrente, senza bisogno di particolari illustrazioni, dell'ambiente nel quale sarebbe andata a vivere.
A questo deve aggiungersi che l'aspetto abitativo non fu certamente un fattore decisivo del consenso matrimoniale prestato dalla K.
Questa barattò - si passi l'ossimoro - una condizione di dignitosa miseria nel Kosovo con una degradata opulenza in Italia, passando dalla povera casa in muratura di F. allo squallore di un campo nomadi dove c'erano 4 chili di oro nascosti nel frigorifero e dove circolava abbondanza di denaro di dubbia provenienza (si pensi solo allo sfarzo delle cerimonie nuziali in limousine).
Ciò che indusse la persona offesa a ricredersi non fu tanto la baracca in cui viveva, ma il fatto di doversi rimboccare le maniche (lei che era abituata, per sua ammissione, a non far niente in casa e a passare le sue giornate su internet), e ancor di più la mancata nascita di un coinvolgimento emotivo col novello sposo, che le fecero rimpiangere le comodità e gli amori lasciati in Kosovo.
Si è ancora detto, da parte della Pubblica Accusa, che altro profilo di inganno sarebbe consistito nel prospettare alla ragazza un matrimonio poi di fatto mai celebrato.
A questa Corte sfugge la congruenza dell'addebito, dal momento che non risulta che alcuno avesse mai promesso alla S. o ai di lei genitori la celebrazione di un matrimonio secondo il diritto italiano, mentre non vi sono dubbi che gli sponsali voluti ed effettivamente celebrati furono quelli prescritti dalle tradizioni nuziali rom-kosovare, le uniche alla cui osservanza le parti contraenti erano interessate.
Si è infine sostenuto che vi fu approfittamento dello stato di assoluta indigenza economica della famiglia K.
Premesso che la nozione di "situazione di necessità" posta dall'art. 601 non deve essere confusa con quella di "stato di necessità" prevista dall'art. 54 cod. pen. "ma deve essere piuttosto correlata alla nozione di bisogno indicata nel delitto di usura aggravata" (Cass. 6.5.2010 n° 45758), va brevemente rilevato che nessuna indagine patrimoniale risulta essere stata svolta sulle effettive condizioni economiche della famiglia K. (il teste T. si è cavato d'impaccio definendole "normali").
Né uno stato di bisogno appare desumibile da talune espressioni impiegate dalla S. nei colloqui intercettati con la famiglia di origine, nei quali essa chiede ai suoi genitori se abbiano da mangiare (si veda ad esempio la tel. 38 della RIT 3775/10).
Anche questo è, probabilmente, uno dei tanti equivoci interculturali che hanno sproporzionatamente alimentato l'odierna vicenda processuale, dato che la domanda se taluno abbia di che alimentarsi appare costituire nel linguaggio kosovaro una semplice formula di cortesia, tanto che, a parti invertite, lo stesso K. Florin la rivolge alla figlia nella tel. 71 della stessa RIT ("vai figlia mia, ma tu hai da mangiare?" - pag. 153 del verbale di trascrizione).
In realtà, le stesse intercettazioni telefoniche rivelano che il bisogno economico non fu affatto all'origine del consenso all'espatrio, che fu semmai ispirato da una certa ricerca di tornaconto finanziario da parte dei K. (ai quali la D. I., nella già più volte citata telefonata 73 del 12 dicembre 2010, rimproverava infatti di essersi comprati una casa nuova coi soldi ricevuti da loro).
Rimane da dire del requisito del dolo specifico previsto dall'art. 601, che il P.M. ha creduto di ravvisare nella finalità attribuita agli imputati di ridurre e mantenere in servitù la S.
Qui si impone di necessità un rinvio al capitolo che sarà dedicato tra breve al reato di cui al capo B).
Si può intanto anticipare che la Corte di Assise esclude che la K. sia mai stata ridotta o mantenuta in stato di servitù, il che riverbera inevitabilmente i suoi effetti anche sulla sussistenza del dolo specifico richiesto ai fini del presente delitto di tratta.
E' infatti agevole argomentare che essendo la persona offesa rimasta affidata per oltre tre mesi agli imputati (dal 20 maggio all' 8 settembre), il fatto che essi, pur potendolo fare, non l'abbiano ridotta in stato di soggezione servile consente di inferire che già ab origine non fu questo lo scopo che li guidava.
L'ingresso illegale della K. in Italia
Se dunque non sussiste alcuno degli elementi costitutivi del reato di tratta di persone quale ipotizzato dalla Procura (non la compravendita di persona, non l'approfittamento dello stato di bisogno, non l'induzione in errore della persona offesa, non il dolo specifico della riduzione in servitù), appare invece pienamente fondata quella parte del capo di imputazione che concerne il procurato ingresso illegale della K. nel territorio dello Stato.
Una insormontabile messe di elementi probatori dimostra infatti che la minore fu introdotta illegalmente dagli odierni imputati nel nostro paese.
Per affermare la sussistenza del reato che ora ci occupa non occorre minimamente prendere posizione sulla fondatezza o meno di quei particolari piuttosto romanzeschi di cui è intessuto il racconto della K. (il cambio dei connotati, la somministrazione di una sostanza soporifera all'atto dell'attraversamento del confine ecc.).
Quello che conta è che - come è emerso dalla puntuale deposizione del V. Quest. S. M., dirigente dell'Ufficio Stranieri della Questura di Pisa - la minore non era abilitata, per due distinti profili, ad entrare legittimamente in Italia.
In primo luogo perché priva di visto (il suo passaporto, acquisito in copia agli atti, evidenzia infatti un solo visto di ingresso in una imprecisata località macedone datato 8 aprile 2010, come tale nulla avente a che vedere con l'ingresso in Italia del successivo 20 maggio).
Va anzi rilevato che l'assenza di qualsivoglia visto di ingresso in area Schengen sul passaporto della K. costituisce un riscontro inoppugnabile al racconto di costei, che ha affermato di essere stata munita di un falso documento di identità acquistato dal M. E. a Belgrado, circostanza quest'ultima a sua volta probatoriamente supportata dall'accertata riscossione in data 17 maggio 2010 da parte del M. di due rimesse di denaro per 3.800 euro inviategli tramite Western Union da Pontedera.
In secondo luogo perché, come spiegato dallo S., i minori stranieri non accompagnati dai genitori possono fare ingresso in Italia solo a condizione di essere muniti di una dichiarazione di affidamento a terzi la quale, per essere valida, deve essere preventivamente legalizzata.
Senza troppo diffonderci sull'argomento, basti ricordare che le procedure di legalizzazione possibili sono due: quella ordinaria (che prevede che la dichiarazione di affido sia formalizzata dapprima di fronte alle autorità del paese di partenza e poi raccolta da quelle del paese di destinazione) e quella semplificata riservata ai paesi aderenti alla convenzione dell'Aja.
