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Sentenza

Chiama la Questura dopo avere sfondato il cranio alla vittima. Non è recesso attivo perchè inscena una rapina prima di chiamare il 113.
Chiama la Questura dopo avere sfondato il cranio alla vittima. Non è recesso attivo perchè inscena una rapina prima di chiamare il 113.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I PENALE - SENTENZA 20 luglio 2012, n.29708 - Pres. Giordano – est. Cavallo

RITENUTO IN FATTO

 

1. M.M., per il tramite del suo difensore, impugna per cassazione la sentenza della Corte di Assise di Appello di Roma, deliberata il 5 maggio 2011, che ha confermato - salvo che per la misura della pena, ridotta ad anni venti di reclusione - quella emessa il 14 aprile 2010 dal GUP del Tribunale di della sede, che all'esito di giudizio abbreviato, lo aveva dichiarato colpevole dell'omicidio in danno di P.M. e di tentato omicidio in danno di D.A.A., per avere l'imputato, in (OMISSIS), aggredito i predetti con un corpo contundente all'interno dell'autosalone gestito dal secondo, colpendoli ripetutamente al capo e provocando ad entrambi lo sfondamento della teca cranica, non verificandosi quanto al D.A. l'evento morte, a ragione del tempestivo intervento dei soccorsi e dell'esito favorevole dell'intervento chirurgico.

Incontestata la responsabilità penale del M., reo confesso, e definitivamente affermata in grado di appello la piena capacità d'intendere e di volere dell'Imputato, ricollegandosi I gravi fatti delittuosi contestati, secondo la Corte territoriale, non già ad un problema psichico ma ad una reazione estrema ad una situazione di stress (il timore dell'imputato, dipendente della concessionaria Mercedes Benz di (OMISSIS), che il D. A., con il quale aveva concluso degli accordi commerciali rivelatisi ineseguibili, potesse denunciare al proprio datore di lavoro, la illiceità della transazione di cui trattasi, in quanto preordinata a far conseguire alla persona offesa un finanziamento collegato ad una permuta di autoveicoli), i motivi di impugnazione proposti in ricorso, investono: a) l'esclusione dell'applicabilità al caso in esame dell'istituto del recesso attivo; b) la mancata concessione delle attenuanti generiche.

1.1 Quanto al primo motivo, mette conto precisare, in primo luogo, che la richiesta difensiva di applicazione della diminuente di cui all'art. 56 c.p., comma 4, si ricollega alla circostanza in fatto, non controversa, che fu proprio il M. a segnalare alla Sala Operativa della Questura di Roma, con una telefonata effettuata alle 14,32 del 22 dicembre 2008, la presenza di due corpi, apparentemente senza vita, all'interno dell'autosalone AMG in (OMISSIS). Orbene, poichè tale condotta dell'Imputato, si sostiene, aveva consentito di prestare un rapido soccorso ad almeno uno dei due feriti, il D.A., così contribuendo, sul plano causale, ad impedire il verificarsi dell'evento morte, la decisione dei giudici di merito di escludere l'applicazione della diminuente si appalesa illegittima per violazione di legge e vizio di motivazione.

Sul punto va anzitutto precisato che entrambi i giudici di merito hanno escluso la configurabilità della diminuente, avendo in particolare il primo giudice ritenuto insussistenti sia il presupposto oggettivo che quello soggettivo del 'recesso attivo' e quello di secondo grado, soprattutto, l'elemento della volontarietà della condotta dell'agente, precisando che la telefonata al 113 in effetti, più che la risultante di una determinazione libera ed autonoma costituiva espressione, piuttosto, di una volontà di persistenza nell'iter criminoso. Si legge al riguardo nella decisione impugnata (pag. 17): ' M. sa di aver agito in pieno giorno, a viso scoperto, e in ambiente che è solito frequentare; egli sa benissimo, inoltre, che le transazioni intercorse con D.A. sarebbero emerse nel corso delle indagini. L'unica soluzione che gli si prospetta, per stornare da sè il sospetto di essere l'autore dei delitti, è di simulare un ruolo differente: quello del conoscente/consociato in affari che 'casualmente' rinviene i corpi.

