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Sentenza

Voyeurismo.Non ha rilevanza penale di condotta concorrente di una violenza sessuale posta in essere da altri, salvo che l
Voyeurismo.Non ha rilevanza penale di condotta concorrente di una violenza sessuale posta in essere da altri, salvo che l
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE , SENTENZA 28 settembre 2011 n. 35150 Pres. De Maio – est. Rosi

Svolgimento del processo

 

La Corte d'Appello di Roma con sentenza emessa il 13 luglio 2010, in parziale riforma della sentenza all'esito di rito abbreviato emessa dal G.U.P. presso il Tribunale di Velletri del 15 luglio 2007, ha condannato E.A.M., escludendo la continuazione, alla pena di anni quattro e mesi otto di reclusione, e ha confermato la condanna di F.L. alla pena di anni otto di reclusione, per i reati di violenza sessuale commessi, unitamente ad altre persone, in danno di D.G.M., minore di anni dieci (art. 609 bis c.p., comma 1 e comma 2, n. 1, art. 609 ter c.p., ult. cpv., art. 609 quater c.p., ult. cpv.) fatti commessi in (OMISSIS).

Avverso la sentenza hanno proposto ricorso gli imputati, a mezzo dei propri difensori chiedendone l'annullamento per i seguenti motivi;

Quanto all'imputato E.A.:

1. Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in riferimento all'art. 1 c.p., in quanto l'imputato sarebbe stato condannato solo per aver guardato altri commettere violenza su M..

2. Mancata motivazione sul motivo di appello relativo all'assenza di prova circa la presenza dell'imputato nella stanza dove veniva compiuta la violenza sessuale su M. da parte di altri.

3. Violazione dell'art. 606 c.p.p., lett. e) per mancanza di motivazione, atteso che la sentenza impugnata rappresenta una mera riproduzione della decisione di primo grado.

4. Manifesta illogicità della motivazione, per travisamento del fatto: i giudici di secondo grado avrebbero dedotto che l'imputato, assistendo alla scena della violenza sessuale, ne provasse soddisfazione erotica.

5. Illogicità della motivazione per contrasto tra le argomentazioni del contesto motivazionale e la realtà processuale: la mamma del bambino aveva riferito che solo in una circostanza l' E.A. era entrato in casa sua e lo stesso M., nell'unico passaggio delle sue dichiarazioni, ove aveva fatto riferimento al fatto che l'imputato guardava mentre egli subiva violenza, ha riferito che l'imputato si era appartato con la madre in un'altra stanza.

Quanto all'imputato F.:

6. Difetto di motivazione, in quanto i giudici di appello non avrebbero chiarito le ragioni di attendibilità delle dichiarazioni del minore nonostante il ritardo dell'accusa avanzata dallo stesso nei confronti del F.. Inoltre analogo difetto di motivazione attiene alla descrizione somatica del F. stesso.

 

Motivi della decisione

 

1. Va premesso che nel caso in cui le sentenze di primo e secondo grado concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente e forma con essa un unico complessivo corpo argomentativo (cfr. Sez. 4, n. 15227 dell'11/4/2008, Baretti, Rv. 239735; Sez. 6, n. 1307 del 14/1/2003, Delvai, Rv. 223061). Tale integrazione tra le due motivazioni si verifica allorchè i giudici di secondo grado abbiano esaminato le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione di primo grado (Cfr. la parte motiva della sentenza Sez. 3, n. 10163 del 12/3/2002, Lombardozzi, Rv. 221116).

Questo Collegio riafferma questo principio e precisa che l'integrazione è ben possibile nel caso di specie, dove la sentenza di appello ha richiamato per relationem la decisione di primo grado in riferimento alla ricostruzione in punto di fatto, all'analisi delle risultanze probatorie, esprimendo la propria condivisione per le considerazioni valutative e l'applicazione dei principi di diritto esposti, ma ha anche sviluppato una propria autonoma argomentazione, all'esito dell'esame delle censure avanzate dagli appellanti, confermando il giudizio di piena attendibilità della testimonianza del minore, alla luce anche degli elementi probatori di riscontro dei fatti e della tenuta logica della ricostruzione dei gravi abusi sessuali commessi.

