La sorveglianza speciale non si applica a vieme sospettato di commettere reati contravvenzionali
Corte di Cassazione Sez. Seconda Pen. - Sent. del 03.05.2012, n. 16348
Presidente Fiandanese - Relatore Iasillo
Osserva
Con decreto dell'11.05.2011 la Corte di appello di Torino confermava il decreto emesso dal Tribunale di Torino, Sez. Misure di prevenzione, in data 15.03.2010 nella parte in cui aveva disposto per B.G. la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S. per anni due con obbligo di soggiorno e la restituzione di un immobile sequestrato a Y.A.I. (terza interessata moglie del C. ); in parziale riforma del decreto del Tribunale di Torino di cui sopra ordinava la confisca delle unità immobiliari - specificate nel dispositivo - intestate a S.R. (terza interessata, moglie del B. )
Avverso detto decreto hanno presentato ricorso per Cassazione: l'Avvocato M. F., quale difensore di B.G. ; l'Avvocato P. D. B., quale difensore di S.R. , B.K. e B.V. ; il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Torino.
Il Procuratore Generate evidenzia i rilevanti difetti del percorso motivazionale del provvedimento impugnato - con il quale è stata confermata la fondatezza della restituzione, da parte del Tribunale, di un immobile sequestrato a Y.A.I. moglie del proposto C.A.C. - che di fatto rendono la motivazione solo apparente e quindi inesistente. Il Procuratore Generale conclude, quindi, per l'annullamento sul punto del decreto della Corte di Appello di Torino dell'11.05.2011.
In data 06.03.2012 l'Avvocato D. R., difensore di Y.A.I. , presenta una memoria nella quale evidenzia che il ricorso del P.G. di Torino è inammissibile o infondato perché di fatto denunzia vizi attinenti al merito o carenze di motivazione, mentre il sindacato di legittimità sui provvedimenti in materia di prevenzione è limitato al vizio della violazione di legge.
I difensori del proposto B. e dei terzi interessati evidenziano in primo luogo la nullità del decreto essendo stato loro notificato - in data 13.05.2011 - solo il dispositivo del provvedimento. La nullità discenderebbe dal fatto che non è previsto dall'articolo 127 del c.p.p. un deposito differito del dispositivo e della motivazione; deposito differito che incide sullo strettissimo termine di impugnazione di dieci giorni che decorre dalla notifica del decreto. Eccepiscono, poi, che a seguito dell'assoluzione del B. per tutti i fatti delittuosi (lo stesso è stato invece condannato per la contravvenzione di cu all'art. 718 c.p.) lo stesso non poteva essere sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, perché l'articolo 1 (n. 1 e 2) della L. 1423/1956 individua quali soggetti ai quali può essere applicata una misura di prevenzione solo quelli che siano sospettati di aver commesso delitti e non già le contravvenzioni, come invece erroneamente ritenuto dalla Corte di appello di Torino. Conseguentemente non poteva essere disposta alcuna misura di prevenzione patrimoniale. Propongono, poi, altre censure sulla mancanza di motivazione in ordine: alla sussistenza e attualità della pericolosità sociale del B. ; alla durata della misura; alla confisca dei beni immobili di S.R. I difensori del proposto B. e dei terzi interessati hanno presentato memorie (anche con motivi aggiunti) con le quali insistono nella richiesta di annullamento dell'impugnato provvedimento.