Ruolo che continua ad osservare con notevole padronanza di sè per i cinque mesi che precedono il 'risveglio' di D.A..

Il post-defictum, in altri termini, va interpretato unitariamente, e indica come la chiamata al 113 non sia stata effettuata al fine di por rimedio alle conseguenze della propria condotta, ma in chiave di autodifesa, per stornare i sospetti dalla propria persona'. Orbene a tale apparato motivazionale da parte del ricorrente si obietta che lo stesso sia frutto di mere ipotesi, di interpretazioni assolutamente soggettive della Corte territoriale.

Ed invero, il ricorrente, nei precisare che la norma di cui si invoca l'applicazione rimanda ad un dato oggettivo (la non verificazione dell'evento a seguito dell'attività del colpevole) ed uno soggettivo (la volontarietà della condotta attiva tenuta dal colpevole) evidenzia, in primo luogo, come la Corte territoriale, abbia riconosciuto il determinante contributo causale fornito dall'imputato alla non verificazione dell'evento morte.

Quanto al profilo soggettivo, il ricorrente, richiamando un ormai consolidato indirizzo giurisprudenziale sottolinea come la volontarietà della condotta integrante un'ipotesi di recesso attivo non deve essere intesa come spontaneità, per cui la diminuente non è esclusa dalla valutazione degli svantaggi che deriverebbero dal mancato impedimento dell'azione criminosa. Tale principio, sostiene il ricorrente, è stato completamente disatteso dalla Corte territoriale, che ha escluso la volontarietà della condotta, basandosi solo su di una 'lettura intimistica - e pertanto necessariamente arbitraria e soggettiva - dei motivi che avrebbero spinto il M. ad agire'. L'argomento unico nel ragionamento del giudicante, si afferma in ricorso, è l'interpretazione - assolutamente soggettiva - delle intenzioni, dell'animus dell'imputato.

1.2 Con riferimento invece ai diniego delle attenuanti generiche, da parte del ricorrente si censura l'estrema lacunosità e contraddittorietà della decisione impugnata, la quale, per un verso, ha definito spietata l'azione posta in essere dal M., obliterando il dato che l'imputato, subito dopo l'aggressione, avendo percepito che le vittime erano ancora in vita ha comunque allertato il 113, oggettivamente contribuendo a scongiurare la morte del D. A.; ha svalutato il dato, particolarmente significativo, relativo alla intensità del dolo, non considerando che l'elemento soggettivo si configurava nella forma meno grave del dolo d'Impeto e che le attenuanti generiche ben potevano essere riconosciute, a ragione della incensuratezza del M., il carattere occasionale e transitorio dell'episodio delittuoso, frutto di una reazione così detta 'a corto circuito', incongruamente valorizzando, di contro, l'assenza di una qualunque causale, relativamente all'omicidio del P., non considerando che per sua stessa ammissione il movente dell'azione doveva ritenersi unico e riconducibile alla finalità di difendere il proprio posto di lavoro e la pretesa adeguatezza della pena inflitta dal primo giudice.

 

CONSIDERATO IN DIRITTO

 

1. L'impugnazione proposta nell'interesse di M. M. è basata su motivi infondati e va quindi rigettata.

Nessun profilo di illegittimità è infatti ravvisatale nella sintonica decisione dei giudici di merito di escludere la diminuente del recesso attivo, con riferimento alla circostanza che il giudicabile, dopo l'aggressione perpetrata ai danni delle persone offese, ebbe a chiamare la sala operativa della Questura. Al riguardo va anzitutto osservato che rappresenta un principio di diritto consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui la desistenza (art. 56 c.p., comma 3) si ha quando l'agente si arresta prima di avere posto in essere l'intera condotta tipica, mentre l'Ipotesi del recesso attivo, disciplinato dall'art. 56 c.p., comma 4, - detto anche, più impropriamente pentimento operoso - ricorre quando il soggetto, avendo esaurito la condotta tipica, agisce per impedire l'evento e riesce, effettivamente, ad impedirlo (Sez. 6, 20 dicembre 2011, n. 203; Sez. 1, 2 febbraio 2010, n. 21955;

Sez. 1, 23 settembre 2008, n. 39293).