Si parla in questo secondo caso di dichiarazione "postillata", cioè costituita da una manifestazione di volontà presentata direttamente alle autorità diplomatiche del paese di destinazione, le quali la muniscono, appunto, di una "postilla", cioè di una attestazione circa l'avvenuta identificazione dei dichiaranti e la conseguente veridicità dell'atto da costoro presentato.
Nessun valido documento di affidamento aveva invece la S., tale non essendo in particolare la già in precedenza esaminata dichiarazione del S. R. in cui questi, spacciandosi falsamente per zio delle minori S. e Laura, chiedeva il rilascio di un visto turistico di ingresso in loro favore, attestando che sarebbero state accompagnate in Italia dalla D. I., a sua volta falsamente spacciata per loro zia.
Del resto, che la S. sia entrata illegalmente in Italia lo ammette perfino qualcuno degli imputati (per esempio, la H. N., che nel suo esame ne attribuisce la colpa ai genitori della minore i quali, pur avendo ricevuto il denaro per farlo, avrebbero omesso di munirla di visto).
Quest'ultima incolpazione è in realtà smentita dalla ben nota telefonata-scontro del 12 dicembre 2010 tra la D. I. e il K. F. dalla quale emerge chiaramente che furono gli odierni imputati, per la fretta di celebrare il matrimonio, a voler portare la promessa sposa in Italia senza attendere il rilascio del visto, affermando che sarebbe stato affar loro come farla immigrare (F.: "ho detto a N. di aspettare qualche giorno per fare i documenti, per portarla via con i documenti, perché l'ambasciata italiana glielo doveva dare il documento.. (..) mi ha detto N.: "F., io non aspetto nemmeno un giorno, nemmeno un minuto, nemmeno un'ora! (..) noi la facciamo uscire con i documenti, come facciamo sono affari nostri!".. mi ha detto così, o I.!" - pag. 160 del verbale di trascrizione).
E' dunque del tutto incontestabile la sussistenza del reato previsto dall'art. 12 3° comma lett. d) del D. Lvo 1998 n° 286.
Di esso devono rispondere tutti gli imputati, e in particolare:
1) i nonni H. A. e H. N., quali ispiratori e organizzatori dell'ingresso clandestino della K. in Italia (si ricordi che - come ha dichiarato il S. - furono costoro a chiedergli di redigere la falsa dichiarazione di affidamento delle minori S. e Laura; e come ha ammesso il minore A. all'assistente sociale P. R., che furono costoro a versare 20.000 euro ai genitori della sua futura sposa);
2) l'H. R.e la D. I., padre e madre dello sposo, anch'essi quali ispiratori ed esecutori di fasi rilevanti del progetto criminoso (in particolare, l'H. R.quale partecipante al primo viaggio di fidanzamento in Kosovo, la D. I. quale partecipante ad entrambi i viaggi, di fidanzamento e di matrimonio, nel paese balcanico);
3) gli zii M. E. e D. V. quali materiali esecutori del viaggio di trasferimento della S. dal Kosovo in Italia.
Questi ultimi imputati si sono difesi affermando che la materiale introduzione della minore in Italia sarebbe stata opera non loro, ma dello zio paterno di costei, Nehat, il quale l'avrebbe trasportata oltre il confine sloveno per poi consegnarla a loro una volta raggiunta la zona di Trieste.
Due brevi osservazioni si impongono.
La prima è che il ruolo di vettori rivestito dai coniugi M. nel viaggio dal Kosovo in Italia è provato, oltre che dalle dichiarazioni della K., che su questo è ampiamente riscontrata e credibile, anche da quelle del teste C. S. (al quale il M. confidò che era stato lui a portarla nel nostro paese) e dalla teste P. R. (la quale, riferendo le confidenze ricevute dal minore H. A., ha dichiarato che a detta di quest'ultimo a trasportare S. in Italia erano stati i suoi zii M. E. e D. V.), aggiungendo poi che analoga confidenza le era stata fatta dalla D. I.
La seconda osservazione è che - anche ammesso e non concesso che non furono gli odierni imputati ad accompagnare la K. all'atto del valico del confine - l'attività da loro svolta prima e dopo detto passaggio li costituiva a tutti gli effetti correi degli (ipotetici) materiali trasbordatori della ragazza.
L'affermazione di penale responsabilità degli imputati in ordine ad un reato diverso da quello loro formalmente contestato non viola il principio posto dall'art. 111 3° comma della Costituzione - che a sua volta riprende la garanzia prevista dall'art. 6 3° comma lett. a) della C.E.D.U. quale da ultimo richiamata dalla giurisprudenza europea nel noto "caso Drassich" - secondo cui l'imputato ha diritto ad essere preventivamente informato sulla natura dell'accusa che gli viene mossa, il che esclude la legittimità di una "riqualificazione a sorpresa" del fatto-reato originariamente contestatogli.
Deve infatti rilevarsi che, nel caso di specie, la derubricazione del reato di tratta in quello di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina è stata proposta e argomentata dalla stessa difesa degli imputati, che quindi non hanno "subìto", ma hanno loro stessi sollecitato, la diversa qualificazione penalistica dei fatti loro addebitati.
E' ora venuto il momento di affrontare l'imputazione di riduzione e mantenimento in stato di servitù contestato ai soli imputati H. R.e D. I. al capo B).
Il delitto di riduzione in servitù
L'art. 600 del cod. pen. , quale modificato dalla legge 2003 n° 228, delinea un "delitto a fattispecie plurima " (Cass. 27.5.2010 n° 24269).
Il primo corno della previsione legislativa è sostanziato dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà.
Il secondo - che più direttamente interessa l'odierno giudizio - configura un reato a forma vincolata e di evento qualificato, per la cui consumazione si richiede che l'agente, impiegando qualcuna delle condotte descritte dal 2° comma (violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità, approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di necessità, dazione di denaro a chi ha autorità sulla persona offesa), consegua l'effetto di ridurre o mantenere una persona in stato di soggezione continuativa, quest'ultima qualificata dalla costrizione a prestazioni lavorative o sessuali, o all'accattonaggio, o in generale ad attività che ne comportino lo sfruttamento.
Concentrandoci su quest'ultima figura criminosa, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che per la sussistenza del reato non occorre che la persona offesa sia totalmente privata della sua libertà, essendo sufficiente, specie nel caso di soggetto minorenne, l'approfittamento della particolare condizione di vulnerabilità di quest'ultimo (Cass. 18.11.2010 n° 2775: "non essendo pertanto più necessario per la configurabilità del reato che la condotta escluda totalmente la libertà della vittima o la comprima fino a ridurre quest'ultima a cosa (..) Tali indicazioni trovano la loro origine nella particolare vulnerabilità del minore avulso dal proprio ambiente familiare"), e che la finalità di sfruttamento distingue il reato che ci occupa da quello di sequestro di persona (Cass. 6.5.2010 n° 45758: "La detta finalità di sfruttamento è quella che distingue la fattispecie dell'art. 600 c.p. da ogni altra forma di inibizione della libertà personale, considerata quest'ultima come facoltà di spostamento nel tempo e nello spazio e tutelata dagli artt. 605-609 decies c.p.").