Motivi della decisione
Il ricorso del Procuratore Generale è fondato e va pertanto accolto. Infatti è noto che nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge, secondo il disposto dell'art. 4, decimo comma, dalla legge 27 dicembre 1956, n. 1423, richiamato dall'art. 3 ter, secondo comma, della legge 31 maggio 1965, n. 575; ne consegue che, in tema di sindacato sulla motivazione, è esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l'ipotesi dell'illogicità manifesta di cui all'art. 606, lett. e), cod. proc. pen., potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso, poiché qualificabile come violazione dell'obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d'appello dal nono comma del predetto art. 4 legge 1423/1956, il caso di motivazione inesistente o meramente apparente (cfr. art. 125 c.p.p., comma 3, ultima parte; v. Sez. 2, Sentenza n. 2181 del 06/05/1999 Cc. - dep. 26/05/1999 - Rv. 213852; Sez. 6, Sentenza n. 15107 del 17/12/2003 Cc. - dep. 30/03/2004 - Rv. 229305 Sez. 2, Sentenza n. 19914 del 31/01/2005 Cc. - dep. 26/05/2005 - Rv. 231873; Sez. 2, Sentenza n. 6977 del 09/02/2011 Cc. - dep. 23/02/2011 - Rv. 249364).
Nella specie si riscontra proprio un caso di motivazione apparente. Infatti, la stessa Corte di appello, a pagina 10 del suo provvedimento, nell'illustrare i motivi che sostengono la richiesta della Procura di Torino per la confisca del bene di cui si discute, indica l'incompatibilità del reddito familiare dichiarato con i beni oggetto del sequestro riconducibili a C.A.C. , avendo costui svolto lavoro dipendente in maniera non continuativa e avendo la di lui moglie svolto brevi lavori stagionali, senza che la suocera di C. appaia in condizione di aiutare economicamente la figlia, per cui le entrate di costoro sarebbero insufficienti a pagare le rate del mutuo per l'acquisto dell'immobile”. La Corte territoriale a pagina 13 espone le ragioni per le quali ritiene di confermare la restituzione dell'immobile a Y.A.I. . Il Giudice di merito affronta un unico tema e cioè quello relativo all'aiuto economico della madre della Y. Quindi non dicendo nulla su quanto evidenziato dalla Procura di Torino in relazione all'incompatibilità del reddito familiare del C.A.C. con il bene oggetto di confisca, si deve ritenere che la Corte di appello condivida quanto accertato ed evidenziato dal P.M. sul punto. Invero se su tale questione il giudice di merito avesse riscontrato lacune o dati infondati aveva l'obbligo di evidenziarli nella motivazione. Per quanto riguarda l'unico argomento trattato dalla Corte di appello, è, poi, evidente l'apparenza della motivazione, che di fatto è mancante. Infatti, la Corte territoriale riconosce che dalla documentazione ai fini fiscali risulta un reddito della madre della Y. inferiore a quello dichiarato in udienza e che le modalità di custodia del danaro riferite non sono usuali (danaro contante conservato in una cassetta di sicurezza, pur disponendo di un regolare conto corrente bancario, e dato alla figlia sempre in contanti e per cifre rilevanti: Euro 20.000,00 una prima volta e poi più di Euro 9.000,00 per quattro volte). Però la stessa Corte supera quanto sopra sulla base di una presunta massima di esperienza e cioè che per i redditi da lavoro domestico una parte della retribuzione viene erogata fuori busta per risparmiare sia ai fini fiscali sia ai fini contributivi. A prescindere dal rilevare che la massima di esperienza di cui sopra appare, in realtà, una congettura, cioè un'ipotesi non fondata sullo “id quod plerumque accidit” e insuscettibile di verifica empirica (Sez. 6, Sentenza n. 16532 del 13/02/2007 Ud. - dep. 24/04/2007 - Rv. 237145; Sez. 2, Sentenza n. 44048 del 13/10/2009 Ud. - dep. 18/11/2009 - Rv. 245627), si deve osservare che la Corte di appello non ha neppure indicato quale parte, su una retribuzione effettiva di Euro 2.000,00 (già molto alta