Azienda di Pordenone usa semi di mais geneticamente modificato. Per la Cassazione puo' farlo a condizione che vi sia assenso della Regione.
Corte di Cassazione, sez. Terza Pen. - Sent. del 22.03.2012, n. 11148
Presidente Squassoni - Relatore Fiale
Fatto e diritto
Il Tribunale monocratico di Pordenone quale giudice del dibattimento, con provvedimento dell'1.4.2011, disponeva il sequestro preventivo di tutti i beni costituenti l'azienda dell'impresa individuale (…) di F.G. , ritenendo configurabile, nei confronti del F. , il fumus della contravvenzione di cui agli artt. 81 cpv cod. pen. e 1, comma 5, del D.Lgs. 24.4.2001, n. 212, per avere messo in coltura, in carenza della prescritta autorizzazione, sementi di mais geneticamente modificati (GM) in due diversi terreni siti in (…) .
Avverso tale provvedimento applicativo della misura di cautela reale il F. proponeva istanza di riesame, con la quale - non contestando la sussistenza del fatto storico - eccepiva invece l'inconfigurabilità del fumus commissi delicti.
Secondo la prospettazione difensiva:
a) I semi di mais GM messi a coltura (del tipo MON 810) costituivano oggetto di rituale “autorizzazione per l'immissione in commercio” rilasciata con decisione della Commissione n. 98/294/CE del 22.4.1998, e le relative varietà erano iscritte nel Catalogo comune Europeo delle varietà di specie di piante agricole: di quei semi, pertanto, doveva ritenersi consentita la libera commercializzazione ed anche la libera messa a coltura.
b) L'art. 1 del D.Lgs. n. 212/2001 - laddove prevede che la messa a coltura dei semi GM è soggetta ad ulteriore autorizzazione del Ministero delle politiche agricole e forestali (di concerto con i Ministeri dell'ambiente e della sanità e previo parere tecnico di una Commissione prevista dal comma 3 del medesimo articolo) - avrebbe introdotto una “regola tecnica” per l'uso di un prodotto che, ai sensi dell'art. 8, n. 1, della Direttiva 98/34/CE, avrebbe richiesto una previa notifica alla Commissione Europea, adempimento che non sarebbe stato effettuato. Ciò avrebbe imposto al giudice del riesame di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di Giustizia la questione pregiudiziale relativa alla natura della disposizione normativa contestata, nonché - in caso di positivo inquadramento di quella autorizzazione in una delle categorie In cui si articola la nozione di “regola tecnica” di cui all'art. 1, punto 11, della Direttiva 98/34/CE - di disapplicare la disposizione nazionale in quanto violatrice delle regole comunitarie poste a tutela della libera circolazione delle merci.
Il Tribunale di Pordenone, con ordinanza del 21.4.2011, rigettava l'istanza di riesame affermando (anche attraverso il richiamo alle argomentazioni svolte dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 183/2010) il principio secondo il quale nelle normative comunitarie di riferimento (le Direttive CE nn. 95 e 96 del 1998 e n. 18 del 2001) ed in quelle nazionali che le hanno recepite (i decreti legislativi n. 212/2001 e n. 224/2003) i concetti di “commercializzazione” e di “utilizzo attraverso remissione deliberata nell'ambiente” di prodotti geneticamente modificati (OGM) sono nettamente distinti: entrambe le attività necessitano di una previa autorizzazione, ma “l'autorizzazione rilasciata ad un fine non ha nulla a che fare con quella occorrente per l'altro fine”. In tale assetto disciplinare l'iscrizione di un tipo di sementi GM al Catalogo comune Europeo costituisce una forma di autorizzazione riferita alla sola commercializzazione e non alla messa a coltura delle sementi GM.
Avverso l'ordinanza di rigetto del Tribunale per il riesame ha proposto ricorso per cassazione il difensore del F. , il quale - sotto il profilo della violazione di legge - ha eccepito:
- la erroneità della ricostruzione del quadro normativo di riferimento;
- la incongruità della distinzione tra autorizzazione per l'emissione deliberata in ambiente (semina) ed autorizzazione per la commercializzazione, in quanto la seconda già ricomprenderebbe la prima;
- la estraneità al quadro giuridico previsto dalla Direttiva 2001/18/CE delle prescrizioni ulteriormente autorizzative di cui ai commi da 2 a 7 dell'art. 1 del D.Lgs. n. 212/2001, che conterrebbero regole tecniche, ed il loro palese contrasto con i principi comunitari in tema di libera circolazione delle merci.