Come è noto, in tema di sindacato del vizio della motivazione, il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, ma quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre. Pertanto, "la denunzia di minime incongruenze argomentative o l'omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione (ma che non siano inequivocabilmente muniti di un chiaro carattere di decisività), non possono dar luogo all'annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto" (Cfr.Sez. 2, n. 18163 del 6/5/2008, Ferdico, Rv. 239789). Di contro, solo esaminando il compendio probatorio nel suo complesso, all'interno del quale ogni elemento è stato contestualizzato è possibile verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi, oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell'impianto argomentativo della motivazione. I giudici di merito hanno fatto buon governo dei principi di diritto affermati in materia di testimonianza della persona offesa minorenne nei reati sessuali: è ben possibile, per giurisprudenza costante, che il giudice tragga il proprio convincimento circa la responsabilità dell'imputato anche dalle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre che sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità e senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all'art. 192 c.p.p., commi 3 e 4 che richiedono la presenza di riscontri esterni (cfr., per tutte, Sez. 1, n. 29372 del 27/7/2010, Stefanini, Rv. 248016). In particolare, per i minori è necessario che l'esame della credibilità sia onnicomprensivo e tenga conto di più elementi quali l'attitudine a testimoniare, la capacità a recepire le informazioni, ricordarle e raccordarle, la qualità e natura delle dinamiche familiari e dei processi di rielaborazione delle vicende vissute (Così Sez.3, n. 29612 del 27/7/2010, P.C. in proc. R. e altri., Rv.247740).

2. La decisione impugnata, quindi, che ha confermato le valutazioni di merito espresse in primo grado, con motivazione congrua e priva di smagliature logiche, è stata fondata sulle dichiarazioni della parte offesa intrinsecamente ed estrinsecamente attendibili, tenuto conto della consulenza tecnica espletata sul bambino, dei risultati dell'incidente probatorio e dei riscontri medici circa le violenze sessuali subite. Il bambino ebbe ad individuare, indicando i nomi e soprannomi, i soggetti che, frequentando l'abitazione nella quale viveva con la mamma ed il P. (che egli chiamava papà), "fecero i giochi" con lui, come faceva il P. stesso ed i giudici di merito hanno fornito una motivazione più che congrua sul fatto che il F. non sia stato indicato sin dalla prima fase delle dichiarazioni rese dal minore, posto che le rivelazioni degli abusi ebbero luogo solo dopo che il bimbo fu collocato presso una casa famiglia in seguito a vicende di violenza occorse ai danni della di lui madre. Ugualmente è stata fornita una logica argomentazione in ordine alle lamentate discrasie della descrizione dell'imputato F. che sarebbero evidenziagli nelle dichiarazioni del bimbo (posto che la valutazione dell'altezza fatta da un bambino non può che presentare caratteristiche di relatività) ed alla mancata rilevazione delle macchie di vitiligine che affliggeva l'imputato (non dovendosi necessariamente ritenere che l'uomo di spogliasse integralmente durante la perpetrazione delle violenze). Del resto l'indicazione della persona del F. come uno dei frequentatori dell'abitazione ai fini degli incontri sessuali anche con il figlio è stata fornita anche dalla madre del piccolo M., anch'essa imputata nel processo e nel frattempo deceduta. Pertanto la lamentata mancanza di motivazione censurata dal F. non sussiste ed il ricorso dallo stesso proposto risulta infondato.

3. Risulta parimenti infondato, per le ragioni sopraesposte relative alla ammissibilità di una motivazione per relationem, il terzo motivo di ricorso avanzato dal ricorrente E.A..