L'assunto accusatorio formulato a carico dell'H. e della D. è che costoro, con condotte tenute anche in concorso col figlio minorenne A., e consistite nell'approfittare dello stato di necessità della K., nel sottoporla a violenza e minaccia, nel sorvegliarla continuamente e impedirle di muoversi liberamente e comunicare coi suoi genitori, l'avrebbero sottoposta a "condizioni di vita abnormi", costretta a "effettuare estenuanti prestazioni lavorative e domestiche" nonché a "prestazioni sessuali in favore del sedicente marito".
In altre parole, la Pubblica Accusa ha creduto di poter ricostruire che gli attuali imputati, sotto le mentite spoglie di un legame matrimoniale, vollero in realtà procurare a loro stessi una serva, e al loro figlio una concubina, grazie alle cui prestazioni tenere pulita gratuitamente la loro casa, e assicurare sesso ancillare all'adolescente A.
La Corte di Assise ritiene che questa malevola interpretazione dei fatti tradisca completamente il significato di quanto emerso dall'istruttoria dibattimentale.
Le abbondanti foto e filmati delle cerimonie di fidanzamento e di matrimonio dei due giovani, il perdurante coinvolgimento emotivo del minore A. (ancora innamorato, pur dopo la bufera, della bella kosovara venutagli in sposa: riferiva la teste B. R. a pag. 100 del verbale del 24.4.2012 "lui di questa ragazza era molto innamorato, era pronto a riprendersela se lei ci avesse ripensato"), le ammissioni della stessa K. S. circa la sua originaria ed effimera infatuazione per il coetaneo conosciuto tramite internet, le emergenze delle intercettazioni telefoniche che documentano la sincera intenzione degli H. di procurare una sposa al loro figliolo, le dichiarazioni di tutti coloro che ebbero occasione di assistere all'esplicazione del quotidiano ménage familiare della K., tutti questi convergenti elementi provano che quello tra S. ed A. non fu un matrimonio di facciata destinato a schermare la realtà di uno sfruttamento servile, ma un legame concepito nella prospettiva di una autentica edificazione familiare.
Vero è che l'intesa affettiva tra i due adolescenti naufragò rapidamente per effetto delle circostanze di cui si è detto a pag. 20 della presente motivazione, e diede vita ad una sequela di incomprensioni, litigi, maltrattamenti, percosse, financo (ma non è oggetto del presente processo) di violenze sessuali del giovane A. ai danni della sposa recalcitrante.
Sintomi - questi che si sono elencati - di una crisi interpersonale gestita in forme sì penalmente illecite, all'insegna della prevaricazione e della violenza coniugale, ma non mai degenerata in un rapporto di servaggio, che non ebbe di fatto ad instaurarsi, e nemmeno fu progettualmente concepito dagli odierni imputati.
Concentriamo la nostra attenzione sul profilo del presunto sfruttamento lavorativo della K., in relazione al quale è più facile apprezzare la totale infondatezza dell'impianto accusatorio.
L'unico elemento a sostegno dell'accusa è rappresentato dalle dichiarazioni della persona offesa, delle quali si è già messa in evidenza la scarsa affidabilità.
In occasione dei due incidenti probatori cui venne sottoposta, costei si dipingeva come costretta a fatiche domestiche inenarrabili, descritte al GIP come comportanti un orario lavorativo di ben 21 ore (dalle 6 di mattina alle 3 della notte), e al Tribunale dei Minori di 18 ore (dalle 7 di mattina all'1 della notte).
Ora, quello che suona chiaramente inverosimile nel mutevole racconto della ragazza, e induce a bollarlo come palesemente inattendibile, è che non si vede come la cura di una baracca di modeste dimensioni e la pulizia dello spiazzo ad essa antistante potesse richiedere un simile smisurato impiego di tempo e di risorse lavorative.
E in effetti, nessuno che ebbe occasione di assistere alla vita quotidiana della K. ha potuto confermare il quadro drammatizzante offerto da costei.
Si può anche prescindere, a volerle ritenere sospette, dalle deposizioni dei parenti e degli amici degli odierni imputati (i quali riferiscono - in modo peraltro convincente perché parzialmente riscontrato dalle stesse ammissioni della K. - di giornate passate da costei a truccarsi, a ascoltare musica, a navigare su internet, a fare il bagno in piscina, a vedere la luminaria di San Ranieri, a svagarsi all'Aqua Park di Cecina, alla base di Camp Darby, al mare, al ristorante, in pizzeria, a consumare panini o gelati nei bar della zona).
Ma che dire delle dichiarazioni di un teste altamente attendibile come il C. S. (vale a dire, della stessa persona che non esitò un attimo a denunciare alla Questura ciò che l'H. R.gli aveva confidato sulle percosse inflitte alla S. perché "non voleva scopare col figlio"), che ha affermato che la ragazza non faceva lavori pesanti, non doveva pulire le baracche degli altri, in una parola "non faceva niente di particolare", e ha aggiunto che se avesse subodorato qualche forma di sfruttamento servile lo avrebbe sicuramente riferito alla Polizia: che dire di un simile teste, se non che le sue parole illustrano chiaramente la verità vera dei fatti?
E ancora - pur fatta la tara sull'evidente pregiudizio filo-rom che lo muove - che dire delle dichiarazioni di Don A. R. M., che ha introdotto nel dibattimento un quadro assolutamente non dissimile da quello del C. ("no, sono lavori che tutte le ragazze del campo, anche all'età di 10 anni, fanno, come quello di preparare il caffè, come quello di pulire la stanza, come quello di dare un occhio ai bambini piccoli..").
Il definitivo suggello al quadro di normalità domestica - e non di bieco sfruttamento ancillare - emergente dalle considerazioni che precedono viene infine dalla già più volte richiamata intercettazione telefonica del colloquio tra la D. I. e il padre dell'odierna persona offesa, nel quale la prima, sapendo di non poter essere smentita, e di fatto non essendolo, rinfacciava al K. la pigrizia e la trasandatezza di sua figlia, rivendicando che stava a lei (alla I.) perfino lavarle le mutande imbrattate di sangue ("tua figlia non lavava mai nemmeno il suo viso.. non puliva e non lavava mai i piedi, stava tutto il giorno a letto e alla televisione insieme a mia figlia (..) non ha mai cucinato.. ho sempre lavato io le sue mutande piene di sangue.. io gliele lavavo!").
Circostanza, quella della svogliatezza della K., che emerge anche dall'intercettazione telefonica n° 1316 della RIT 4066/10 nella quale l'assistente sociale Dal C. M., che seguiva la ragazza nella struttura protetta che la ospitava, riconosceva che costei "non amava molto fare le pulizie" (pag. 546 del verbale di trascrizione).