Le anzidette doglianze sono state ulteriormente illustrate con memoria depositata il 31.10.2011, ove vengono prospettate ulteriori pretese violazioni della disciplina nazionale ai principi posti dalla Direttiva 2001/18/CE ed at “principio di coesistenza tra le colture” quale delineato in ambito Europeo.
Il ricorso deve essere rigettato, poiché infondato.
1. La delibazione del gravame impone una ricognizione preliminare del quadro normativo di riferimento, Europeo e nazionale. Va evidenziato, pertanto, che:
- Il nostro ordinamento, con il D.Lgs. 24 aprite 2001, n. 212 (Attuazione delle Direttive 98/95/CE e 98/96/CE concernenti la commercializzazione dei prodotti sementieri, il catalogo comune delle varietà dette specie di piante agricole e relativi controlli) prevede che la messa a coltura dei prodotti sementieri sia soggetta ad una specifica autorizzazione (art. 1, comma 2), che mira a garantire i prodotti sementieri tradizionali dal contatto con quelli geneticamente modificati e che questi ultimi non arrechino danno biologico all'ambiente circostante, tenuto conto delle peculiarità agro-ecotogiche, ambientali e pedoclimatiche.
Si tratta di un provvedimento che il Ministro delle politiche agricole e forestali deve rilasciare di concerto con il Ministro dell'ambiente e con quello della salute, previo parere della Commissione per i prodotti sementieri di varietà geneticamente modificate (art. 1, comma 3). Questa Commissione, in particolare, deve indicare le condizioni tecniche da seguire nella messa a coltura di sementi OGM.
- La Direttiva 2001/18/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, ha fissato la normativa che presiede alle forme di utilizzo e di circolazione degli OGM in quanto tali (come prodotto da sperimentare in campo aperto, o come semente destinata prima alla vendita e poi alta semina), esclusi soltanto l'impiego di microrganismi GM in ambiente confinato e la circolazione sul mercato di OGM già raccolti, costituenti alimenti in quanto tali o ingredienti di altri alimenti.
Trattasi di una disciplina che persegue le finalità di garantire la tutela dell'ambiente, della vita e della salute di uomini, animali e piante, e di assicurare che remissione in campo aperto e la vendita di un prodotto autorizzato in quanto conforme alla disciplina medesima non possano essere impedite posto che, fino a prova contraria, tale prodotto non deve essere considerato un pericolo.
Gli Stati membri possono opporsi alla circolazione dei soli organismi non autorizzati secondo la Direttiva e ad essi - sotto il profilo del rischio ambientale e sanitario - è vietato impedire o anche soltanto limitare la immissione in commercio o remissione nell'ambiente di un OGM se non nei casi previsti dalla c.d. “clausola di salvaguardia” (art. 23 della Direttiva). A norma dell'art. 23, 1 comma, della Direttiva 2001/18/CE; “Qualora uno Stato membro, sulla base di nuove o ulteriori informazioni divenute disponibili dopo la data dell'autorizzazione e che riguardino fa valutazione di rischi ambientali o una nuova vantazione delle informazioni esistenti basata su nuove o supplementari conoscenze scientifiche, abbia fondati motivi di ritenere che un OGM come tate o contenuto in un prodotto debitamente notificato e autorizzato per iscritto in base alla presente direttiva rappresenti un rischio per la salute umana o l'ambiente, può temporaneamente limitarne o vietarne l'uso o la vendita sol proprio territorio.
Lo Stato membro provvede affinché, in caso di grave rischio, siano attuate misure di emergenza, quali la sospensione o la cessazione dell'immissione in commercio, e l'informazione del pubblico. Lo Stato membro informa immediatamente la Commissione e gli altri Stati membri circa te azioni adottate a norma dei presente articolo e motiva la propria decisione, fornendo un nuovo giudizio sulla valutazione di rischi ambientali, indicando se e come le condizioni poste dall'autorizzazione debbano essere modificate o l'autorizzazione debba essere revocata e, se necessario, le nuove o ulteriori informazioni su cui è basata la decisione”.