Per quello che attiene alla presunta mancanza di motivazione sulla prova relativa alla presenza dell'imputato E.A. nel momento della consumazione della violenza sessuale sul minore compiuta dal F. (censurata con i motivi di cui ai nn. 2 e 5 del ricorso dell' E.A.), deve parimenti essere evidenziato come i giudici di merito abbiano ritenuto acclarata tale presenza nella casa della D. G. sulla base delle dichiarazioni rese dal piccolo M. (che il perito ha riconosciuto pienamente capace di testimoniare) in sede di incidente probatorio: del resto tale presenza fu anche confermata dalle dichiarazioni della stessa madre del bimbo.

4. Risulta invece fondata la residua censura relativa all'illogicità della motivazione per travisamento del fatto sulla valutazione della condotta posta in essere dall'imputato E.A., nell'unica occasione riconosciuta dalla Corte, condotta che è stata ritenuta concorrente con l'abuso sessuale perpetrato dal F..

5. Il tema sollevato attiene alla differenza tra condotta concorrente nel reato e mera connivenza non punibile.

La dottrina ha analizzato la situazione della "presenza inerte" nel luogo e nel momento in cui un reato viene perpetrato: quando non sussiste un obbligo giuridico di impedire l'evento, tale inerzia non è punibile se non si concretizza in un contributo significativo; è stato infatti ritenuto da parte della dottrina che la presenza fisica durante le fasi di perpetrazione del reato potrebbe integrare una forma di partecipazione psichica e quindi di concorso morale nel reato, quando abbia costituito, concretamente, uno stimolo ed una rassicurazione per l'esecutore, seppure altri studiosi hanno escluso che sia sufficiente la sola derivazione di un sentimento di sicurezza per chi delinque, per qualificare come condotta partecipativa la mera presenza, seppure la stessa possa essere valutata come manifestazione di compiacimento per quanto venga ad essere commesso. Anche la giurisprudenza di legittimità ha affrontato il tema da molto tempo, definendo come "connivenza" la situazione in cui un soggetto assista passivamente alla perpetrazione di un reato che avrebbe la possibilità, ma non il dovere giuridico di impedire, magari con adesione interna all'altrui condotta penalmente rilevante: tale presenza non reca alcun contributo alla commissione del reato; è stato infatti precisato che mentre la connivenza "postula che l'agente mantenga un comportamento meramente passivo", la partecipazione deve manifestarsi in "forme di presenza" che agevolino la condotta illecita, "anche solo assicurando all'altro concorrente stimolo all'azione o un maggior senso di sicurezza nella propria condotta, palesando chiara adesione alla condotta delittuosa". (cfr.Sez. 6, n. 9930 del 3/6/1994, Campostrini, Rv. 199162): è necessario quindi un contributo causale, seppure in termini minimi "di facilitazione della condotta delittuosa mentre la semplice conoscenza o anche l'adesione morale, l'assistenza inerte e senza iniziative a tale condotta non realizzano la fattispecie concorsuale". (Cfr. Sez. 4, n. 3924 del 5/2/1998, Brescia e altri, Rv. 210638: nella specie la S.C. aveva escluso che integri concorso la mera presenza in casa o l'essere assiduo frequentatore della casa in cui era stato consumato un reato di cessione di stupefacenti).