per un lavoro domestico, tra l'altro affermato dalla dichiarante e non provato con un contratto o altri elementi certi), sia, secondo la massima di esperienza di cui sopra, logico ritenere erogata fuori busta; e poi non ha dato alcuna spiegazione sul perché la madre della Y. dovesse tenere tanto danaro contante in una cassetta di sicurezza e non sul suo conto corrente. Infine, il Giudice di merito non ha evidenziato quali erano le spese che la madre della Y. (e della sua eventuale famiglia; di questa donna, invero, leggendo il provvedimento impugnato non si sa nulla) doveva sostenere per vivere a Roma e ciò al fine di dare una minimo supporto motivazionale alle affermazioni apodittiche “che i redditi che la suocera di C. ha dichiarato di percepire appaiono idonei a fornire la provvista per il pagamento della rata del mutuo mensile” e che “il ricorrente P.M. non ha assolto l'onere di provare il requisito della sproporzione reddituale”. Né la Corte ha tenuto presente che se nel procedimento di prevenzione - che ha la finalità di accertare se i beni sequestrati costituiscano il reimpiego dei proventi di attività illecite - per verificare la legittima provenienza del danaro utilizzato per l'acquisto dei beni di cui sopra ci si allontana dalla valutazione di dati certi e ci si affida alle congetture (cosa, ovviamente, non consentita per nessun procedimento) diventa impossibile raggiungere l'obbiettivo fissato dalla Legge. Il caso di cui ci si occupa è emblematico in tal senso. Infatti, più della metà del prezzo dell'immobile sequestrato è stato pagato con danaro in contanti (Euro 58.000,00) sulla cui provenienza non si sa nulla, che non ha lasciato alcuna traccia oggettiva di dove e da chi è stato raccolto e come è arrivato alla Y. . È evidente che le sole parole (che, tra l'altro, sono in contrasto con gli elementi oggettivi acquisiti) di una stretta parente di chi si ritiene essere la fittizia proprietaria dell'immobile (moglie del C.A.C. ) non possono bastare a ritenere superata la presunzione che il suddetto bene sia stato acquistato con i proventi di attività illecite. In proposito si deve ricordare che questa Suprema Corte ha più volte affermato che i terzi ricorrenti, ove non conviventi, pur non avendo un onere di prova nel vero significato della frase, hanno comunque il dovere (oltre che l'interesse) di dimostrare la legittima provenienza dei beni dei quali sono formalmente intestatari (Cass. Sez. 1, sent. n. 5897 del 26.11.1998 dep. 18.1.1999, B.). Con riferimento, invece, agli stretti familiari, asseritamente fittizi intestatari di beni, rientranti nel novero di quelli considerati dalla L. n. 575 del 1965, art. 2 bis, comma 3, separatamente da tutti gli altri terzi opera una fondata presunzione di essere solo “prestanomi” circa l'effettiva disponibilità dei beni in testa al proposto, salvo rigorosa e fondata prova contraria posta a carico dei predetti soggetti legati da vincoli parentelari “aut similia” (convivenza) con detto proposto, essendo intuibilmente più accentuato, in caso di titolarità dei beni in capo a costoro, il pericolo di una intestazione meramente fittizia “a copertura” di quella concreta e reale in testa al detto proposto raggiunto dalla misura di prevenzione personale (Sez. 2, Sentenza n. 6977 del 09/02/2011 Cc. - dep. 23/02/2011 - Rv. 249364). Ed ancora questa Corte ha ribadito che in materia di misure di prevenzione patrimoniali, il sequestro e la confisca possono avere ad oggetto i beni del coniuge, dei figli e degli altri conviventi, dovendosi ritenere che il prevenuto ne abbia la disponibilità facendoli apparire formalmente come beni nella titolarità delle persone di maggior fiducia, sui quali pertanto grava l'onere di dimostrare l'esclusiva disponibilità e legittima acquisizione del bene per sottrarlo alla confisca (Sez. 1, Sentenza n. 39799 del 20/10/2010 Cc. - dep. 11/11/2010 - Rv. 248845).
