In un congresso di partito dà del becero ad un collega politico. Per la Suprema Corte non è reato.
Durante un congresso di partito politico un partecipatente da del “becero” ad un politico, con riferimento ad incarichi regionali.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE - SENTENZA 19 novembre 2012, n.45014 - Pres. Grassi – est. Sabeone
Ritenuto in fatto
1. Il Tribunale di Crotone, con sentenza del 10 febbraio 2011 in parziale riforma della sentenza del Giudice di pace di Crotone del 18 marzo 2009, ha condannato P.M. per il solo delitto di diffamazione in danno di M.R. avendolo apostrofato nel corso di un congresso di partito politico con l'appellativo di “becero”, in riferimento al conferimento di incarichi regionali.
2. Avverso tale sentenza ha proposta ricorso per cassazione l'imputato, attraverso il proprio difensore, il quale lamenta:
a) una violazione di legge e una motivazione illogica in merito all'affermazione della penale responsabilità basata su errata interpretazione dell'esperita istruttoria dibattimentale;
b) una violazione di legge in merito alla mancata applicazione dell'esimente della c.d. critica politica.
3. Risulta, altresì, pervenuta memoria nell'interesse della parte offesa costituita parte civile che si oppone all'accoglimento del ricorso.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è meritevole di accoglimento.
2. Assorbente è l'applicabilità al caso di specie dell'esimente del diritto di critica politica.
In linea teorica non può certamente negarsi che la critica sia legittima anche quando abbia ad oggetto l'attività politica.
La libertà di manifestazione del proprio pensiero, garantita dall'articolo 21 della Costituzione, così come dall'articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, include la libertà d'opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee o critiche su temi d'interesse pubblico, dunque soprattutto sui modi d'esercizio del potere qualunque esso sia, senza ingerenza da parte delle autorità pubbliche.
La natura di diritto individuale di libertà ne consente, in campo penale, l'evocazione per il tramite dell'articolo 51 cod. pen., e non v'è dubbio che esso costituisca diritto fondamentale in quanto presupposto fondante la democrazia e condizione dell'esercizio di altre libertà.
Inoltre, secondo principi che possono ormai ritenersi definitivamente acquisiti in giurisprudenza, l'esercizio del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione delle idee, sancito dall'articolo 21 della Costituzione, rende pienamente legittime anche forme di disputa polemica, nel corso di dibattiti politici, storici e scientifici nonché nelle campagne giornalistiche, che pure risultino caratterizzate dall'uso di espressioni di dura disapprovazione o riprovazione e dall'asprezza dei toni usati, purché l'esercizio della critica non trasmodi in attacchi personali, con i quali s'intenda esclusivamente colpire la sfera privata dell'offeso e non sconfini nell'ingiuria, nella contumelia e nella lesione della reputazione dell'avversario.
La prospettiva recepita al riguardo dalla giurisprudenza si articola essenzialmente nella differenziazione tra il diritto di cronaca, che si concreta nella narrazione di fatti che come tali non possono che essere obbiettivamente riferiti e riportati ed il diritto di critica, che si esplica nell'espressione di un giudizio o di un'opinione personale dell'autore, che non può che essere, invece, inevitabilmente soggettiva.
La conseguenza è che, in tema di diffamazione i limiti sostanziali del diritto di critica e di quello di cronaca non sono coincidenti ma risultano invece differenziati, essendo i primi più elevati dei secondi; con la precisazione che, quanto più è eminente la posizione o la figura pubblica del soggetto, quanto più è socialmente, storicamente o scientificamente rilevante la materia del contendere, tanto più ampia deve essere la latitudine della critica.
In particolare, la giurisprudenza più avvertita ha da tempo sottolineato l'esigenza della ricerca di un opportuno bilanciamento dell'interesse individuale alla reputazione personale, con l'interesse generale a che non siano introdotte limitazioni alla manifestazione del pensiero costituzionalmente garantita (v. a partire da Cass. Sez. V 8 aprile 1998 n. 761 e poi 16 novembre 2004 n. 6416, 6 luglio 2006 n. 29436, 13 giugno 2007 n. 27339, 18 dicembre 2007 n. 13880 e di recente 17 novembre 2010 n. 1914) .
Bilanciamento da individuarsi nel fatto che la critica, diversamente dalla cronaca, soggiace al limite dell'interesse pubblico o sociale ad essa attribuibile, quando si rivolge a soggetti che tengono comportamenti o svolgano attività che richiamano su di essi l'attenzione dell'opinione pubblica.
In sostanza, come rilevato anche in dottrina, dal concetto di critica esula il requisito dell'obbiettività e della serenità, perché essa consiste sempre in un'attività essenzialmente valutativa, destinata sovente a tradursi nella manifestazione di un dissenso.
Necessariamente, la critica si risolve nell'interpretazione soggettiva dei fatti ed è, pertanto, manifestazione di una lettura individuale degli accadimenti da cui trae origine.
