Commette atti persecutori l'ex moglie che perseguita il marito per soldi, invadendo la vita privata e minacciando lo stesso di morte.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 14 novembre 2012 – 29 aprile 2013, n. 18819
Presidente Zecca – Relatore Micheli
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Cagliari confermava la condanna pronunciata l'08/06/2010 dal G.u.p. del Tribunale di Oristano nei confronti di M..O.: all'imputata veniva addebitato di avere compiuto atti persecutori, di rilievo penale ai sensi dell'art. 612-bis cod. pen., in danno del coniuge S..S. , da cui era separata legalmente. Secondo l'ipotesi accusatola, la donna aveva ripetutamente pedinato il S. , lo aveva raggiunto sul luogo di lavoro ed in contesti privati, gli aveva inviato molteplici sms di contenuto ingiurioso e di minaccia, infine lo aveva diffamato presso parenti e conoscenti: ne era derivato uno stato di ansia e depressione in capo al soggetto passivo, con ripercussioni nella vita lavorativa e di relazione.
La Corte territoriale disattendeva le censure mosse dalla difesa dell'imputata avverso la sentenza di primo grado, confermando il giudizio di attendibilità formulato nei riguardi del denunciante, le cui dichiarazioni avevano trovato riscontro nella deposizione della di lui compagna e nella trascrizione del contenuto di alcuni dei messaggi telefonici ricevuti dal S. . Non riteneva invece significativa la circostanza che l'uomo si fosse determinato a formalizzare una istanza punitiva nei confronti della O. a distanza di quattro anni dal presunto inizio delle molestie, e soltanto dopo che egli stesso era stato denunciato dalla ex moglie per altri fatti: ciò trovava infatti spiegazione nelle risultanze processuali, atteso che l'atteggiamento petulante e invadente dell'imputata era correlato alle sue pretese economiche nei riguardi del coniuge da cui si era separata, con il S. che prima aveva accettato di corrispondere un assegno di mantenimento che eccedeva le di lui possibilità economiche, quindi se lo era visto ridurre sensibilmente dal Tribunale civile senza infine - ma solo negli ultimi due mesi - riuscire a versarlo alla O. , a causa del peggioramento della sua situazione economica (e per questo era stato appunto da lei denunciato).
La Corte di appello riteneva pertanto che proprio quelle continue e pressioni da parte di una donna “fermamente determinata a tormentarlo” e “impegnata esclusivamente per diverse ore della giornata a tormentare il S. per fargli pesare le difficoltà dei figli” avevano indotto l'esponente a rivolgersi alle forze dell'ordine, dinanzi ad una situazione non più concretamente tollerabile. Né poteva intendersi decisiva, al fine di escludere la fondatezza degli addebiti, la circostanza che l'uomo non disponesse di certificazioni mediche attestanti una malattia o prescrizioni di farmaci, giacché per integrare il reato ex art. 612-bis cod. pen. non era necessario che dalla condotta dell'agente fosse derivata una effettiva patologia.
Infine, i giudici di secondo grado reputavano congrua la pena inflitta dal G.u.p. all'esito del rito abbreviato richiesto dalla O. , di cui sottolineavano altresì i precedenti penali plurimi ed anche specifici, indicativi della non occasionalità del comportamento, e tali da non consentire che le venissero concesse le pur invocate circostanze attenuanti generiche.
2. Propone ricorso per Cassazione l'imputata, con atto da lei personalmente sottoscritto.
La O. lamenta inosservanza ed erronea applicazione del citato art. 612-bis, segnalando che la ricostruzione dei fatti operata dalla Corte di appello deporrebbe per l'eventuale configurabilità di un reato contravvenzionale, per violazione dell'art. 660 cod. pen., difettando nel caso in esame qualsivoglia traccia di un perdurante e grave stato di ansia e di paura in cui il S. si sarebbe trovato a versare. La ricorrente, richiamati alcuni contributi della dottrina secondo cui quello stato dovrebbe tradursi in una vera e propria patologia, ricorda come questa Corte abbia già espresso avviso contrario a detta tesi, e non di meno reputa evidente che “l'evento alternativo è un requisito oggettivo della fattispecie criminosa, per il cui accertamento non possono non valere i criteri di accertamento e di rigore dimostrativo che il giudizio penale riserva a tutti gli elementi costitutivi del fatto di reato”. Ad avviso dell'imputata, inoltre, la compagna del S. non potrebbe essere considerata attendibile (richiamando in proposito gli elementi già segnalati nell'atto di appello, senza specificarli di nuovo) e nella sentenza impugnata non vi sarebbe alcuna analisi della tesi difensiva, parimenti sviluppata nel primo gravame, secondo cui nella fattispecie concreta dovrebbe intendersi operante la causa di giustificazione prevista dall'art. 54 cod. pen., in tema di stato di necessità.