Il decreto impugnato con riferimento all'omessa confisca dell'immobile intestato a Y.A.I. , moglie del proposto C.A.C. , va quindi annullato con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Torino per nuovo giudizio.
La prima doglianza dei difensori del proposto B. e dei terzi interessati è manifestamente infondata. È, infatti, evidente che il deposito differito del dispositivo e della motivazione di un decreto non comporta alcuna nullità del provvedimento stesso, ma incide solo sul termine di impugnazione che decorrerà a seconda dei casi dal termine stabilito dalla legge per il deposito della motivazione o nel caso di superamento di questo dalla comunicazione o notificazione dell'avvenuto deposito (si vedano per diversi tipi di procedimenti camerali: Sez. 4, Sentenza n. 43040 del 12/10/2011 Cc. - dep. 22/11/2011 - Rv. 251113; Sez. U, Sentenza n. 21039 del 27/01/2011 Cc. - dep. 26/05/2011 - Rv. 249670; Sez. U, Sentenza n. 12822 del 21/01/2010 Ud. - dep. 02/04/2010 - Rv. 246269). Nel caso di specie si è verificato quanto sopra e quindi il proposto e i terzi interessati hanno presentato validi ricorsi dopo aver avuto conoscenza del deposito della motivazione. È chiaro, quindi, che i ricorrenti non hanno alcun interesse concreto a tale motivo di ricorso.
La seconda doglianza dei ricorrenti relativa al fatto che il B. - assolto, con sentenza della Corte di appello di Torino del 23.04.2010, da tutti i fatti delittuosi e condannato solo per due contravvenzioni - non poteva essere sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, perché l'articolo 1 (n. 1 e 2) della L. 1423/1956 individua quali soggetti ai quali può essere applicata una misura di prevenzione solo quelli che siano sospettati di aver commesso delitti e non già le contravvenzioni, come invece erroneamente ritenuto dalla Corte di appello di Torino, è invece fondata e va quindi accolta. L'accoglimento di tale motivo di ricorso, ovviamente, assorbe tutti gli altri motivi dei ricorsi del proposto e dei terzi interessati (che quindi non saranno presi in esame in questa sede) perché la Corte di appello, in sede di rinvio, dovrà riesaminare l'intera vicenda e decidere su tutte le doglianze dei ricorrenti.
È necessario, preliminarmente, osservare che la L. 27.12.1956 n 1423 - che prevede e disciplina le misure di prevenzione - ha sostituito le vecchie norme di polizia originariamente contenute nel T.U.L.P.S. a seguito della riconosciuta illegittimità Costituzionale (C. Cost. 11/1956; C. Cost. 2/1956) dell'apparato burocratico che - secondo il predetto testo normativo - le applicava in sede extra giurisdizionale, considerato che venivano applicate da un'apposita commissione di natura amministrativa. Quindi già con la sentenza n. 2 del 1956, la Corte Costituzionale ebbe a fissare alcuni importanti principi, quali l'obbligo della garanzia giurisdizionale per ogni provvedimento limitativo della libertà personale e il netto rifiuto del sospetto come presupposto per l'applicazione di siffatti provvedimenti, in tanto legittimi in quanto motivati da fatti specifici.