D'altronde, non può prescindersi dal rilievo che nell'esercizio del diritto di critica è logicamente inserita un'intrinseca valenza aggressiva nei confronti del destinatario, che può eventualmente dar luogo ad una compressione del diritto alla reputazione della persona e che può articolarsi nell'espressione di valutazioni d'ordine eminentemente soggettivo.
E' proprio nell'ambito della scriminante del diritto di critica, che non può essere limitata a quella politica ma che può riguardare, altresì, l'esercizio della giurisdizione ovvero un'attività scientifica o, ancora, un avvenimento sportivo che deve essere inquadrata la fattispecie di cui al presente procedimento.
Tale esimente è indubbio che debba soggiacere, in senso qualitativo, agli stessi limiti del diritto di cronaca nel senso che, anche con riferimento all'esercizio di tale espressione di diritti costituzionalmente garantiti, debbano osservarsi i limiti del pubblico interesse, della verità dei fatti e della continenza delle espressioni adoperate; ma, del pari, non può negarsi che, questa volta in senso quantitativo, tali limiti debbano essere valutati con maggiore elasticità proprio per le considerazioni esposte in apertura di motivazione.
3. Tutto ciò premesso, in punto di diritto, l'esame, questa volta, del fatto sottoposto al giudizio di questa Corte consente di non poter condividere quanto affermato dal Giudice a quo.
Nulla quaestio sia sull'effettiva pronuncia che sul contenuto offensivo dell'espressione incriminata, posto che la stessa ha valenza obiettivamente lesiva dell'altrui onore o decoro, tanto più se riferita a rappresentanti delle forze politiche, pure al di là di ogni riferimento ai livelli di degenerazione linguistica cui sono giunte, anche nelle massime sedi di rappresentanza istituzionale, le contrapposizioni dialettiche su temi di particolare rilievo per l'interesse pubblico.
Senonché, per consolidato canone ermeneutico le espressioni intrinsecamente ingiuriose devono essere contestualizzate, ossia valutate in rapporto al contesto spazio-temporale nel quale sono state profferite.
E nel caso di specie, il teatro della vicenda era proprio una sede di dibattito politico, ossia un congresso provinciale di un partito politico, nell'ambito di un'accesa polemica riguardante il conferimento di incarichi regionali.
Un tema, questo, capace per sua natura di sollevare - tanto più in piccolo consesso, come quello del Comune di Crotone - confronti dialettici anche vivaci tra i rappresentanti delle contrapposte parti, pronte a rinfacciarsi, anche per il passato, gestioni della cosa pubblica tutt'altro che ispirate alla cura dell'interesse generale, quanto piuttosto orientate al perseguimento di interessi particolari, di natura clientelare e di scarsa trasparenza, se non proprio di patente illegittimità, su argomenti da sempre - ed ovunque - occasione di vivace scontro politico, come quello relativo alla ripartizione di incarichi presso una Regione.
Si trattava, insomma, di un suggestivo epiteto che intendeva sottolineare, e stigmatizzare, la perpetuazione di sistemi gestionali, che, in materia tanto delicata, quale quella in discussione, erano ritenuti - a torto od a ragione, ma sempre in chiave di valutazione di parte - volti alla copertura di grumi di interessi di parte.
Era, quindi, l'espressione di mera opinione valutativa, propria della particolare angolazione prospettica all'interno del medesimo gruppo politico di appartenenza.
Risolvendosi, pertanto, in una censura, assai colorita, ad un metodo di amministrazione, il suo significato trascendeva l'ambito individuale o la sfera personale delle persone offese, per porsi come critica ad un intero sistema di gestione.
Era, dunque, null'altro che manifestazione di critica che, vuoi per il contesto in cui era avvenuta, vuoi per le sue finalizzazioni, esprimeva una valutazione prettamente politica.
Dunque, la locuzione in oggetto, pur se discutibile, sul piano - se non della veridicità dei contenuti - quantomeno dello stile, dell'opportunità e del costume politico, era scriminata per effetto dell'esimente di cui all'articolo 51 cod. pen., attualizzata nell'ottica dell'articolo 21 della Carta Costituzionale.
4. Per completezza di argomentazione, deve osservarsi come le due pronunzie di queste stessa Sezione, citate dal Procuratore Generale in udienza come affermative della natura diffamatoria del medesimo termine “becero”, nella realtà non appaiono essere del tutto equivalenti alla presente fattispecie:
a) nella sentenza 21 settembre 2004 n. 40447 accanto all'epiteto becero si ritrovava uno sputo diretto verso la medesima parte lesa, nell'ambito di rapporti familiari;
b) nella sentenza 26 aprile 2006 n. 21007 accanto al medesimo epiteto vi erano le ulteriori parole “cafone e maleducato”, nell'ambito di rimostranze assicurative;
c) in nessuno dei due casi gli accadimenti erano avvenuti in un contesto di discussione politica, tale da giustificare un acceso dibattito anche di serrata critica.
5. Il ricorso va, in conclusione, accolto e l'impugnata sentenza annullata senza rinvio perché il fatto non costituisce reato.
P.Q.M.
La Corte, annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.
12-12-2012 12:22
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