Articolo 48 c.p.: forma di reità mediata. Autoriciclaggio.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II PENALE - SENTENZA 27 febbraio 2013, n.9226 - Pres. Petti - est. Rago
FATTO
1. Con sentenza pronunciata in data 10/05/2011, il giudice dell'udienza preliminare del tribunale di Cuneo dichiarava non doversi procedere nei confronti di D.B.P. per il reato di riciclaggio di denaro proveniente dalla bancarotta del gruppo 'S.'.
Il giudice, perveniva alla suddetta conclusione in quanto il D.B. risultava imputato - in concorso con altre persone - del reato di bancarotta fraudolenta distratti va del gruppo S.: di conseguenza, non essendo configurabile il reato di auto riciclaggio, all'imputato non poteva, contemporaneamente, essergli addebitato il reato presupposto (bancarotta) ed il riciclaggio del denaro proveniente dal suddetto reato presupposto.
2. Avverso la predetta sentenza, il P.M. ha proposto ricorso per cassazione deducendo violazione dell'art. 48 c.p..
Sostiene il ricorrente che il D.B., in realtà, era stato imputato del reato di riciclaggio per avere ingannato una terza persona, ed esattamente tale S.G. (nata nel *1915*), inducendola a sottoscrivere una polizza grazie alla quale aveva riciclato il denaro proveniente dalla bancarotta: da qui, l'imputazione di concorso in riciclaggio come autore mediato ex art. 48 c.p..
Ad avviso del ricorrente 'L'art. 48 c.p., esprime un'ulteriore regola generale di responsabilità penale posta significativamente al di fuori delle disposizioni sul concorso di persone ... il provvedimento impugnato propone un'interpretazione abrogante dell'art. 48 c.p., che diviene una puntualizzazione casistica della regola generale dell'art. 111 c.p.. Si tratta dell'interpretazione abrogante fatta propria dalla prassi ordinaria che, come effetto pratico, che nel nostro sistema giuridico il livello penale di contrasto al reimpiego di beni di provenienza illecita nei circuiti legali sia limitato quasi esclusivamente alle vetture ed ai motocicli con numero di telaio abraso o alterato. Ma, l'art. 48 c.p., è fonte autonoma di responsabilità penale, con disciplina diversa dall'art. 111 c.p.. E' una clausola generale che manca dell'aumento di pena previsto dalla disposizione analoga in tema di concorso di persone. L'autore mediato ex art. 48 c.p., nel sistema italiano risponde del fatto di reato commesso dal soggetto indotto e non può invocare a esclusione della sua punibilità condizioni personali previste per condotte monosoggettive o dalle regole generali sul concorso di persone. Con la scelta interpretativa fatta propria dal provvedimento impugnato il soggetto, per il suo coinvolgimento nel fatto originario, risulta legittimato a inquinare impunemente il sistema economico legale a fini di riciclaggio mediante condotte ulteriori e successive rispetto al fatto originario. La clausola di non punibilità prevista dal Legislatore per evitare la duplicazione di responsabilità per la condotta del soggetto agente rispetto al primo fatto, non può valere a garantirgli una patente di impunità per le condotte successive e distinte che coinvolgano altri soggetti, al di fuori delle ipotesi di ordinario concorso di persone nel reato. Non si tratta di una scelta necessitata da principi superiori o di garanzia di diritti fondamentali. L'art. 53 c.p., nel nostro ordinamento, scriminante sull'uso legittimo delle armi, è soggetto ad una - corretta - interpretazione 'abrogante' nella parte in cui si richiede la sussistenza del requisito della proporzionalità. Interpretazione sistematica, ma di natura analogica in materia penale.
Interpretazione costituzionalmente orientata e comunemente accettata.
La scelta di non punibilità dell'autore del reato presupposto nelle condotte di riciclaggio (o di ricettazione) è scelta contingente, come dimostrato non solo dallo stesso disegno di legge sull'autoriciclaggio in Italia citato nel provvedimento impugnato, ma anche dal fatto che altri ordinamenti (es. Svizzera e Regno Unito) non hanno problemi a contestare come riciclaggio le condotte successive ed ulteriori poste in essere dall'autore del primo fatto di reato'.