In particolare, con riferimento al requisito della 'volontarietà' della condotta dell'agente, è stato precisato, specie con riferimento all'istituto della desistenza, che lo stesso non va inteso come 'spontaneità' della condotta, sicchè la desistenza - ma il principio può valere anche per il recesso attivo - 'non è esclusa dalla valutazione degli svantaggi che deriverebbero dal proseguimento dell'azione criminosa'.

In applicazione di tate principio, si è affermato, sia pure con riferimento ad altra Ipotesi delittuosa (sequestro di persona a scopo di estorsione), che essendo tale delitto 'finalizzato al conseguimento di un ingiusto profitto quale prezzo della liberazione, per l'applicabilità della diminuzione di pena prevista per l'ipotesi del recesso attivo è richiesto un comportamento dell'agente o del concorrente dal quale sia derivata, anche In via mediata, la liberazione del sequestrato senza il versamento del riscatto, comportamento oggettivamente rilevante e soggettivamente volontario, anche se non spontaneo', precisandosi al riguardo che, 'stabilire se, in concreto, la liberazione dell'ostaggio sia conseguenza di un'attività positivamente diretta a tal fine costituisce un apprezzamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato' (così, Sez. 1, Sentenza n. 1435 del 16/10/1985, dep. 14/02/1986, Rv. 171908, imp. Scravaglieri).

Orbene è agevole rilevare che i giudici di merito hanno fatto corretta e puntuale applicazione di tali principi, avendo ritenuto che l'imputato non solo non aveva provveduto ad assicurare fattivamente il tempestivo soccorso alle vittime nella immediatezza dell'aggressione perpetrata, ma hanno escluso altresì, con motivazione plausibile ed aderente alle risultanze processuali, che la segnalazione alla Questura fosse positivamente diretta a tal fine.

In particolare nella sentenza di primo grado, che forma parte integrante di quella di appello che ad essa espressamente rinvia, alle pagine 13 e 14 in cui viene riferito il contenuto dell'ampia confessione resa dall'imputato alla polizia giudiziaria, quale sintetizzato nell'annotazione 26 maggio 2009 in atti (ff. 973 e segg.) si legge in effetti che l'imputato 'accecato dall'ira, aveva colpito ripetutamente i due malcapitati fino a desumerne l'avvenuta morte' e che 'a quel punto aveva indossato il casco da motociclista e i guanti, sempre da moto, aveva spostato la 'vela' pubblicitaria a copertura del cadavere di P. e, per simulare una rapina, aveva prelevato il portafoglio di P., l'orologio, il portafoglio ed una borsa contenenti documenti di D.A. mettendo quanto asportato ed il martello utilizzato, tranne la borsa, all'interno di uno zainetto marca BMW che aveva lasciato la stessa mattina sopra la scrivania di D.A.. Era quindi uscito dall'autosalone indossando il casco con l'intenzione di allontanarsi dal posto, ma, giunto nei pressi detta sua moto, aveva deciso di proseguire a piedi In direzione di (OMISSIS) dove, davanti ad una videoteca, aveva gettato il tutto all'interno di un cassonetto della spazzatura. A quel punto, sempre a piedi, aveva ripercorso (OMISSIS) prendendola dalla parte superiore, tornando all'autosalone ...' infine 'chiamando il 113'. Da quanto sin qui osservato discende, quindi, che la convergente valutazione dei giudici di merito secondo cui la telefonata al 113, sebbene frutto di un'autonoma determinazione del M., non poteva intendersi come un'azione finalisticamente orientata ad impedire l'evento morte, ritenendo in realtà l'agente irreversibile il decesso, ma una condotta opportunistica e funzionale ad allontanare eventuali sospetti sulla sua persona, non può adora fondatamente ritenersi frutto di semplici congetture, il risultato di una 'lettura intimistica- e pertanto necessariamente arbitraria e soggettiva - dei motivi che avrebbero spinto il M. ad agire', come abilmente prospettato dalla difesa del ricorrente, ma una valutazione assolutamente logica e plausibile, dei tutto aderente alle risultanze processuali e segnatamente alle stesse ammissione dell'imputato.