Con la successiva sentenza n. 11 del medesimo anno 1956, la Corte affermò che il grave problema di assicurare il contemperamento tra le due fondamentali esigenze di non frapporre ostacoli all'attività di prevenzione dei reati e di garantire il rispetto degli inviolabili diritti della personalità umana, appare risolto attraverso il riconoscimento dei tradizionali diritti di “habeas corpus” nell'ambito del principio di stretta legalità. Correlativamente, prosegue la Corte nella citata sentenza, in nessun caso l'uomo potrà essere privato o limitato nella sua libertà (personale) se questa privazione o restrizione non risulti astrattamente prevista dalla legge, se un regolare giudizio non sia a tal fine instaurato, se non vi sia provvedimento dell'autorità giudiziaria che ne dia le ragioni. La legittimità costituzionale di un sistema di misure di prevenzione dei fatti illeciti, a garanzia dell'ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti, fra i cittadini è sempre stata ribadita dalle successive sentenze della Corte (sentenze: n. 27 del 1959; n. 45 del 1960; n. 126 del 1962; n. 23 e n. 68 dei 1964; n. 32 del 1969 e n. 76 del 1970) con riferimento agli artt. 13,16,17 e 25, terzo comma, Cost.; ora sottolineando ora attenuando il parallelismo con le misure di sicurezza (di cui appunto all'ari 25, terzo comma, Cost.) e perciò, ora richiamando l'identità del fine - di prevenzione di reati - perseguito da entrambe le misure che hanno per oggetto la pericolosità sociale del soggetto, ora marcando, invece, le differenze che si vogliono intercorrenti tra di esse.
Il principio di legalità in materia di prevenzione, il riferimento, cioè, ai casi previsti dalla legge, lo si ancori all'art. 13 ovvero all'art. 25, terzo comma, Cost., implica che la applicazione della misura, ancorché legata, nella maggioranza dei casi, ad un giudizio prognostico, trovi il presupposto necessario in fattispecie di pericolosità, previste - descritte - dalla legge; fattispecie destinate a costituire il parametro dell'accertamento giudiziale e, insieme, il fondamento di una prognosi di pericolosità, che solo su questa base può dirsi legalmente fondata. Invero, se giurisdizione in materia penale significa applicazione della legge mediante l'accertamento dei presupposti di fatto per la sua applicazione attraverso un procedimento che abbia le necessarie garanzie, tra l'altro di serietà probatoria, non si può dubitare che anche nel processo di prevenzione la prognosi di pericolosità (demandata al giudice e nella cui formulazione sono certamente presenti elementi di discrezionalità) non può che poggiare su presupposti di fatto previsti dalla legge e, perciò, passibili di accertamento giudiziale.
L'intervento del giudice (e la presenza della difesa, la cui necessità è stata affermata senza riserve; si veda ad esempio Sez. 5, Sentenza n. 3311 del 25/10/1993 Cc. - dep. 23/11/1993 - Rv. 196298) nel procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione non avrebbe significato sostanziale (o ne avrebbe uno pericolosamente distorcente la funzione giurisdizionale nel campo della libertà personale) se non fosse preordinato a garantire, nel contraddittorio tra le parti, l'accertamento di fattispecie legali predeterminate.
A tal proposito, è bene accennare che, sotto il profilo della determinatezza, non è affatto rilevante che la descrizione normativa abbia ad oggetto una condotta singola ovvero una pluralità di condotte, posto che apprezzabile può essere sempre e soltanto il comportamento o contegno di un soggetto nei confronti del mondo esterno, come si esprime attraverso le sue azioni od omissioni. Decisivo è che anche per le misure di prevenzione, la descrizione legislativa, la fattispecie legale, permetta di individuare la o le condotte dal cui accertamento nel caso concreto possa fondatamente dedursi un giudizio prognostico, per ciò stesso rivolto all'avvenire.
Si deve ancora osservare che le condotte presupposte per l'applicazione delle misure di prevenzione, poiché si tratta di prevenire reati, non possono non involgere il riferimento, esplicito o implicito, al o ai reati o alle categorie di reati della cui prevenzione si tratta, talché la descrizione della o delle condotte considerate acquista tanto maggiore determinatezza in quanto consenta di dedurre dal loro verificarsi nel caso concreto la ragionevole previsione (del pericolo) che quei reati potrebbero venire consumati ad opera di quei soggetti.