Parimenti è stato affermato che "non costituisce condotta di partecipazione - per difetto dell'elemento oggettivo e di quello soggettivo del reato - il comportamento di chi, sulla diretta richiesta del destinatario di pretese estorsive interessato a trattare una dilazione dei pagamenti impostigli da una organizzazione criminale, si limiti ad accompagnare presso la vittima un esponente di detta organizzazione ed assista in silenzio al conseguente colloquio" (vedi Sez. 6, n. 6250 del 17/10/2002, Emmanuello, Rv.225926.) Peraltro, diversamente, è stato precisato che la partecipazione morale può essere configurata quando il mantenimento di un atteggiamento di "non intervento", in virtù di altre risultanze probatorie, assuma il significato di vera e propria adesione all'altrui azione criminosa, con conseguente rafforzamento della volontà dell'esecutore materiale (cfr. Sez. 5, n. 2 del 22/11/1994, Sbrana e altro, Rv. 200310) ed agevolazione della sua opera, "sempre che il concorrente morale si sia rappresentato l'evento del reato ed abbia partecipato ad esso esprimendo una volontà criminosa uguale a quella dell'autore materiale" (così Sez. 1, n. 12089 dell'11/10/2000, Moffa e altri, Rv. 217347). Questo perchè il concorso di cui all'art. 110 c.p. richiede "una condotta volontaria di rafforzamento, un contributo causale, materiale o psicologico che abbia consentito una più agevole commissione del delitto, stimolando o rafforzando il proposito criminoso del concorrente ed un'incidenza nel determinare il fatto illecito nella psiche dell'esecutore materiale." (in tal senso, Sez. 6, n. 61 del 26/11/2002, Delle Grottaglie, Rv. 222976, in materia di concorso in detenzione di sostanza stupefacente, conforme ad altri precedenti specifici sul tema). Più recentemente è stato precisato che la condotta di concorso morale deve manifestarsi in un comportamento esteriore che arrechi un contributo apprezzabile alla realizzazione del delitto, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l'agevolazione dell'opera degli altri compartecipi e che il partecipe, per effetto della sua condotta, idonea a facilitarne l'esecuzione, abbia aumentato la possibilità di produzione del fatto illecito (cfr. Sez. 5, n. 21082 del 13/4/2004, Terreno, Rv. 229200).

6. Da questa disamina emerge con chiarezza che è compito del giudice del merito indicare il rapporto di causalità efficiente tra l'attività incentivante del concorso morale e quella posta in essere dall'autore materiale del reato, in quanto la semplice presenza inattiva od anche la sola connivenza, oppure il non aver impedito la consumazione del reato (qualora non sussista l'obbligo giuridico di impedire l'evento) non costituiscono concorso morale.

Così, correttamente, è stato precisato che "in tema di detenzione illecita di sostanze stupefacenti nella casa coniugale, deve essere escluso il concorso del coniuge ex art. 110 c.p. in ipotesi di semplice comportamento negativo di quest'ultimo che si limiti ad assistere passivamente alla perpetrazione del reato e non ne impedisce od ostacola in vario modo la esecuzione, dato che non sussiste in tale caso un obbligo giuridico di impedire l'evento (art. 40 c.p., comma 2), giacchè il solo comportamento omissivo di mancata opposizione alla detenzione in casa di droga da parte di altri non costituisce segno univoco di partecipazione morale. Di contro, per la configurazione del concorso, è sufficiente la partecipazione all'altrui attività criminosa con la volontà di adesione, che può manifestarsi in forme agevolative della detenzione, consistente nella consapevolezza di apportare un contributo causale alla condotta altrui già in atto, assicurando all'agente una certa sicurezza ovvero garantendo, anche implicitamente, una collaborazione in caso di bisogno, in modo da consolidare la consapevolezza nell'altro coniuge di poter contare su una propria attiva collaborazione (La Corte ha ritenuto, nella specie, il dolo del concorso nel reato da parte del coniuge, per la collocazione dello stupefacente in piena vista nella stanza da letto, per il prelievo della droga da parte del coniuge e la consegna agli agenti operanti con occultamento sulla persona della maggior quantità possibile della sostanza per sottrarla al sequestro)" (Sez. 6, n. 9986 del 20/05/1998, Costantino e altro, Rv. 211587).

7. Le problematiche della connivenza nei reati sessuali sono, invero, complicate dalla diversa configurabilità del concorso di persone in tali reati, ossia all'applicabilità dell'art. 110 c.p., rispetto alla fattispecie della violenza sessuale di gruppo.