Di talchè, le censure mosse dal ricorrente alla sentenza impugnata, con le quali -siccome postulanti un preteso travisamento del fatto - si chiede sostanzialmente il riesame nel merito della vicenda delittuosa, non consentito invece in sede di legittimità, risultano del tutto infondate.

2. Infondato risulta, altresì, anche il motivo di impugnazione relativo a pretese carenze motivazionali in merito all'esame delle censure sollevate nell'atto di appello relativamente al diniego delle attenuanti generiche da parte del primo giudice e, conseguentemente, alla misura della pena inflitta al ricorrente, ove si consideri che, contrariamente a quanto dedotto nel ricorso, i giudici di appello hanno proceduto ad una valutazione sul punto, espressamente evidenziando che la obiettiva gravità del fatto contestato all'imputato, che attraverso la sua condotta 'aveva trasformato una persona innocente, e del tutto estranea ai fatti, nella vittima di un omicidio e che nella sua azione impetuosa... aveva messo in pericolo la vita di un'altra persona, e per motivazioni che, se non futili, non appaiono in nessun modo tali da giustificare un'azione così violenta, determinata, persino spie tata' ostava all'accoglimento della richiesta dell'appellante in punto di concessione delle generiche e di conseguenza ad una significativa riduzione della pena inflitta dal primo giudice per il tentato omicidio (anni dieci e mesi sei di reclusione), ritenuta 'congrua, anche in relazione alle finalità di emenda, consustanziali all'applicazione della stessa (cfr. Corte Cost. 319/90)'.

Tale pur concisa motivazione, deve ritenersi, infatti, del tutto conforme a principi ripetutamente affermati da questa Corte, secondo cui:

- ai fini dell'assolvimento dell'obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall'Imputato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l'uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l'indicazione delle ragioni ostative alla concessione e delle circostanze ritenute di preponderante rilievo' (così ex multis Cass., sez. 2, sentenza n. 2285 dell'11/10/2004 - 25/1/2005, riv.

230691, imp. Alba);

- l'obbligo della motivazione in ordine alla entità della pena irrogata deve ritenersi sufficientemente osservato, qualora il giudice dichiari di ritenere 'adeguata' o 'congrua' o 'equa' la misura della pena applicata o ritenuta applicabile nel caso concreto, essendo la scelta di tali termini, infatti, sufficiente a far ritenere che il giudice abbia tenuto conto, intuitivamente e globalmente, di tutti gli elementi previsti dall'art. 133 c.p.' (in tal senso, ex multis Cass., Sez. 6, Sentenza n. 7251, dell'11/01/1990, dep. 24/05/1990, riv.. 184395, imp. Alaovi).

3. Ai rigetto del ricorso consegue (art. 616 c.p.p.) la condanna del ricorrente, al pagamento delle spese processuali, nonchè alla refusione delle spese sostenute in questo giudizio dalla parte civile D.A.A., che liquida in euro quattromila, onorari compresi, oltre accessori come per legge.

 

P.Q.M.

 
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè alla refusione delle spese sostenute in questo giudizio dalla parte civile D.A.A., che liquida in Euro quattromila, onorari compresi, oltre accessori come per legge.
Avv. Antonino Sugamele

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