I principi di cui sopra sono stati, naturalmente, più volte ribaditi da questa Suprema Corte, la quale, ad esempio, ha affermato che poiché le misure di prevenzione hanno natura sostanzialmente e formalmente afflittiva e non possono perseguire alcuna finalità rieducativa, anche in tale materia il procedimento probatorio deve assumere il carattere della giurisdizionalità, sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo: sul piano soggettivo, nel senso che deve essere un organo giurisdizionale a presiedere alla formazione della prova; sul piano oggettivo, nel senso che devono essere rigorosamente rispettati anche in materia di prevenzione i principi di riserva di legge e di determinatezza della fattispecie sanciti dagli artt. 13 e 27 della Costituzione (Sez. 1, Sentenza n. 212 del 21/01/1991 Cc. - dep. 01/03/1991 - Rv. 186501; Sez. 6, Sentenza n. 8 del 04/01/2000 Cc. - dep. 05/04/2000 - Rv. 215856). Nel 2010 la Corte Costituzionale (sent. n. 93/2010) ha affermato che sono costituzionalmente illegittimi, per contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., l'art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 e l'art. 2 - ter della legge 31 maggio 1965, n. 575, nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al Tribunale e alla Corte d'appello, nelle forme dell'udienza pubblica. Le censurate disposizioni, prevedendo che le misure di prevenzione siano applicate in esito ad un procedimento camerale senza la partecipazione del pubblico, violano, infatti, l'art. 6. par. 1, della CEDU poiché, nonostante l'incidenza diretta, definitiva e sostanziale delle misure de quibus su beni dell'individuo costituzionalmente tutelati, quali la libertà personale, il patrimonio e la stessa libertà di iniziativa economica, non contemplano la possibilità per l'interessato di chiedere un dibattimento pubblico, ledendo il principio di pubblicità delle udienze giudiziarie, costituzionalmente rilevante anche in assenza di un esplicito richiamo in Costituzione (si veda anche: Sez. 5, Sentenza n. 7800 del 17/11/2011 Cc. - dep. 28/02/2012 - Rv. 251716).
Tutto quanto sopra premesso dimostra chiaramente il processo di progressiva “giurisdizionalizzazione” in tale materia, che impone l'osservanza delle regole coessenziali al giudizio in senso proprio; infatti, il procedimento di prevenzione, all'esito del quale il giudice è chiamato ad esprimere un giudizio di merito, è idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su beni dell'individuo costituzionalmente tutelati, quali la libertà personale (ari 13, primo comma, Cosi; si vedano: CC. 77/1995; CC. 93/2010; Sez. 1, Sentenza n. 212 del 21/01/1991 Cc. - dep. 01/03/1991 - Rv. 186501; Sez. 5, Sentenza n. 3311 del 25/10/1993 Cc. - dep. 23/11/1993 Rv. 196298).
Orbene alla luce dei sopra affermati principi, è evidente che l'interpretazione della Corte di appello di Torino dell'articolo 1, n. 1 e n. 2, della Legge 1423/1956 è erronea. Infatti, tale interpretazione secondo la quale i termini “traffici delittuosi” e “attività delittuose” comprendano anche le contravvenzioni, viola il principio di legalità, di determinatezza e di tassatività di cui si è sopra detto e il cui solo rispetto consente di ritenere la norma di cui si tratta conforme alla Costituzione. È proprio in base alle considerazioni sin qui svolte, che la Corte Cost. (sent. 177/1980) ha dichiarato fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, n. 3 ultima ipotesi, della legge n. 1423 del 1956. Afferma la Corte Cost. - nella sentenza 177/1980 della quale è opportuno riportare alcuni punti - che la disposizione di legge in esame (a differenza ad esempio di quella di cui al n. 1 del medesimo art. 1) non descrive né una o più condotte, né alcuna manifestazione cui riferire, senza mediazioni, un accertamento giudiziale. Quali manifestazioni vengano in rilievo è rimesso al giudice (e, prima di lui, al pubblico ministero ed alfa autorità di polizia proponenti e segnalanti) già sul piano della definizione della fattispecie, prima che su quello dell'accertamento. I presupposti del giudizio di proclività a delinquere non hanno qui alcuna autonomia concettuale dal giudizio stesso. La formula legale non svolge, pertanto, la funzione di una autentica fattispecie, di individuazione, cioè, dei casi (come vogliono sia l'art. 13, che l'art. 25, terzo comma, Cost.), ma offre agli operatori uno spazio di incontrollabile