Chiaramente destituita di ogni fondamento è dunque l'imputazione di riduzione e mantenimento in servitù mossa al capo B).
La persona offesa ha manifestamente ingigantito il peso della collaborazione domestica che le veniva richiesta non perché questa fosse obbiettivamente "abnorme" o "estenuante", come ha interpretato la Pubblica Accusa, ma perché tale le appariva soggettivamente, sullo sfondo di un rapporto coniugale compromesso, e in un contesto ambientale che non le apparteneva e che le faceva rimpiangere la vita spensierata e priva di fatiche condotta a Ferizaj.
La violenza sessuale ascritta all'H. R.
Il capo C) di imputazione, col quale si contesta all'H. R.il delitto continuato di violenza sessuale in danno della K. S., sconta un evidente mancato aggiornamento alle risultanze istruttorie.
In effetti, avendo la K. completamente ritrattato in sede di incidente probatorio - come già si è ricordato - il presunto episodio di molestia consistito nell'averle il suocero intenzionalmente esibito il suo membro ("no, non è vero, non l'ha messo fuori l'organo" - pag. 70), l'odierno imputato è in realtà chiamato a rispondere non di una serie continuata, ma di un solo episodio di violenza, quello che si sarebbe sostanziato nell'essersi egli una sera gettato addosso alla giovane nuora "come un animale" gridandole "prendimelo in bocca sennò ti sotterro".
Plurime considerazioni inducono questa Corte di Assise a ritenere inattendibile il racconto della persona offesa anche in relazione a questa parte dell'imputazione.
Gioca anzitutto un riflesso altamente sfavorevole sulla credibilità della teste la circostanza che costei, con la ritrattazione delle precedenti accuse, abbia dimostrato per tabulas di essere stata capace di incolpare falsamente il suocero di una molestia sessuale (l'esibizione dei genitali) mai commessa in suo danno.
Del tutto inverosimile è poi il contesto in cui l'attuale episodio di violenza si sarebbe consumato.
La stessa K. lo situa infatti all'interno di un litigio avvenuto una sera tra lei e suo suocero alla presenza della moglie di quest'ultimo (la D. I.) e di un di lui fratello, certo "M. ", (presumibilmente identificabile in quello Z. M. che ha offerto al dibattimento la sua agiografica narrazione dell'episodio).
In effetti, appare semplicemente grottesco ipotizzare che l'odierno imputato abbia potuto porre in essere una aggressione sessuale connotata da reale concupiscenza alla presenza.. di sua moglie e di un suo fratello.
E' facile invece ritenere che quanto avvenuto quella sera fu solo un violento alterco, sì accompagnato da offensive allusioni sessuali, ma non certo provvisto della sostanza di un atto di libidine.
Le stesse gravi contraddizioni rinvenibili nel racconto accusatorio della K. palesano la scarsa consistenza della sua testimonianza.
Anche su questo episodio la persona offesa è stata esaminata due volte, dapprima ad opera del GIP, poi del Tribunale dei Minori.
Ebbene:
- interrogata dal GIP sui suoi rapporti col suocero, essa rispondeva che durante i loro litigi questi le diceva di prenderglielo in bocca, ma a specifica domanda se dalle parole costui fosse mai passato ai fatti dichiarava "solo con le parole" (pag. 52);
- solo alla ripresa dell'incidente probatorio, avendole il GIP dato lettura delle dichiarazioni rese alla polizia circa l'episodio per cui è processo, rispondeva imbarazzata "sì la verità è quella che dice Lei, sì.. non so che dire.." (pag. 69);
- invece, interrogata sugli stessi fatti dal Tribunale dei Minori, dichiarava che talora il suocero la offendeva con "parole sporche" dicendole "ti prenderò, e un giorno te lo darò nella bocca" (pag. 52); ma richiesta se costui di fatto l'avesse mai toccata rispondeva "no, no, no.. non posso mentire - dice - per avere rapporti sessuali, no.." (pag. 53).
Come si vede, dunque, l'accusa di violenza non solo non è confermata, ma è sostanzialmente smentita dalla stessa persona offesa.
L'H. R.deve dunque essere assolto con formula piena dall'imputazione di cui al capo C).
Non infondatamente allora, nella conversazione telefonica del 12 dicembre 2010, la D. I. contestava con toni sdegnati al K. F. (che non replicava) che le menzogne di sua figlia si erano spinte fino ad accusare suo marito di un tentativo di stupro, del quale entrambi erano in grado di apprezzare l'evidente inveridicità ("è una vergogna per quel pane che abbiamo mangiato insieme, che tua figlia faccia queste cose e faccia questo a mio marito, è una vergogna per voi!.. sta mentendo troppo, come fa a non vergognarsi per le bugie che dice?").
La violenza sessuale di gruppo
Al capo D) di imputazione viene contestata a D. I., D. V. e H. N., in concorso tra loro e col loro congiunto minorenne A., l'accusa di violenza sessuale di gruppo.
Il reato si sarebbe perfezionato la prima notte di nozze, in coincidenza con la cosiddetta "prova della verginità", allorquando - essendosi rifiutata la K. S. di congiungersi carnalmente col suo novello sposo - le tre donne, entrando a turno nella camera nuziale, l'avrebbero indotta a soggiacere all'atto sessuale, vuoi con minacce esplicite (la D. V.), facendo riferimento alle percosse che in una situazione analoga una sua nuora aveva subito, vuoi con minacce larvate (la D. I. e la H. N.), dicendo alla ragazza che il suo rifiuto era vergognoso e che fuori della baracca molte persone erano in attesa del compimento del rito.
Anche in questo caso l'unica fonte di prova a carico delle imputate è rappresentata dalla testimonianza della persona offesa, già dimostratasi fallace in numerose occasioni, e che anche stavolta dovrà essere scrupolosamente scrutinata.
Procediamo dunque all'analisi delle dichiarazioni rese dalla K. dapprima al GIP di Firenze, e poi al Tribunale dei Minori della stessa città, non senza raccomandare a chi legge la diretta consultazione dei verbali di fonoregistrazione (pagg. 45-49 e 67-68 dell'incidente probatorio davanti al GIP e pagg. 27-44 dell'incidente davanti al Tribunale minorile) che meglio di ogni altra considerazione varrà a far emergere l'incostanza, la mutevolezza, la palese contraddittorietà del racconto di costei.
Ebbene:
Richiesta dal GIP se la prima notte di nozze ci fosse stato un rapporto sessuale con lo sposo, e se essa lo avesse liberamente accettato, la K. rispondeva testualmente: "non saprei dire, volevo e non volevo, però so che non mi è piaciuto" (pag. 45).