DIRITTO
1. Il ricorso è infondato per le ragioni di seguito indicate.
2. Secondo la tradizionale giurisprudenza di questa Corte di legittimità, l'art. 48, contempla non già una forma di concorso nel reato, inconcepibile in quanto manca nell'autore materiale del reato, vittima dell'inganno, l'elemento psicologico necessario perchè si possa considerarlo concorrente nel reato, bensì una forma di reità mediata, ossia un caso particolare di esclusione della punibilità con sostituzione della responsabilità dell'autore mediato ossia di colui che si serva per commettere un reato (c.d. decipiens: autore mediato), di altro soggetto come strumento (c.d. deceptus: autore immediato), inducendolo in errore mediante artificio od altro mezzo atto a sorprenderne la buona fede ed a determinarlo a commettere il fatto reato: ex plurimis Cass. 750/1967 riv 105464; Cass. 1653/1973 riv 126712; Cass. 15481/2004 riv 229240; Cass. 27133/2006 riv 235010.
E', peraltro, ben noto, che la teoria - fatta propria dalla giurisprudenza di questa Corte - che propende a ritenere l'art. 48 c.p., un'ipotesi a sè stante nell'ambito della problematica del concorso di persone, è contrastata dalla dottrina maggioritaria secondo la quale, invece, l'art. 48 c.p., costituisce un'ipotesi di concorso nel reato alla quale, quindi, si applicano le relative regole.
Si è, infatti, osservato che la teoria dell'autore mediato, mutuata dalla dottrina tedesca che fece ricorso al concetto di 'signoria finalistica sul fatto' per coprire le lacune di quel sistema, non ha alcuna ragion d'essere nel sistema giuridico italiano che ha esplicitamente previsto e disciplinato l'ipotesi di colui che (decipiens) traendo in inganno altri (deceptus) lo ha determinato a commettere un reato.
Le conseguenze pratiche dall'accogliere l'uno o l'altro inquadramento sistematico sono, sostanzialmente, due:
a) l'applicabilità o meno delle norme sul concorso di persone;
b) refluenza nell'ambito della disciplina del tentativo: infatti, per i fautori dell'autore mediato, la punibilità è anticipata al momento in cui il decipiens compie l'attività ingannatoria anche se questa poi non ha alcun seguito in quanto il deceptus non compie alcun atto; al contrario, per l'altra teoria, nella suddetta ipotesi è applicabile la sola misura di sicurezza ex art. 115 c.p., comma 2, in quanto il tentativo è configurabile solo quando il deceptus compia atti diretti in modo non equivoco a commettere il delitto.
Va osservato, infine, che, al di là della formula tralaticia adoperata dalla giurisprudenza nella descrizione della struttura dell'art. 48 c.p., in realtà, poi, nei rari casi in cui si è posto il problema delle conseguenze pratiche dell'accogliere l'una o l'altra tesi, di fatto, si è finito per optare per la teoria della concorsualità: infatti, ad es., proprio in tema di tentativo, è stato ritenuto che 'presupposto della responsabilità dell'autore mediato è che un fatto costituente reato sia stato commesso materialmente, nella forma del reato consumato o di quello tentato, dall'autore immediato, onde è sempre all'azione di quest'ultimo che bisogna aver riguardo per stabilire se essa integri la fattispecie di un determinato delitto consumato o tentato. Pertanto, nessuna rilevanza penale può attribuirsi all'azione di un soggetto (salvo che essa non costituisca di per sè reato) che abbia tentato di determinare altro soggetto a commettere un reato, mediante atti idonei diretti ad indurlo in errore, ove non si sia verificata l'induzione in errore e per effetto di questa non sia stata realizzata, almeno nella forma del tentativo, la fattispecie legale del reato ad opera dell'autore immediato': Cass. 2097/1971 Rv.
120883.
Ed ancora, a livello processuale, si è stabilito che 'non da luogo a violazione del principio di correlazione fra accusa e sentenza (art. 521 c.p.p.) ed è quindi legittima la riqualificazione giuridica del fatto, originariamente contestato all'imputato per avere tratto in inganno e indotto in errore gli autori della condotta di falso, (artt. 48 e 479 c.p.), ai sensi invece dell'art. 110 c.p., ossia come commesso a titolo di concorso personale con gli stessi autori' e ciò perchè, non vi è dubbio che il comportamento del determinatore dell'altrui inganno 'realizzi un particolare e qualificato comportamento di induzione alla commissione dell'illecito, il quale è del tutto compatibile con il contributo sotteso dalla formula dell'art. 110 c.p.': Cass. 27133/2006 Rv. 235010; Cass. 35884/2009 riv 244920.