discrezionalità. Né per la ricostruzione della fattispecie può sovvenire il riferimento al o ai reati della cui prevenzione si tratterebbe. La espressione proclivi a delinquere usata dal legislatore del 1956 sembrerebbe richiamare l'istituto della tendenza a delinquere di cui al l'art. 108 del codice penale, ma l'accostamento sul piano sostanziale non regge, posto che la dichiarazione prevista da quest'ultima norma presuppone l'avvenuto accertamento di un delitto non colposo contro la vita o l'incolumità individuale e dei motivi a delinquere, tali da far emergere una speciale inclinazione al delitto; e l'indole particolarmente malvagia del colpevole. Nel caso in esame la proclività a delinquere deve, invece, essere intesa come sinonimo di pericolosità sociale, con la conseguenza che l'intera disposizione normativa, consentendo l'adozione di misure restrittive della libertà personale senza l'individuazione né dei presupposti né dei fini specifici che le giustificano, si deve dichiarare costituzionalmente illegittima.
Quindi la Corte di Appello di Torino perviene all'errata interpretazione della norma di cui sopra non solo non tenendo conto di quanto affermato costantemente dalla Corte Costituzionale e dalla Giurisprudenza di questa Suprema Corte di Cassazione, ma anche sulla base di considerazioni apodittiche e poco chiare. Ad esempio la Corte territoriale afferma a pagina 4 che “l'articolo 1 della citata legge (1423/1956) non è una norma penale, e cioè non fa parte di quella branca del diritto pubblico che disciplina i fatti costituenti reato e le sanzioni (penali) riconnesse alla commissione dei reati”. È evidente che quanto rilevato dal Giudice di merito è vero, ma non si comprende quale incidenza abbia sulla interpretazione di cosa volesse intendere il Legislatore con le espressioni “traffici delittuosi” e “attività delittuose”. Per comprenderne l'esatto significato si deve tener presente la gravità delle misure di prevenzione e la loro incidenza su beni essenziali dell'uomo e garantiti dalla nostra Costituzione e dalla CEDU. Inoltre, si deve ancora ricordare che le condotte presupposte per l'applicazione delle misure di prevenzione, poiché si tratta di prevenire reati, non possono non involgere il riferimento, esplicito o implicito, al o ai reati o alle categorie di reati della cui prevenzione si tratta, talché la descrizione della o delle condotte considerate acquista tanto maggiore determinatezza in quanto consenta di dedurre dal loro verificarsi nel caso concreto la ragionevole previsione (del pericolo) che quei reati potrebbero venire consumati ad opera di quei soggetti. Orbene da ciò si può affermare che le categorie dei soggetti indicati attualmente dalla disposizione di cui all'articolo 1 della L. 1423/1956 si caratterizzano per il fatto di essere identificati con riferimento ad attività penalisticamente qualificate. E, invero, nel n. 1 e nel n. 2 il Legislatore aggiunge ai sostantivi “traffici e attività” l'aggettivo delittuosi, il cui unico significato è: “che costituiscono delitti”. Pertanto il riferimento al termine delitto sgombra il campo da possibili estensioni alle contravvenzioni, restringendo l'applicazione delle misure di prevenzione solo ai soggetti sospettati di compiere le più gravi forme di reato. Mentre invece per le persone di cui al n. 3 la generica indicazione del termine “reato” consente di comprendere anche le contravvenzioni. L'interpretazione di cui sopra è conforme al primo canone ermeneutico (grammaticale o semantico), fissato dall'articolo 12 delle preleggi che stabilisce che “nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse”. Ma è conforme - per quanto sopra esposto - anche a tutti gli altri criteri interpretativi quali ad esempio il criterio storico (nel cui ambito si utilizza attualmente il c.d. metodo teleologia); si veda ultima parte del primo comma del citato art. 12 delle preleggi “…e dalla intenzione del legislatore”) e il criterio logico sistematico. È appena il caso di ricordare che in campo penalistico il giudice deve rispettare il principio di stretta legalità, principio che, per quanto sopra detto, deve essere rispettato anche nel procedimento di prevenzione. Quindi, per evitare che il Giudice crei norme in tali delicati settori, il procedimento interpretativo deve essere tendenzialmente circoscritto all'interpretazione letterale, nella massima estensione possibile, della norma.
