Canederli dolci con salsa di vaniglia con alta concentrazione di stafilococco. Rispondono penalmente e civilmente il cuoco e il proprietario del ristorante.
Corte di Cassazione Sez. Terza Pen. - Sent. del 23.01.2012, n. 2686
Ritenuto in fatto
1. - Con sentenza dell'8 luglio 2009, il Tribunale di Bolzano ha condannato gli imputati, in relazione al reato di cui agli arrt. 110 c.p, e 5, lettera d), della legge numero 283 del 1962, per avere, il primo nella sua qualità di legale rappresentante e titolare della licenza di un ristorante, il secondo come capocuoco, preparato nel locale dei canederli dolci con salsa di vaniglia, destinati alla somministrazione agli ospiti e contenenti un'alta concentrazione positiva di stafilococco.
2. - La sentenza è stata impugnata dagli imputati, tramite il difensore, con ricorso per cassazione.
Con un primo motivo di doglianza, si denuncia l'erronea applicazione dell'articolo 43 c.p. e della disposizione incriminatrice, sul rilievo che mancherebbe la prova della colpa, perché la vaniglia era conservata in frigorifero ed era impossibile un controllo chimico preventivo degli ingredienti con cui era preparata.
Si deduce, in secondo luogo, l'erronea applicazione dell'articolo 40 c.p. e della norma incriminatrice, sul rilievo che non era possibile al titolare impedire l'evento - che peraltro non aveva l'obbligo giuridico di impedire - in quanto lo stesso si era comunque verificato per ragioni indipendenti dalla salsa di vaniglia. Era infatti probabile che lo stafilococco fosse stato trasmesso alla salsa da alcuni avventori del ristorante.
Con un terzo motivo di doglianza, si denuncia la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, deducendo che: a) la salsa era stata conservata nel rispetto della normativa sull'igiene alimentare, in un vassoio di vetro coperto in frigorifero, nell'ambito di un locale pulito e a temperatura regolare; b) vi erano 14 persone appartenenti a un gruppo, di cui solo 7 avevano mangiato al ristorante in questione, mentre in 10 erano stati sottoposti a esami medici, che avevano dato esito positivo allo stafilococco, con la conseguenza che lo stafilococco stesso non poteva provenire da ristorante; c) le persone del gruppo appartenevano un gruppo più grande di 53 persone che alloggiava in una pensione ed anche una dipendente della stessa pensione era stata colpita dallo stafilococco; d) vi erano due dipendenti del ristorante che erano stati colpiti dallo stafilococco senza problemi fisici o febbre; circostanza non tenuta in considerazione dal giudice; e) lo stesso giorno erano stati preparate e vendute circa 60 porzioni della salsa di vaniglia e nessuno, all'infuori dei componenti del gruppo tedesco, aveva manifestato malori.
Si lamenta, con un quarto motivo di doglianza, l'inosservanza degli artt. 190, comma 1, 495, comma 2, c.p.p., per la negata acquisizione probatoria degli esami sanitari dei due dipendenti di cui alla lettera d). Rileva Ia difesa che l'acquisizione di tale prova sarebbe stata importante per dimostrare che tali due dipendenti, neanche due mesi prima dei fatti erano assolutamente sani e non avevano reso dedotti gli imputati di eventuali malattie, con l'ulteriore conseguenza che nessuna culpa in vigilando era attribuibile a questi ultimi.
Considerato in diritto
3. - l motivi di doglianza, che possono essere trattati congiuntamente, sono inammissibili, perché sostanzialmente diretti a contestare la ricostruzione del fatto contenuta nella sentenza di primo grado.
La sentenza impugnata contiene una motivazione analitica e logicamente corretta su tutti i profili oggetto di contestazione da parte degli imputati e, in particolare: a) è stato accertato che un gruppo di vacanzieri aveva mangiato presso il ristorante e presentava, a seguito delle analisi eseguite, il batterio sopra descritto; b) dalla dichiarazione dell'ispettore B. risulta che dovrebbero aver mangiato presso il ristorante tra le 5 e le 10 persone, mentre presso la pensione dove il gruppo dei 53 turisti alloggiava non erano stati prelevati campioni di alimenti, con la conseguenza che la provenienza dello stafilococco da ristorante stesso risultava incontestabile; c) la salsa era stata preparata dal capocuoco e conteneva effettivamente lo stafilococco, con la conseguenza che sia questo sia il titolare della licenza dovevano essere chiamati a rispondere del reato; d) quest'ultimo, infatti, non aveva adempiuto all'obbligo di vigilanza in qualità di preposto ed avendo scelto un capocuoco inidoneo.
Tali univoche e concludenti considerazioni escludono in radice la fondatezza della prospettazione alternativa proposta dai ricorrenti, secondo cui lo stafilococco sarebbe stato portato nel ristorante e, di conseguenza, nei canederli che lo contenevano o da due dipendenti del ristorante stesso o dai clienti che ne avevano accusato la presenza. Quanto alle censure relative alle modalità di conservazione della vaniglia e alla mancata acquisizione degli esami medici dei due dipendenti del ristorante, le stesse appaiono evidentemente irrilevanti, in presenza della prova che la vaniglia contenente il batterio era stata preparata nel ristorante dal cuoco imputato.
Deve, dunque, farsi richiamo alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il controllo sulla motivazione demandato al giudice di legittimità resta circoscritto, in ragione della espressa previsione normativa dell'art. 606, primo comma, lettera e), c.p.p., al solo accertamento sulla congruità e coerenza dell'apparato argomentativo, con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo, e non può risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o dell'autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti (ex plurimis, tra le pronunce successive alle modifiche apportate all'art. 606 c.p.p. dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46: Sez, VI, 29 marzo 2006, n. 10951; Sez. VI, 20 aprile 2006, n. 14054; Sez. III, 19 marzo 2009, n. 12110; Sez, I, 24 novembre 2010, n. 45578; Sez. III, n. 8096 del 2011).
4. - I ricorsi, conseguentemente, devono essere dichiarati inammissibili.
Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186 della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in Euro 1.000.00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti ciascuno al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Depositata in Cancelleria il 23.01.2012
27-01-2012 00:00
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