Richiesta se si fossero in qualche modo intromesse nella consumazione del matrimonio le odierne imputate, essa affermava che costoro avevano esplicato un'opera di convincimento su di lei dicendole "tu devi dormire con lui, sei venuta apposta per questa cosa, devi fare questa cosa", e aggiungeva che di fronte alla loro sollecitazione essa non aveva manifestato opposizione ("non ho detto niente io"), oppure aveva sì opposto un diniego, ma non l'aveva più reiterato ("una volta gli ho detto no. Poi è andata la nonna, la suocera, V. e mi ha detto: "devi fare questa cosa senz'altro (..) perché gli altri stanno aspettando fuori!" - pag. 50).
Infine, richiesta se nell'occasione la V. avesse fatto riferimento ad un episodio particolare di cui era stata protagonista, riconosceva che in effetti costei, per meglio convincerla, le aveva detto di avere picchiato in una circostanza analoga una sua nuora ("sì, mi ha detto che io la mia nuora ho voluto picchiarla perché anche lei non era d'accordo di fare.." - pag. 67).
Come si vede, dunque, la persona offesa proponeva al GIP tre diverse versioni del fatto:
1) dapprima affermava di non aver opposto alcun diniego e di non essere stata sottoposta ad alcuna pressione psicologica o ad alcuna minaccia ("non saprei dire, volevo e non volevo, però so che non mi è piaciuto");
2) poi affermava di avere sì espresso un diniego, ma di non averci più insistito dopo l'opera di convincimento svolta su di lei dalle odierne imputate ("una volta gli ho detto no. Poi è andata la nonna, la suocera, V. e mi ha detto: "devi fare questa cosa senz'altro (..) perché gli altri stanno aspettando fuori!"),
3) infine affermava di essere stata minacciata ("sì, mi ha detto che io la mia nuora ho voluto picchiarla perché anche lei non era d'accordo di fare..").
Assai più contorta era invece la versione dei fatti resa al Tribunale dei Minori, tanto che appare perfino difficile ricostruirla in un discorso di senso compiuto.
Proviamo a riassumerla.
Il racconto della persona offesa si apriva con l'invito rivoltole dal Giudice a raccontare liberamente la prima notte di nozze.
La minore riferiva che quella sera, mentre gli altri invitati proseguivano i festeggiamenti, lei e lo sposo si erano ritirati in camera, dopodiché lui (lo sposo) era uscito ed aveva proclamato che la prova della verginità era stata positiva ("era lui che gli ha detto che è tutto a posto.. è uscita bene" - pag. 28).
A tal punto i festeggiamenti erano ripresi con rinnovata lena e anch'essa vi aveva preso parte fino all'alba ("ha detto che erano felici, la musica continuava. Hanno festeggiato, hanno ballato, le hanno messo un vestito rosso.." - pag. 29).
Il Giudice interveniva chiedendo se quindi la prima notte di nozze fosse stata tranquilla, e la teste rispondeva "tutto a posto.. sì, sì!" (Giudice: "quindi questa prima notte è andata.." S.: "tutto a posto!" Giudice: "è stata tranquilla? E' stata tranquilla questa prima notte?" S.: "sì, sì!").
A questo punto, con una domanda invero suggestiva, il Giudice chiedeva se allora non fosse vero che in un primo momento essa aveva rifiutato il rapporto e la mamma di A. era dovuta intervenire per convincerla.
La teste rispondeva che in effetti la D. I. era entrata in camera loro, ma spiegava l'intervento di costei una volta come finalizzato a spiegarle il da farsi ("non avendo fatto rapporti sessuali prima, dice, non sapevo.."), altra volta come invece finalizzato a sollecitarla ("la mamma gli ha fatto presente che tu devi avere questo rapporto sessuale, la gente fuori sta aspettando (..) così tu non puoi fuggire da questo rito, nel senso, lo devi fare e basta.." - pag. 30).
Si domandava alla teste se si fosse rifiutata al marito. Essa dichiarava che sì, "un pochino" si era negata, e che aveva anche pianto, ma spiegava di averlo fatto non perché non volesse il rapporto, quanto perché pensava alla sua casa lontana ("un pochino sì.. pure piangevo, piangevo, piangevo (..) perché da quando sono arrivata, che ho messo piede.. mi ricordavo.. pensavo alla mia famiglia, alla mia casa.. che ho fatto, che sono venuta qua?" - pag. 31).
Alla fine, capendo che ormai le cose erano ormai decise e non potevano cambiare, si era rassegnata ed aveva lasciato che tutto avesse il suo corso ("una o due volte gli ho detto che non voglio.. però ormai, visto che ero arrivata.. ho detto, adesso non posso fare niente.. e lo faccio!").
Con una nuova domanda fortemente suggestiva si chiedeva alla teste se, di fronte al suo rifiuto del rapporto, lo sposo avesse convocato in camera sua madre.
La teste sbandava vistosamente, tanto da indurre il Giudice ad invitarla a ricominciare da capo il suo racconto ("allora, ridicci dall'inizio" - pag. 33).
Anche stavolta la K. esordiva con una ammissione ampiamente innocentista, dichiarando che al primo approccio sessuale dello sposo essa non aveva opposto un rifiuto ("la prima volta io non ho detto no!"), ed anzi vi aveva acconsentito ("sì, ho detto!" - Giudice: "hai detto di sì?" - S.: "sì!").
Poi però affermava - così sembra di capire - di avere cambiato idea, al che il marito aveva fatto intervenire sua madre per convincerla ("che cosa stai facendo? Quella cosa la devi fare! (..) La devi fare per forza!"), al che essa si era rassegnata ("alla fine, anche lei era rassegnata.." - pag. 34).
Con una ulteriore serie di domande gravemente inducenti veniva chiesto alla minore se si fosse ribellata, se avesse cercato di cacciare via lo sposo con le braccia o con le gambe, se avesse urlato.
Stavolta essa forniva una serie di particolari mai riferiti in precedenza, affermando di essersi difesa con calci e spinte e perfino urlando ("con tutto, con le mani, coi piedi.. cioè, lo spingevo.." "hai urlato?" "sì, un pochino sì!" - pag. 35).
Richiesta se fosse stata minacciata da qualcuno, affermava che a farlo era stata la D. V., anche se non ne ricordava le parole.
Solo dopo una sospensione dell'udienza affermava che costei le aveva detto "guarda, noi abbiamo già una esperienza con la sua nuora che non ha voluto.. e ho dovuto picchiarla" (pag. 40).
Richiesta infine se quella notte avesse fatto qualcosa anche la nonna dello sposo, H. N., confermava che anche costei era entrata in camera per sollecitarla (pag. 41).
E' a questo punto inevitabile osservare che nella deposizione resa dinanzi al Tribunale dei Minori le dichiarazioni della K. sono così mutevoli e contraddittorie da impedire perfino di comprendere quale sia stata - alla fine - la versione del fatto proposta da costei.