- I principi fissati dalla predetta Direttiva sono stati recepiti, in Italia, con il D.Lgs. 8 luglio 2003, n. 224.
- La Commissione Europea, poi, con i Regolamenti nn. 1829/2003 e 1830/2003, ha completato la disciplina contenuta nella Direttiva del 2001, stabilendo ulteriori regole che condizionano e rendono più rigorosa l'autorizzazione e la successiva presenza sul mercato, senza tuttavia mutare il principio di armonizzazione che fa prevalere la libera circolazione delle merci ed al quale gli Stati, in presenza di un prodotto conforme alla normativa comunitaria, non possono opporsi.
L'art. 26 bis della Direttiva 2001/18/CE (introdotto dal Regolamento CE 1829/2003) prevede, però, la possibilità per gli Stati membri di adottare tutte le misure opportune per evitare la presenza involontaria di organismi geneticamente modificati (OGM) in altri prodotti (c.d. misure di coesistenza), in particolare per: evitare la presenza di OGM in altre colture, come le cotture convenzionali o biologiche; prevenire l'impatto della eventuale commistione, che non consentirebbe ai produttori ed ai consumatori di scegliere tra produzione convenzionale, biologica e geneticamente modificata; prevenire la potenziale perdita economica che verrebbe indotta dalla presenza involontaria di OGM in altri prodotti.
- La stessa Commissione Europea, con Raccomandazione 2003/556/CE del 23 loglio 20Q3, ha invitato gli Stati membri ad adottare ogni misura opportuna per limitare gli effetti economici connessi alle potenzialità diffusive degli OGM, evitando per quanto possibile che essi contaminino colture diverse.
- Il legislatore nazionale, con il D.L. 22 novembre 2004, n. 279, convertito dalla legge 28 gennaio 2005, n. 5, ha fissato la disciplina interna per assicurare la coesistenza tra le forme di agricoltura transgenica, convenzionale e biologica, prevedendo, anzitutto, l'obbligo di adottare “piani di coesistenza” tra le diverse colture, “al fine di non compromettere la biodiversità dell'ambiente naturale e di garantire la libertà di iniziativa economica, il diritto di scelta dei consumatori e la qualità e la tipicità detta produzione agroalimentare nazionale” (art. 1, comma 1, del D.L. n. 279/2004).
- La Raccomandazione 2003/556/CE è stata abrogata e sostituita dalla Raccomandazione 2010C200/01 del 13 luglio 2010, che, alla stregua del principio di coesistenza, ha ribadito la necessità di “combinare il sistema di autorizzazione dell'Unione Europea, basato sulla scienza, con la libertà per gli Stati membri di decidere se autorizzare o meno la coltivazione di OGM nel loro territorio “, sicché proprio “a livello di Stati membri” devono essere stabilite le misure per evitare la presenza involontaria di OGM nelle colture convenzionali e biologiche.
2. La giurisprudenza amministrativa (Vedi, in particolare, T.a.r. Lazio - Roma, Sez. II ter, n. 2378/2010), in relazione alla disciplina dianzi ricordata, ha evidenziato che la normativa comunitaria in materia di OGM, da un lato, ha inteso regolare ogni aspetto incidente sulla loro circolazione, condizionandola ad un'ampia vantazione ambientale e sanitaria, dall'altro, ha lasciato agli Stati membri la facoltà di “adottare tutte le misure opportune per evitare la presenza involontaria di OGM in altri prodotti”, facendo intendere che, fra quelle misure, vi sono anche le regole tecniche agronomiche volte ad evitare la commistione del materiale genetico tra le diverse colture.
La disciplina comunitaria, dunque, si occupa di tutelare l'ambiente, la vita e fa salute di uomini, animali e piante, ma consente alla normativa interna la possibilità di adottare le misure più opportune per limitare gli effetti economici connessi alle potenzialità diffusive degli OGM e, quindi, non compromettere la biodiversità dell'ambiente naturale in modo da garantire la libertà di iniziativa economica, il diritto di scelta dei consumatori e la qualità e la tipicità della produzione agroalimentare nazionale.