A tale proposito, la giurisprudenza ha affermato che a seguito della tipizzazione della fattispecie di violenza sessuale di gruppo, "il concorso eventuale di persone nel reato di violenza sessuale è divenuto configurabile solo nelle forme dell'istigazione, del consiglio, dell'aiuto o dell'agevolazione da parte di chi non partecipi materialmente all'esecuzione del reato stesso" (cfr. Sez. 3, n. 42111 del 12/10/2007, Salvin, Rv. 238151).

Detto in altre parole, è evidente che la condotta di compartecipazione materiale o morale ad un reato sessuale, nella contestualità della sua perpetrazione in danno della vittima ad opera dell'esecutore materiale integra il delitto di violenza sessuale di gruppo: infatti il delitto di cui all'art. 609 octies c.p. costituisce una fattispecie autonoma di reato, di carattere necessariamente plurisoggettivo, consistente nella partecipazione, da parte di più persone riunite, agli atti di violenza sessuale indicati dall'art. 609 bis c.p.; si tratta di un reato punito più severamente in quanto è stato ritenuto che la partecipazione simultanea di più persone attribuisca al fatto un grado di lesività più intenso, in quanto risulta superiore la capacità di intimidazione nei confronti del soggetto passivo del reato e viene accresciuto il pericolo di reiterazione degli atti sessuali (anche per effetto dello sviluppo ed incremento delle singole capacità criminali). Si è propriamente parlato di "una più odiosa violazione della libertà sessuale della vittima nella sua ineliminabile essenza di autodeterminazione", in quanto la presenza di più di un aggressore è idonea a procurare effetti che possono anche essere psicologici, eliminandone o riducendo la forza di reazione della persona offesa (in tal senso, si richiama la parte motiva della sentenza Sez.3, n. 3348 del 13/11/2003, Pacca e altro, Rv. 227496).

Ciò che finisce per qualificare in maniera pregnante la fattispecie è, quindi, "la simultanea ed effettiva presenza di più persone nel luogo e nel momento di consumazione dell'illecito, in un rapporto causale inequivocabile", seppure il singolo autore può realizzare soltanto una frazione del fatto tipico, "un contributo causale alla commissione del reato, anche nel senso del rafforzamento della volontà criminosa dell'autore dei comportamenti tipici di cui all'art. 609 bis c.p. (Fattispecie di partecipazione a violenza sessuale di gruppo mediante riprese, con telefono cellulare, della parte finale dell'episodio di violenza sessuale, si veda Sez. 3, n. 11560 dell'11/3/2010, M., Rv. 246448; nella parte motiva la Corte ha dato atto che risultava che il soggetto non si fosse limitato ad una presenza passiva in loco, ma aveva dato "un contributo attivo di adesione" al comportamento dell'esecutore materiale della violenza).

Di fatti nel caso di violenza e minaccia analizzato dalla giurisprudenza, ma il principio è di certo estensibile anche alle condotte abusive, non è richiesto che tale condotta sia posta in essere da tutti i partecipi, essendo sufficiente che il comportamento tipico sia posto in essere anche da uno solo di essi.

In sintesi, per la giurisprudenza per integrare la condotta concorrente nella fattispecie di cui all'art. 609 octies c.p., deve farsi riferimento alla maggiore forza intimidatoria del gruppo (cfr.Sez. 3, n. 17843 del 23/3/2005, P.G. in proc. La Fata ed altri, Rv.231524), ovvero anche al solo rafforzamento della volontà criminosa del soggetto o dei soggetti che pongono in essere i comportamenti tipici di cui all'art. 609 bis c.p., rafforzamento che deriva dalla consapevolezza della presenza fattiva del gruppo (in tal senso già Sez. 3, n.6464 del 5/4/2000, Giannuzzi ed altro, Rv. 216978) 8. Date queste premesse è evidente che nel caso di specie i giudici di merito, che peraltro avevano fatto cenno (nella pronuncia di primo grado) al fatto che le condotte addebitate avrebbero potuto essere configurate come violenza sessuale di gruppo, non hanno analizzato gli elementi probatori raccolti nel corso del giudizio al fine di accertare la sussistenza dei requisiti sopradescritti pur nella acclarata "presenza" dell' E.A. nella stanza ove il F. abusava sessualmente del bambino, elementi che potrebbero invero concretizzare il concorso morale dello stesso nella violenza sessuale, ma si sono limitati a constatare la mera presenza dell'imputato al momento del fatto in un atteggiamento "sorridente".