Si spazia infatti:
- da una ricostruzione della prima notte di nozze in termini di assoluta normalità ("tutto a posto.. è uscita bene"; "ha detto che erano felici, la musica continuava. Hanno festeggiato, hanno ballato, le hanno messo un vestito rosso.."), nella quale alla richiesta dello sposo di consumare il rapporto essa aveva espressamente acconsentito ("la prima volta io non ho detto no!"; "sì, ho detto!" - "hai detto di sì?" - "sì!"),
- alla versione di una sostanziale rassegnazione con la quale essa aveva lasciato che le cose avessero il loro corso ("però ormai, visto che ero arrivata.. ho detto, adesso non posso fare niente.. e lo faccio!").
- ad una titubanza virginale che sarebbe stata vinta dalle attuali imputate con una energica opera di convincimento psicologico ("la mamma gli ha fatto presente che tu devi avere questo rapporto sessuale, la gente fuori sta aspettando (..) così tu non puoi fuggire da questo rito, nel senso, lo devi fare e basta.."),
- fino alle minacce che le sarebbero state rivolte dalla D. V. e al particolare inedito di una disperata resistenza allo stupro che la minore avrebbe opposto con calci, spinte e urla di ribellione.
Siamo - come ognuno intende - addirittura al di là di una grave incostanza dichiarativa della teste, che già da sola basterebbe a fondare un giudizio negativo sulla sua credibilità intrinseca.
Siamo addirittura di fronte all'impossibilità di stabilire quale sia stato l'esatto contenuto delle sue dichiarazioni, posto che né davanti al GIP né davanti al Tribunale dei Minori è stata tentata una sintesi finale delle diverse, mutevoli e contraddittorie versioni sostenute da costei.
Ma supponiamo pure che sia possibile estrapolare dalla congerie di dichiarazioni ora accennate una versione dei fatti conforme al postulato accusatorio.
Supponiamo cioè che la K. abbia veramente affermato in modo costante ed univoco di essersi rifiutata al rapporto fisico e di essere stata costretta a soggiacervi per effetto della violenza del marito e delle minacce delle congiunte di quest'ultimo.
Ebbene: plurime e convergenti considerazioni dimostrano l'assoluta implausibilità psicologica di questa versione dei fatti.
Cominciamo dalla prima considerazione, che è rappresentata dalle iniziali risposte spontanee date dalla persona offesa ai giudici che la interrogavano.
Questa Corte di Assise giudica assolutamente incredibile che una ragazza - la quale sia stata veramente stuprata nel corso di una cerimonia che assunse i connotati di una violenza di gruppo - possa poi, quando richiesta da un giudice se vi fu o no il suo consenso all'atto sessuale, rispondere con parole di questo tenore: "non saprei dire, volevo e non volevo, però so che non mi è piaciuto".
Ancor meno credibile è che, di fronte al Tribunale dei Minori, essa abbia potuto dichiarare che tutto era andato bene perché la prova della verginità era stata favorevole, e dunque si era trattato di una notte tranquilla (Giudice: "quindi questa prima notte è andata.." S.: "tutto a posto!" Giudice: "è stata tranquilla? E' stata tranquilla questa prima notte?" S.: "sì, sì!").
Altre evidenti incongruenze debbono essere evidenziate.
Come ha correttamente rilevato la Dr.ssa G. M., consulente psicologo degli imputati, l'abuso sessuale è uno degli eventi a più alto impatto traumatico nella vita di una donna, tanto che il subirlo provoca pressoché inevitabilmente uno stato di grave sofferenza psichica della persona offesa.
La reazione al trauma si esprime di solito, nell'immediatezza del fatto, con uno stato di shock, manifestazioni di ansia, intorpidimento della coscienza fino a livelli confusivi.
Nel periodo susseguente allo stupro il livello di sofferenza tende a cronicizzarsi assumendo i connotati tipici della "sindrome post traumatica da stress", con attacchi di panico, crisi di ansia, fobie, pensieri intrusivi, stato depressivo, condotte di evitamento.
Orbene, come è stato giustamente evidenziato dalla consulente di parte, l'analisi delle reazioni manifestate dalla K. di fronte all'ipotetico episodio di violenza appare assolutamente "incongrua", "dissonante", "non conforme a quelle che sono statisticamente le risultanze scientifiche su questa materia".
La teste afferma infatti che all'uscita dalla camera nuziale essa era tranquilla, felice, che aveva festeggiato e ballato fino all'alba ("ha detto che erano felici, la musica continuava. Hanno festeggiato, hanno ballato, le hanno messo un vestito rosso..").
Onestamente non si vede come la presunta vittima di uno stupro di gruppo possa descrivere in questi termini le sue reazioni post factum.
Ancora, la persona offesa ha descritto le prime due settimane seguite alla notte di nozze come le uniche serene della sua permanenza a Coltano ("per due settimane sì, bene.. solo due settimane sono stata bene..").
Se si tiene conto della sindrome di evitamento che tipicamente consegue ad uno stupro (vale a dire, della tendenza a scansare i luoghi e le persone correlate all'episodio di abuso), come può essere che la K. si sia sentita per due settimane a proprio agio sul teatro del fatto e nella stretta convivenza coi suoi carnefici?
Un'ultima considerazione.
Una delle autrici della supposta azione coercitiva svolta sulla sposa recalcitrante sarebbe stata, come si è visto, la nonna H. N.
Se così fu, perché allora in altra parte dell'incidente probatorio davanti al GIP (pag. 53 del verbale di fonotrascrizione) la ragazza descrisse i suoi nonni come gli unici che le avevano voluto bene, ed anzi addirittura che l'avevano "protetta"?
A nessuno verrebbe in mente di qualificare come propria "protettrice" la corresponsabile di una barbarie consumata sulla propria persona.
Ciascuno intende, a questo punto, che la radicale implausibilità psicologica del racconto accusatorio, sommandosi con le ripetute e gravi contraddizioni che lo connotano, e con il già accennato interesse della K. a ottenere - mediante una versione alterata e drammatizzante dei fatti - l'utile risultato del suo ritorno a casa, impediscono di ritenere raggiunta la prova attendibile del presunto stupro di gruppo di cui la stessa sarebbe rimasta vittima.
Al contrario è altamente verosimile che la persona offesa abbia antedatato alla prima notte di nozze ritrosie sessuali, maltrattamenti e violenze che essa iniziò invece a subire ad opera del giovane sposo (ma - si ripete - non è questo l'oggetto del presente giudizio) solo un paio di settimane dopo l'inizio della loro convivenza, allorquando, approfonditasi la loro conoscenza reciproca, essa iniziò a rendersi conto che non l'amava e non lo accettava come suo partner sessuale, mentre voleva ricongiungersi al suo spasimante kosovaro R.
Il favoreggiamento dell'immigrazione di K. Laura
Al capo E) di imputazione si contesta all'H. A. di avere compiuto atti diretti a procurare l'ingresso illegale in Italia di K. Laura, sorella di K. S.