La normativa comunitaria, in altre parole, lascia alla legislazione degli Stati membri la possibilità di adottare ogni misura preventiva in grado di evitare commistioni fra prodotti individuando le modalità più idonee in grado di far convivere tra loro le tre “filiere” (agricoltura transgenica, convenzionate e biologica).
Anche il Consiglio di Stato (Sez. VI, 19 gennaio 2010, n. 183) ha dato atto dell'immanenza, in ambito nazionale, del principio di coesistenza di derivazione comunitaria.
Con la decisione anzidetta (seppure in una controversia avente ad oggetto il silenzio dell'amministrazione ex art. 21 bis della legge TAR) è stato precisato che “il rilascio dell'autorizzazione alla coltivazione non può essere condizionato alla previa adozione dei piani di coesistenza” e che “non si può ritenere che in attesa dei c.d. piani di coesistenza regionali, venga meno l'obbligo di istruzione e conclusione dei procedimenti autorizzatori disciplinati… da fonti legislative (e regolamentari) diverse dal DL. n. 279/2004″ In ragione di ciò, il giudice di appello, senza tuttavia pronunciarsi sulla fondatezza dell'istanza di parte ricorrente, ha ordinato al Ministero resistente di concludere il procedimento avviato a norma del D.Lgs. n. 212/2001 con l'adozione di un provvedimento espresso.
3. La Corte Costituzionale - con là sentenza n. 116/2006 - ha dichiarato l'illegittimità degli artt. 3, 4, 6, commi 1 e 2, 7 e 8 del D.L. n. 279/2004 (disposizioni che rimettevano allo Stato la competenza ad adottare le norme quadro alle quali le singole Regioni avrebbero dovuto attenersi per redigere i piani di coesistenza), affermando che la materia non rientra tra quelle riservate dall'art. 117, commi 2 e 3, della Costituzione alla competenza statale, in via esclusiva (tutela ambiente) o concorrente (tutela della salute), bensì è rimessa alla competenza delle Regioni (art. 117, comma 4)
La Consulta, però, non avendo dichiarato illegittimi gli artt. 1 e 2 del D.L. n. 279/2004, ha fatto salvo il principio di coesistenza, stabilendo che le diverse colture (tra cui gli OGM) siano praticate senza reciprocamente compromettersi, in modo da tutelare le peculiarità e le specificità produttive di ciascuna e da evitare commistioni tra sementi e senza pregiudizi per le attività agricole preesistenti (che non debbono trovarsi costrette a modificare o adeguare le loro tecniche di coltivazione e allevamento), assicurando agli agricoltori, agli operatori e ai consumatori la possibilità di scelta attraverso la separazione delle rispettive filiere.
4. Alla stregua delle chiare enunciazioni della disciplina Europea, delle argomentazioni svolte dai giudici amministrativi e delle deduzioni che possono trarsi dalle considerazioni della Corte Costituzionale, questo Collegio ritiene di dovere ribadire, dunque, che esiste in ambito Europeo e nazionale il “principio di coesistenza” e che gli artt. 1 e 2 del D.L. n. 279/2004 sono ricognitivi ed espressione di principi comunitari nella parte in cui tendono a salvaguardare l'agricoltura (anche) tradizionale ed a mettere i consumatori nelle condizioni di potere effettuare scelte in maniera oculata.
In questo quadro, le modalità di attuazione del principio di coesistenza, proprio in ragione dei fini a cui è ispirato, sono rimesse alla competenza delle singole Regioni (in ossequio a quanto affermato dalla Corte Costituzionale) che, tuttavia, dovranno coordinarsi tra loro, in uno spirito di leale collaborazione, nel momento in cui si tratterà di regolare la coltivazione in ambiti territoriali confinanti, rientranti cioè nella competenza di due distinti enti regionali.