La Corte di appello, infatti, ha semplicemente ribadito il giudizio di primo grado - dove il giudice aveva dato atto che E.A., pur senza toccare, nè compiere atti sessuali sul bambino, aveva tratto "soddisfazione erotica" dalla vista dell'atto sessuale di penetrazione compiuto sul minore e quindi era stato partecipe alla violenza posta in essere dal F., il quale "verosimilmente" aveva tratto sostegno e godimento dal fatto di essere guardato - ed ha respinto la censura di appello ritenendo che il concorso di persone dovesse essere considerato "implicito" nella situazione di fatto che si era creata, per "l'indubbio rafforzamento reciproco dell'intento di compiere le rispettive azioni criminali" e per il fatto di "concepire e commettere tutti un'unica complessa attività sessuale".

Ma nella motivazione della sentenza impugnata non è stato fornito alcun richiamo alle specifiche risultanze probatorie che conforterebbero tali affermazioni, nè la motivazione mostra tenuta logica, posto che non è dato comprendere da dove la decisione impugnata abbia tratto il convincimento del soddisfacimento sessuale che avrebbe ricavato l' E.A. dall'assistere alla violenza posta in essere dal F..

Nè può essere condivisa l'affermazione dei giudici che tale "godimento visivo" costituisca una forma concorsuale di partecipazione nel reato. Nel nostro sistema giuridico il voyeurismo in quanto tale - moralmente riprovevole e a volte costituente una forma di parafilia - non ha la rilevanza penale di condotta concorrente di una violenza sessuale posta in essere da altri, a meno che l'atto del guardare sìa stato oggetto di un preventivo accordo tra i soggetti oppure venga palesato all'esecutore materiale della violenza sessuale, divenendo in tal modo il guardare un'attività "consensuale" tra il voyeur e l'autore del reato, contribuendo in tal modo a sollecitare o a rafforzare il proposito criminoso di quest'ultimo, incidendo direttamente sul reato in corso di consumazione e rendendo, così, manifesta anche la piena condivisione da parte del voyeur dell'azione criminosa.

Di conseguenza la decisione deve essere annullata in riferimento alla condanna dell' E.A.M., con rinvio al altra Sezione della Corte di appello di Roma, per la verifica in merito alla qualificazione del comportamento di E.A.M., al fine di chiarire, esaminate le risultanze processuali, se lo stesso, effettivamente presente sul luogo ed al momento del fatto criminoso, sia stato mero "spettatore" occasionale, sia pure compiacente, ovvero, attese le modalità degli incontri sessuali che avvenivano nella casa ed il suo comportamento concreto (la durata e le circostanze della presenza nella stanza, la posizione assunta, la gestualità tenuta, le parole eventualmente proferite dallo stesso o l'eventuale precedente accordo intervenuto con l'esecutore materiale della violenza) abbia apportato consapevolmente un reale contributo materiale o morale alla violenza sessuale posta in essere in danno del piccolo M. dal F. e pertanto la sua presenza possa essere definita attiva, finendo per possedere le connotazioni tipiche del concorso morale rafforzativo della condotta tipica, posta in essere dall'autore materiale della violenza sessuale. Il ricorso del F., come già detto, deve invece essere rigettato ed il ricorrente deve essere condannato, ai sensi del disposto di cui all'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali.

 

P.Q.M.

 

Rigetta il ricorso del ricorrente F.L. che condanna al pagamento delle spese processuali; annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Roma quanto al ricorrente E.A.M..
Avv. Antonino Sugamele

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