3. Con atto depositato il 26/06/2012 nella Cancelleria di questa Corte, il difensore di ufficio dell'imputata ha presentato una memoria, con la quale evidenzia che nel caso in esame non sarebbe emerso - né i giudici di merito ne avrebbero dato contezza - almeno uno dei requisiti richiesti dall'art. 612-bis cod. pen. per potersi dire integrato il reato contestato alla O. , vale a dire la prova che la condotta della ricorrente abbia avuto “l'effetto di provocare disagi psichici, timore per la propria incolumità e quella delle persone care, nonché un pregiudizio alle abitudini di vita”. La Corte di appello menzionerebbe soltanto una non meglio precisata “situazione di costante pressione psicologica”, senza comunque far comprendere da dove la ricorrenza di detta situazione sarebbe stata desunta, né risulta sia stato accertato in occasione del dibattimento di primo grado che il comportamento della O. abbia indotto nel S. uno stato di ansia e di timore per la propria incolumità: in definitiva, come già sostenuto nei motivi di ricorso, nella fattispecie potrebbe al massimo ritenersi provata una contravvenzione ex art. 660 cod. pen..
Considerato in diritto
1. Il ricorso non può trovare accoglimento.
1.1 Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, già a partire dalle prime letture della norma di cui all'art. 612-bis cod. pen., entrata in vigore nel 2009, “un grave e perdurante stato di turbamento emotivo è idoneo ad integrare l'evento del delitto di atti persecutori, per la cui sussistenza è sufficiente che gli atti abbiano avuto un effetto destabilizzante della serenità e dell'equilibrio psicologico della vittima” (Cass., Sez. V, n. 8832 del 01/12/2010, Rovasio, Rv 250202). Coerentemente, ne deriva che per ravvisare il delitto de quo “non si richiede l'accertamento di uno stato patologico, ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori - e nella specie costituiti da minacce e insulti alla persona offesa, inviati con messaggi telefonici o via internet o, comunque, espressi nel corso di incontri imposti - abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell'equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 612-bis cod. pen. non costituisce una duplicazione del reato di lesioni (art. 582 cod. pen.), il cui evento è configurabile sia come malattia fisica che come malattia mentale e psicologica” (Cass., Sez. V, n. 16864 del 10/01/2011, C, Rv 250158).
Nel caso oggi portato all'attenzione di questa Corte, non vi è dunque alcuna inosservanza od erroneità nell'applicazione della norma sostanziale, né si ravvisano vizi della motivazione della sentenza impugnata: i giudici di merito hanno infatti evidenziato come il S. avesse sufficientemente descritto, anche con il conforto della testimonianza della compagna, lo stato di ansia in cui si era trovato a versare per effetto delle condotte della ex moglie, stato che non risulta pertanto del tutto indeterminato od apoditticamente dato per ammesso, come si sostiene invece nel ricorso. Né sarebbe stato necessario che quella condizione risultasse da certificazioni mediche.
Va altresì ricordato che, con approccio ermeneutico parimenti consolidato, si è affermato che “il delitto di atti persecutori, cosiddetto stalking (art. 612-bis cod. pen.), è un reato che prevede eventi alternativi, la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea ad integrarlo; pertanto, ai fini della sua configurazione non è essenziale il mutamento delle abitudini di vita della persona offesa, essendo sufficiente che la condotta incriminata abbia indotto nella vittima uno stato di ansia e di timore per la propria incolumità” (Cass., Sez. V, n. 29872 del 19/05/2011, L, Rv 250399). Ergo, una volta acquisita ragionevole certezza circa lo stato di ansia sofferto dal S. e da lui addotto, la Corte territoriale non aveva alcuna necessità di accertare elementi di fatto ulteriori.
1.2 Del tutto inconsistente è poi la censura della ricorrente circa la mancata analisi da parte della Corte cagliaritana del motivo di appello afferente presunto stato di necessità in cui ella si sarebbe trovata ad agire: si trattava infatti di un motivo di gravame ictu oculi manifestamente infondato, atteso che giammai sarebbe stato possibile ritenere che una serie di comportamenti molesti come quelli descritti dal denunciante fosse giustificata dalla presunta prospettiva di danni gravi alla persona (della O. , o dei suoi figli). A tutto voler concedere, una donna che si trovi in difficoltà per la mancata corresponsione dell'assegno di mantenimento da parte dell'ex coniuge, laddove la condotta di quest'ultimo debba ritenersi ingiusta, potrà forse invocare l'attenuante della provocazione per eventuali contumelie pronunciate come reazione immediata, ma non certo pretendere di essere stata necessitata a prendere a male parole, minacciare o screditare in pubblico chi non ha provveduto a versarle il dovuto.
Peraltro, non può neppure ritenersi che la Corte di appello abbia effettivamente omesso di analizzare quel profilo di doglianza, avendo anzi sottolineato che, “anche a voler ritenere insufficiente il contributo del S. , qualunque eventuale pretesa economica non giustificherebbe in alcun modo il comportamento dell'imputata, la sua inutile petulanza, l'invadenza nella vita privata dell'ex coniuge, le minacce, anche di morte, il tutto con tale frequenza da creare gravi problematiche alla persona offesa”.
2. Il rigetto del ricorso comporta la condanna della O. al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
30-04-2013 23:20
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