Come si può notare, la giurisprudenza, pare adoperare il sintagma 'autore mediato' a fini meramente descrittivi dell'istituto disciplinato dall'art. 48 c.p., rifuggendo, pertanto, da rigidi inquadramenti dogmatici, attenendosi al dato normativo per la soluzione delle diverse questioni sorte in specie, in ordine ai rapporti fra l'art. 48 e le ipotesi di cui all'art. 116 c.p. (Cass. 15481/2004 riv. 229240) e art. 117 c.p. (ex plurimis Cass. 36166/2004 riv. 229948; Cass. 11413/1985 riv 171232), e finendo per accogliere, di fatto, la tesi della concorsualità nel caso del tentativo (Cass. 2097/1971 Rv. 120883) e della violazione del principio di correlazione fra accusa e sentenza (Cass. 27133/2006 Rv. 235010).
3. Si è brevemente accennato alla suddetta problematica solo al fine di evidenziare che, qualunque tesi si voglia accogliere, un punto è pacifico ed indiscusso: il decipiens risponde del comportamento tenuto dal deceptus perchè, sotto il profilo fattuale, è stato lui che ha ordito, ideato e promosso il reato commesso, poi, materialmente, dalla persona ingannata.
La responsabilità penale, quindi, deriva, per il decipiens, da quella stessa constatazione di ordine naturalistico che sta alla base del concorso dei reati, ossia dal fatto che della commissione di un reato rispondono tutti coloro che abbiano contribuito alla determinazione dell'evento apportando ad esso un contributo causale:
di conseguenza, risponde non solo colui che ha materialmente eseguito il reato ma anche colui che lo abbia ideato ed abbia determinato altri a commetterlo pur senza parteciparvi materialmente. All'interno di tale previsione generale (art. 110 c.p.), la legge, poi, con una fitta trama di norme (artt. 111 e 112 c.p., art. 113 c.p., comma 2, artt. 114, 116, 117, 47 e 48 c.p., art. 51 c.p., commi 2 e 4, art. 54c.p., comma 3, art. 86 c.p.) prevede, in via eccezionale, da una parte, esenzioni di responsabilità per l'autore materiale, e dall'altra, stabilisce se e in che termini, in ipotesi particolari, i concorrenti rispondano del reato commesso.
4. Tanto premesso, si può, ora, riprendere il filo del discorso e ritornare alla fattispecie in esame.
4.1. In punto di fatto, come si è detto, sono pacifici due dati: 1) il D.B. è imputato del reato di bancarotta in concorso con altri soggetti; b) il D.B., ingannando tale S.G. (nata nel *1915*) ed inducendola a sottoscrivere una polizza, riciclò parte del denaro proveniente dalla bancarotta.
Ora, è indubbio che, qualunque delle due tesi illustrate (supra p.2) si voglia seguire, il D.B., in via astratta, sarebbe sicuramente punibile, ex combinato disposto degli artt. 48 - 648 bis c.p., del reato di riciclaggio, avendo posto in essere (come decipiens) una tipica - quasi scolastica - fattispecie di riciclaggio a mezzo di un terzo tratto in inganno (deceptus: S.G.).
Ma, il D.B. si è reso responsabile anche del delitto di bancarotta, ossia del delitto presupposto del riciclaggio: resta, quindi, da verificare come sia possibile configurare la responsabilità del D.B. in presenza della clausola di esonero della responsabilità per il delitto presupposto (nella specie:
bancarotta) prevista nell'incipit dell'art. 648 bis c.p..
Sennonchè, a questo proposito, e cioè quando si arriva al vero punctum dolens di tutta la questione, la doglianza del ricorrente, diventa anodina e, per alcuni versi, poco comprensibile: sul punto non resta che rinviare alla lettura del brano contenuto nel ricorso e che, per evitare fraintendimenti, si è preferito ritrascrivere integralmente (cfr supra, parte narrativa, p.2).
4.2. La doglianza del ricorrente, si snoda, sostanzialmente, attraverso i seguenti passaggi:
a) 'l'art. 48 c.p., è fonte autonoma di responsabilità penale, con disciplina diversa dall'art. 111 c.p.';
b) 'l'autore mediato ex art. 48 c.p., nel sistema italiano risponde del fatto di reato commesso dal soggetto indotto e non può invocare a esclusione della sua punibilità condizioni personali previste per condotte monosoggettive o dalle regole generali sul concorso di persone';
c) 'la clausola di non punibilità prevista dal Legislatore per evitare la duplicazione di responsabilità per la condotta del soggetto agente rispetto al primo fatto, non può valere a garantirgli una patente di impunità per le condotte successive e distinte che coinvolgano altri soggetti, al di fuori delle ipotesi di ordinario concorso di persone nel reato';
d) 'L'articolo 53 c.p. nel nostro ordinamento, scriminante sull'uso legittimo delle armi, è soggetto ad una - corretta - interpretazione abrogante nella parte in cui si richiede la sussistenza del requisito della proporzionalità. Interpretazione sistematica, ma di natura analogica in materia penale. Interpretazione costituzionalmente orientata e comunemente accettata'.
