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Sentenza

L'amministratore apparente non e' il presunto responsabile della bancarotta fraudolenta per distrazione
L'amministratore apparente non e' il presunto responsabile della bancarotta fraudolenta per distrazione
Corte di Cassazione Sez. Quinta Pen. - Sent. 27.03.2012, n. 11649
Presidente Marasca - Relatore Sabeone

Ritenuto in fatto

1. La Corte di Appello di Palermo, con sentenza del 3 novembre 2010, ha parzialmente confermato la sentenza del Tribunale di Palermo del 21 maggio 2008 mantenendo ferma la condanna di S.G. , quale amministratore di fatto della ditta C. dichiarata fallita il (…) , per il solo reato di bancarotta fraudolenta per distrazione.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, a mezzo del proprio difensore, il quale lamenta:
a) la nullità della sentenza per aver utilizzato elementi probatori irrituali, in particolare la dichiarazioni del fallito rese al Curatore, nonché in contrasto con i precetti costituzionali del giusto processo;
b) la illogicità manifesta della motivazione in merito all'accertamento della penale responsabilità sulla base della qualifica di amministratore di fatto;
c) la illogicità della motivazione sul punto della sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi dell'ascritto reato;
d) la mancanza di motivazione in merito alla mancata concessione dell'attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità.

Considerato in diritto

1. Il ricorso non è meritevole di accoglimento.
2. Pretestuoso è il primo motivo in quanto nell'atto di appello sostanzialmente non si contesta l'attività distrattiva.
Si legge, invero, nell'impugnata sentenza come l'acquisto al patrimonio della società decotta dei beni indicati nel capo d'imputazione ed oggetto dell'attività distrattiva non sia stato contestato nell'atto di appello per cui, in ossequio alla pacifica giurisprudenza di questa Corte (v. da ultimo, Cass. Sez. V 17 giugno 2010 n. 35882), il mancato rinvenimento di tali beni da parte degli organi fallimentari costituisce prova della distrazione stessa, non avendo neppure l'imputato evidenziato né chiesto di evidenziare una diversa destinazione dei beni.
Neppure può parlarsi, nella specie, di affermazione della penale responsabilità sulla base delle sole dichiarazioni autoaccusatorie posto che soltanto la coimputata C. era stata sentita, ai sensi dell'articolo 15 della L. Fall., dal Giudice Delegato, mentre la relazione del Curatore fallimentare conteneva, a sua volta, dichiarazioni dell'odierno ricorrente e risulta acquisita al dibattimento e quindi sottoposta al rituale esame della difesa che nulla ha detto in proposito.
A fondare la responsabilità penale dell'odierno ricorrente vi era, altresì, la documentazione citata nella decisione di prime cure.
Nessuna violazione di precetti costituzionali appare, quindi, sussistere.
3. Anche il secondo motivo del ricorso, relativo alla ritenuta qualifica di amministratore di fatto, è infondato ai fini dell'affermazione della penale responsabilità della ricorrente.
La giurisprudenza di questa Sezione della Corte (v. 11 gennaio 2008 n. 7203 e da ultimo 19 febbraio 2010 n. 19049) ha formulato una distinzione in tema di responsabilità per il reato di bancarotta fraudolenta evidenziando il diverso atteggiarsi dei criteri di imputazione di quella patrimoniale e di quella documentale, sotto il profilo soggettivo quando l'amministratore di diritto non sia anche quello effettivo ma risulti affiancato dalla figura dell'amministratore di fatto, eventualmente con esautorazione dei poteri del primo che per questo viene comunemente definito “testa di legno”.
Ebbene, si è opportunamente affermato che, con riguardo alla bancarotta fraudolenta documentale per sottrazione ovvero per omessa tenuta in frode ai creditori delle scritture contabili, ben può ritenersi la responsabilità del soggetto investito solo formalmente dell'amministrazione dell'impresa fallita (cosiddetto “testa di legno”), atteso il diretto e personale obbligo dell'amministratore di diritto di tenere e conservare le suddette scritture.
Non altrettanto può dirsi con riguardo all'ipotesi della bancarotta patrimoniale o per distrazione, relativamente alla quale non può, nei confronti dell'amministratore apparente, trovare automatica applicazione il principio secondo il quale, una volta accertata la presenza di determinati beni nella disponibilità dell'imprenditore fallito, il loro mancato reperimento, in assenza di adeguata giustificazione della destinazione ad essi data, legittimi la presunzione della dolosa sottrazione, dal momento che la pur consapevole accettazione del ruolo di amministratore apparente non necessariamente implica la consapevolezza di disegni criminosi nutriti dall'amministratore di fatto.
Ovviamente, per la figura dell'amministratore di fatto, accertata in riferimento alla posizione dell'odierno ricorrente, vale il principio della assoluta equiparazione alla figura dell'amministratore di diritto quanto a doveri, sicché si è rilevato che l'amministratore “di fatto”, in base alla disciplina dettata dal novellato art. 2639 c.c., è da ritenere gravato dell'intera gamma dei doveri cui è soggetto l'amministratore “di diritto”, per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili, anche nel caso di colpevole e consapevole inerzia a fronte di tali comportamenti, in applicazione della regola dettata dall'articolo 40, comma 2 c.p..
4. Ai limiti dell'inammissibilità è il terzo motivo del ricorso.
In fatto, questa volta, i Giudici del merito hanno dato logicamente conto dell'attività posta in essere dall'imputato ai fini del compimento dell'attività distratti va, posta in essere e sulla base di un'attività probatoria ritualmente assunta come dianzi espresso.
Una nuova e diversa lettura delle risultanze processuali non è, però, consentita avanti questa Corte di legittimità di fronte alla logica motivazione dei Giudici del merito.
5. La mancata concessione dell'attenuante di cui all'articolo 219, comma 3 della L. Fall., appare implicitamente motivata nell'impugnata sentenza sia per essere stata la relativa richiesta generica sia per essere stata la relativa valutazione già contemplata nella quantificazione complessiva della pena ai sensi dell'articolo 133 cod.pen..
6. Il ricorso va, pertanto, rigettato e il ricorrente condannato, altresì, al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Depositata in Cancelleria il 27.03.2012
Avv. Antonino Sugamele

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