In relazione a quanto sopra sottolineato si deve rilevare che anche la Corte di appello di Torino cerca di giustificare la sua interpretazione ricorrendo al canone grammaticale, quando evidenzia (pagine 4 e 5) che nell'articolo 1 si sono inserite le locuzioni “attività delittuose” e “traffici delittuosi” perché “congruenti col senso logico dell'espressione definitoria adoperata dal Legislatore, non potendosi parlare di “attività di reato” e di “traffici di reato”. È vero che non si può dire “attività di reato” o “traffici di reato”; ma è sfuggito alla Corte di appello che se il Legislatore avesse voluto dare alle parole “attività” e “traffici” l'ampio significato al quale è pervenuto il Giudice di merito poteva costruire le locuzioni in vari altri modi come ad esempio i seguenti: ” attività o traffici di rilevanza penale” oppure “attività o traffici costituenti illeciti penali”. Il Legislatore, invece, ha usato l'aggettivo delittuoso - che come detto ha un preciso significato - per restringere e differenziare l'applicazione dei casi previsti nei n. 1 e 2 del predetto articolo 1 L1423/1956, rispetto al caso previsto nel n. 3 dello stesso articolo. Infine, si deve rilevare che, a ulteriore conferma dell'esatta interpretazione di cui sopra, nell'articolo 14 della L 19.03.1990 - articolo abrogato dall'articolo 11 del D.L. 23.05.2008 n. 92 convertito con modificazioni nella L. 24. 07.2008 n. 125 - nella parte finale del primo comma si afferma “…ai soggetti indicati nei numeri 1 e 2 dell'articolo 1 della Legge 27.12.1956, n. 1423 quando l'attività delittuosa da cui si ritiene derivino i proventi sia una di quelle previste dagli articoli 600, 601, 602, 629, 630, 644, 646 bis o 648 ter del codice penale”; quindi il Legislatore usa la locuzione attività delittuosa come sinonimo di delitto (l'attività delittuosa…sia una di quelle previste dai vari delitti sopra specificati).
Alla stregua delle esposte considerazioni il decreto impugnato va pertanto cassato, con rinvio alla Corte di Appello di Torino - in diversa composizione rispetto a quella che ha giudicato nel presente giudizio in ossequio ai principi di cui all'art. 34 c.p.p. - per nuovo esame, alla luce delle osservazioni e dei principi innanzi illustrati, sull'attualità della pericolosità sociale di B.G. e, in caso di effettiva sussistenza della pericolosità, per decidere in ordine alta confisca dei beni nella sua disponibilità diretta o indiretta.
P.Q.M.
Annulla il decreto impugnato: in accoglimento del ricorso del Procuratore Generale presso la Corte di appello di Torino con riferimento all'omessa confisca dell'immobile intestato Y.A.I. nel procedimento di prevenzione a carico di C.A.C. ; e in accoglimento dei ricorsi di B.G. , S.R. , B.K. e B.V. con rinvio ad altra Sezione della Corte di Appello di Torino per nuovo giudizio.
Depositata in Cancelleria il 03.05.2012
07-05-2012 00:00
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