Premesso che il reato di favoreggiamento dell'immigrazione illegale di stranieri è congegnato dall'art. 12 del D. Lvo 1998 n° 286 come un reato a consumazione anticipata (Cass. 16.6.2011 n° 27106: "In tema di disciplina dell'immigrazione, il delitto di cui all'art. 12 d.lgs n. 286 del 1998, consistente nel compiere atti diretti a procurare l'ingresso illegale di una persona nello Stato, ha natura di reato di pericolo o a consumazione anticipata ed è del tutto irrilevante il conseguimento dello scopo"), appare determinante ai fini del decidere stabilire se la fattispecie criminosa in parola costituisca un reato di pericolo astratto o di pericolo concreto, vale a dire se per il suo perfezionamento sia sufficiente qualsiasi atto anche meramente propedeutico, purché inalisticamente orientato, o se occorra invece che gli atti posti in essere dall'agente abbiano raggiunto il livello della astratta idoneità alla produzione dell'evento.
La lettera della norma milita indubbiamente nel primo senso, posto che l'art. 12 menziona il solo requisito teleologico ("atti diretti a..") e non invece anche quello della idoneità quale richiesto dall'art. 56 cod. pen. ("atti idonei diretti in modo non equivoco a..").
Un'interpretazione di tal genere è stata ad esempio fatta propria da Cass. 3.10.2008 n° 38936 nella quale è dato leggere "Orbene, l'articolo 12, comma 1 del decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286 (nel testo in vigore) sanziona, per l'appunto, le condotte agevolatrici, consistenti in atti preparatori, tipizzandole in funzione della univoca finalizzazione all'ingresso illegale dello straniero in altro Stato. E' in tale finalità - ed esclusivamente in essa - che risiede il disvalore della condotta; e, in funzione di essa, il legislatore individua la soglia di punibilità, con anticipazione della tutela, rispetto al momento dell'attraversamento della frontiera."
Altre pronunce di legittimità, nel condivisibile intento di non dilatare oltremisura la portata incriminatrice della norma, hanno invece posto l'accento sull'esigenza che la condotta dell'agente sia connotata anche da un profilo di efficacia lesiva del bene protetto (la stessa Cass. 16.6.2011 n° 27106 sopra citata ha Poiché trattasi di fattispecie a punizione anticipata il baricentro è spostato sulla direzione ed idoneità degli atti"osservato che ").
Ancora più chiaramente, Cass. 8.5.2002 n° 22741 ha statuito che "ad integrare il reato in questione è sufficiente il compimento di attività diretta (ovvero anche solo propedeutica e finalizzata od indirizzata) a favorire l'ingresso di stranieri in Italia in violazione della disciplina legale, non richiedendosi anche il raggiungimento dello scopo ovvero la realizzazione dell'evento perseguito, ferma la necessità, implicita in tutte le fattispecie di cosiddetti "delitti di attentato" od "a consumazione anticipata", dell'idoneità dell'attività posta in essere rispetto al fine".
Questa Corte di Assise ritiene di dovere aderire a questo secondo orientamento, e dunque di dover interpretare la portata precettiva dell'art. 12 nel senso che assumono rilievo penale solo le condotte agevolatrici dotate di astratta idoneità a provocare l'immigrazione illegale dello straniero.
Questo premesso sul piano esegetico, e venendo ai fatti emersi nell'istruttoria dibattimentale, appare evidente che - pur essendo stato indubbiamente raggiunto tra le famiglie H. e K. un accordo di massima per la celebrazione anche di un secondo matrimonio tra un rampollo dei primi (M. E.) e la secondogenita degli altri - detto accordo rimase sempre allo stato larvale, non essendo stata nemmeno prefissata la data in cui il matrimonio sarebbe stato celebrato e la minore avrebbe dovuto trasferirsi nel nostro paese.
Due condotte debbono essere particolarmente esaminate ai fini dell'imputazione che ci occupa.
La prima è quella che si concretizzò nel rilascio da parte del S. R. - a ciò sollecitato dall'H. A. e dall'H. N. - della già più volte citata richiesta di un visto turistico in favore di K. S. e K. Laura falsamente qualificate come sue nipoti.
Qui è facile osservare che il marchingegno immigratorio basato sulla compiacente richiesta del S. non ebbe in concreto alcun seguito, dal momento che gli imputati gli preferirono la strada più sbrigativa dell'introduzione di S. in Italia mediante un falso documento di identità.
Lo stesso P.M. non sembra avere annesso rilievo penale all'attività preparatoria sfociata nella formazione del documento in questione, tanto da non aver sollevato alcuna accusa in proposito a carico della H. N.
La seconda condotta è integrata dall'invito, documentato dalle intercettazioni telefoniche, che l'H. A. rivolse alla K. L. a venire in Italia al seguito di sua figlia S. (Tel. 3 della RIT 3775/10; Tel. 80 della RIT 3781/10).
Si trattò peraltro di un invito di mera cortesia, chiaramente irrealizzabile sul piano pratico (la S. era arrivata e sarebbe ripartita in aereo, onde non si vede come avrebbe potuto condurre seco la giovane Laura, salvo che costei non fosse munita - e nulla oltretutto prova che non lo fosse - di validi documenti per immigrare in Italia).
In conclusione, quindi, l'H. A. non pose mai in essere atti idonei a procurare l'ingresso illegale in Italia della K. L., il cui progetto immigratorio abortì prima ancora di essere messo in esecuzione con la rottura del fidanzamento e la promessa della nubenda ad un altro pretendente.
Favoreggiamento dell'immigrazione di R. M.
Al capo F) di imputazione si contesta infine all'H. A., al di lui fratello M. E. e alla moglie di quest'ultimo D. V. il procurato ingresso illegale in Italia della minorenne macedone R. M.
Va premesso che nessun elemento istruttorio prova che nell'immigrazione illegale di cui ora ci occupiamo abbia avuto un qualche ruolo concorsuale l'H. A., che dovrà quindi essere assolto dall'imputazione de quo per non aver commesso il fatto.
L'addebito è invece chiaramente fondato per il M. e la D. V.
E' infatti assolutamente pacifico, ed è ammesso dallo stesso M., che l'odierna persona offesa fu trasportata in auto nel nostro paese dagli attuali imputati, che si servirono di una sorta di dichiarazione di affido redatta davanti ad un notaio di Skopje dalla madre di costei, R. R., che qualificava falsamente il M. come suo zio.
Come ha spiegato il dirigente dell'Ufficio Stranieri della Questura di Pisa, S. M., in questo caso l'illegalità dell'ingresso della Mirsada non dipese tanto dalla mancanza del visto (sul passaporto di costei risultava infatti un visto di ingresso in area Schengen rilasciato il 25 marzo 2010 dalla Slovenia), quanto dalla invalidità e dalla falsità della dichiarazione di affido, la quale come è noto rappresenta il presupposto indispensabile per l'immigrazione temporanea in Italia di minori non accompagnati dai genitori.