4.3. Ora, sfugge a questa Corte come il ricorrente, partendo dalle premesse di cui ai punti sub a - b, possa giungere alla conclusione (sub c) secondo la quale 'la clausola di non punibilità prevista dal Legislatore non può valere a garantirgli una patente di impunità per le condotte successive e distinte che coinvolgano altri soggetti'.
In realtà, la suddetta conclusione, ove la si valuti con i principi della logica, risulta affetta da due evidentissime fallacie:
- una petizione di principio in quanto da per scontato - con un ragionamento circolare - proprio il quid demonstrandum;
- una fallacia che gli studiosi di logica classificano come fallacia ad populum, che si ha in tutti quei casi in cui una determinata tesi è discussa non sulla base di argomenti di natura razionale ma facendo ricorso a luoghi comuni e di facile impatto emotivo che, essendo di natura irrazionale, non sono nè verificabili nè falsificabili secondo il noto ed ormai unanimemente condiviso criterio valutativo enunciato da uno dei più noti ed autorevoli filosofi della scienza del novecento: il che è quanto ha fatto il ricorrente che, dopo aver posto le premesse di cui ai punti sub a - b, con un evidente salto logico, ha invocato la punibilità dell'imputato per il commesso reato di autoriciclaggio paventandone una 'patente di impunità' e, quindi, facendo ricorso ad un argomento metagiuridico - di evidente impatto emotivo - al quale è sottesa un'interpretazione abrograns dell'incipit dell'art. 648 bis c.p., fondata su una sorta di 'giustizia sostanziale' de iure condendo. Ma si tratta di un ragionamento che non ha e non può avere alcuna cittadinanza in ambito giuridico nel quale possono essere fatti valere e discussi solo argomenti de iure condito.
Infine, poco comprensibile e confuso deve ritenersi il richiamo all'art. 53 c.p., e l'affermazione secondo la quale 'la scelta di non punibilità dell'autore del reato presupposto nelle condotte di riciclaggio (o di ricettazione) è scelta contingente ...'.
4.4. La tesi proposta dal ricorrente, è, pertanto, priva del minimo fondamento giuridico.
Tuttavia, al fine di evitare equivoci, anche a costo di apparire pedanti e pedagogici, si ritiene opportuno ribadire alcuni fondamentali ed elementari principi di diritto.
La regola principale prevista dall'art. 648 bis c.p., è che chiunque sostituisca o trasferisca denaro in modo da ostacolare l'identificazione della provenienza, è responsabile del delitto di riciclaggio 'fuori dei casi di concorso nel reato' presupposto.
Ciò significa, quindi, che colui che ha commesso il reato presupposto non può essere ritenuto punibile anche del reato di riciclaggio, essendo del tutto irrilevanti le modalità - sia che esse siano dirette sia che lo siano, ex art. 48 c.p., per interposta persona per avere l'agente tratto in inganno un terzo autore materiale del delitto - con le quali sostituisca o trasferisca il provento del reato presupposto: questo è quanto dispone l'art. 648 bis c.p., e a tale norma occorre attenersi, almeno finchè non venga introdotto il reato di autoriciclaggio.
Infatti, il principio basilare su cui si fonda tutto il diritto penale è il (secolare) principio di legalità di cui all'art. 1 c.p., principio che non può certo essere obnubilato dalla singolare teoria del ricorrente che - al fine di evitare che all'imputato venga, a suo dire, garantita 'una patente di impunità per le condotte successive e distinte che coinvolgano altri soggetti' - finisce, in modo surrettizio, di abrogare, di fatto, la clausola di esonero di responsabilità prevista dall'art. 648 bis c.p., e, quindi, di eludere l'art. 1 c.p..
5. In conclusione, il ricorso dev'essere rigettato alla stregua del seguente principio di diritto: 'colui che abbia commesso il reato presupposto non può essere ritenuto punibile anche del reato di riciclaggio per avere sostituito o trasferito il provento del reato presupposto: infatti, non essendo configurabile il delitto di autoriciclaggio, diventano del tutto irrilevanti, ai fini giuridici, le modalità con le quali l'agente abbia commesso l'autoriciclaggio, sia che il medesimo sia avvenuto con modalità dirette sia che sia avvenuto, ex art. 48 c.p., per interposta persona e cioè per avere l'agente tratto in inganno un terzo autore materiale del riciclaggio'.
P.Q.M.
RIGETTA il ricorso.
23-04-2013 22:42
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