In particolare, detta dichiarazione era invalida perché non legalizzata dall'autorità consolare italiana, e ideologicamente falsa per l'inesistente grado di parentela conferito all'adulto accompagnatore.
Evidente dunque è l'illegalità dell'ingresso della M. in Italia.
Né rileva la circostanza, valorizzata dalla difesa degli imputati, che la minore, una volta comunque pervenuta nel nostro paese, diveniva inespellibile ai sensi dell'art. 19 2° comma lett. a) del D. Lvo 1998 n° 286.
Insegna infatti Cass. 28.1.2008 n° 17305 che "integra il reato di favoreggiamento della permanenza illegale dello straniero nel territorio dello Stato la condotta di chi (..) a nulla rilevando la circostanza che, data la loro età, gli stranieri "favoriti" non possano essere espulsi".
Può aggiungersi ad abundantiam che l'ingresso della M. era illegale anche sotto il profilo della falsa finalità attribuita alla sua visita, presentata come turistica, ma in realtà destinata a permetterne lo stabile insediamento more uxorio nel nostro paese (si veda in argomento Cass. 16.12.2004 n° 9233: "Il reato di favoreggiamento all'ingresso clandestino di cittadini extracomunitari sussiste anche nel caso in cui l'ingresso nel territorio nazionale è avvenuto regolarmente, attraverso il prescritto valico di frontiera, con un valido passaporto e per motivi turistici, ma risulti che in realtà è finalizzato ad una permanenza illegale"; e nello stesso senso Cass. 15.12.2009 n° 2285: "è configurabile il delitto di favoreggiamento illegale dell'immigrazione anche con riferimento a ingressi nel territorio dello Stato dello straniero per finalità diverse da quelle in relazione alle quali quest'ultimo abbia presentato richiesta di visto, mediante false attestazioni o producendo documentazione falsa relativa agli effettivi motivi del soggiorno in Italia").
Tirando le somme dell'esposizione che precede si deve conclusivamente affermare che tutti gli imputati debbono essere dichiarati responsabili del delitto di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina di K. S. - così dovendo essere diversamente qualificati i fatti loro contestati al capo A) - e i soli M. E. e D. V. anche del favoreggiamento dell'immigrazione clandestina di R. M. di cui al capo F).
Veniamo alla quantificazione delle pene.
La prima imputazione rientra a pieno titolo nelle previsioni dell'art. 12 3° comma lett. d) del D. Lvo 1998 n° 286 dal momento che il procurato ingresso illegale della K. fu commesso da più di tre persone in concorso tra loro e mediante uso di documenti falsi.
La fattispecie criminosa ora accennata costituisce chiaramente un reato autonomo e non una circostanza aggravante della fattispecie disciplinata dal 1° comma, con la conseguenza di non essere suscettibile di giudizio di bilanciamento.
Ne fanno fede, da un lato, il fatto che il comma 3 bis dello stesso articolo ha introdotto un'aggravante rispetto ai "fatti di cui al comma 3", così implicitamente qualificando quei fatti come una fattispecie autonoma, impensabile essendo invece la previsione dell'aggravante di una circostanza aggravante.
Da un altro lato, il fatto che il comma 3 ter ha introdotto altre aggravanti rispetto "ai fatti di cui ai commi 1 e 3", così chiaramente conferendo alle previsioni incriminatrici contenute in quei commi pari dignità di autonome fattispecie criminose.
La pena edittale minima prevista per il reato in questione è quella di 5 anni di reclusione e 15.000 euro di multa, e quella pena merita di essere inflitta agli attuali imputati che hanno mostrato un sovrano disprezzo per le leggi che regolano l'immigrazione degli stranieri nel nostro paese, ricorrendo ad ogni genere di sotterfugio (dal falso documento procurato alla K. alla falsa richiesta di visto commissionata al S.) pur di violare a loro piacimento i confini nazionali.
Il reato di cui al capo F), del quale sono responsabili solo i due imputati M. E. e D. V., rientra invece nelle previsioni dell'art. 12 comma 1 essendo venuto meno l'elemento costitutivo tipico delle tre persone e può essere adeguatamente sanzionato con la pena di 1 anno di reclusione e 15.000 euro di multa.
Non sono state dedotte, né questa Corte ne ravvisa l'esistenza, circostanze rilevanti a far concedere agli imputati le attenuanti generiche, che sono anzi da escludere alla luce della protervia con la quale costoro hanno osteggiato il corso delle indagini, culminata nelle feroci minacce di morte e di stupro rivolte al teste C. S. ("ti pianto una pallottola in testa!" "scoperemo tua figlia!").
Può essere disapplicata la recidiva contestata agli imputati, che attiene a reati di tutt'altra indole e non appare significativa di aumentata capacità criminosa ai fini dei fatti oggetto dell'attuale giudizio.
Segue alle condanne degli imputati l'obbligo di pagamento delle spese processuali e di quelle della loro custodia cautelare nonché la loro interdizione in perpetuo dai pubblici uffici e la loro interdizione legale per la durata delle pene detentive loro inflitte.
PQM
P.Q.M.
La Corte di Assise, visto l'art. 530 c.p.p. assolve H. R. e D. I. dall'imputazione di cui al capo B), H. R. dall'imputazione di cui al capo C), H. N., D. I. e D. V. dall'imputazione di cui al capo D), H. A. dall'imputazione di cui al capo E) perché il fatto non sussiste;
assolve H. A. dall'imputazione di cui al capo F) per non aver commesso il fatto.
Visti gli artt. 533 e 535 c.p.p. dichiara M. E., D. V., H. R., D. I., H. N., H. A. colpevoli del reato previsto dall'art. 12 comma 3 lett. d) del D. Lvo 1998 n° 286 - così diversamente qualificati i fatti loro contestati al capo A) - e escluse le recidive contestate li condanna alla pena di cinque anni di reclusione e 15.000 euro di multa ciascuno.
Dichiara altresì M. E. e D. V. colpevoli del reato previsto dall'art. 12 comma 1 del D. Lvo 1998 n° 286 - così diversamente qualificato il fatto loro contestato al capo F) - e li condanna alla pena di un anno di reclusione e 15.000 euro di multa ciascuno, e così complessivamente alla pena di sei anni di reclusione e 30.000 euro di multa ciascuno.
Li condanna ciascuno al pagamento delle spese di custodia cautelare e al pagamento delle spese processuali.
Visti gli artt. 29 e 32 c.p. dichiara tutti gli imputati interdetti in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale per la durata della pena detentiva loro inflitta.
Indica in 15 giorni il termine per il deposito dei motivi.
Pisa, 15 marzo 2013
IL PRESIDENTE
Dr. Luca Salutini
09-06-2013 13:00
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