5. Nell'Unione Europea possono essere coltivati solo OGM esplicitamente autorizzati per la coltivazione a norma della Direttiva 2001/128/CE e del Regolamento CE n. 1829/2003, e gli aspetti ambientali e sanitari sono già contemplati dalla valutazione del rischio ambientale della procedura comunitaria di autorizzazione; restano demandati, invece, agli Stati membri, nel quadro della coesistenza, gli aspetti economia connessi alla commistione tra colture transgeniche e non transgeniche.
Nel nostro ordinamento, pertanto, per una attuazione adeguata del principio di coesistenza, la specifica autorizzazione prescritta dall'art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 212/2001, in coerenza con le previsioni dell'art. 2 del D.L. n. 279/2004, si pone come provvedimento ulteriore e diverso rispetto all'autorizzazione conseguita attraverso l'iscrizione di un tipo di sementi GM al Catalogo comune Europeo.
Quest'ultima è riferita alla circolazione ed alla commercializzazione degli OGM in ambito comunitario, si da garantire (in seguito ad una valutazione completa del rischio ambientale e sanitario) la circolazione di prodotti che non siano pericolosi per la vita e la salute di uomini, animali e piante.
L'autorizzazione che la normativa nazionale richiede per la messa in coltura, invece, è rivolta a perseguire la finalità (specificamente riconosciuta dalla disciplina Europea) che le colture transgeniche vengano introdotte senza pregiudizio per le attività agricole preesistenti, sicché:
a) le domande rivolte ad ottenerne il conseguimento devono fornire specifiche e fondamentali notizie circa la localizzazione geografica delle coltivazioni, l'estensione degli appezzamenti destinati alla coltivazione per ciascuna varietà GM, la tipologia di coltivazione che si intende effettuare, la presenza nei fondi limitrofi di aree protette e/o di protezione, l'indicazione dei mezzi meccanici da utilizzare per te operazioni colturali e di post-raccolta, l'applicazione di misure di precauzione per prevenire l'inquinamento di colture convenzionali;
b) il provvedimento autorizzatorio, a sua volta, può stabilire misure concrete idonee a garantire che le colture derivanti da prodotti sementieri di varietà geneticamente modificate non entrino in contatto, nelle fasi di coltivazione, con le colture derivanti da prodotti sementieri tradizionali e non arrechino danno biologico all'ambiente circostante, tenuto conto delle peculiarità agro-ecologiche, ambientali e pedoclimatiche (cosi C. Stato. Sez. VI, 15.11.2010, n. 8053).
Appare opportuno ricordare in proposito che, ai fini del provvedimento ministeriale sull'istanza di autorizzazione, è necessario ottemperare altresì alla serie di adempimenti previsti dalla speciale disciplina sementiera.
È, infatti, la Commissione per i prodotti sementieri di varietà geneticamente modificate, che, una volta costituita su base paritetica Stato - Regioni, oltre a dover rilasciare il parere sull'istanza di autorizzazione di messa a coltura, deve verificare l'assenza di rischi anche con riguardo alle eventuali conseguenze sui sistemi agrari, tenuto conto delle peculiarità agro ecologiche e pedoclimatiche.
Tali valutazioni, richieste dall'articolo 20-bis della legge 25 novembre 1971, n. 1096, devono essere svolte non soltanto in riferimento ai principi della normativa comunitaria in materia di emissione deliberata nell'ambiente (Direttiva 2001/18/CE), ma anche al principio di precauzione del Trattato di Amsterdam, alla Convenzione sulla diversità biologica delle Nazioni Unite, al protocollo sulla biosicurezza di Cartaghena.
La stessa legge n. 1096/1971 di disciplina dell'attività sementiera - al di là della operatività della clausola di salvaguardia di cui all'articolo 23 della direttiva 2001/10/CE - assegna al Ministro delle politiche agricole e forestali la possibilità di richiedere alla Commissione Europea l'autorizzazione a vietare, in tutto o in parte del territorio nazionale, la commercializzazione delle sementi geneticamente modificate, se è accertato che la coltivazione di una varietà iscritta al Catalogo comune Europeo possa nuocere a quella di altre varietà o specie, oppure se possa presentare un rischio per la salute umana o per l'ambiente, anche con riguardo alle eventuali conseguenze sui sistemi agrori, tenuto conto delle peculiarità agro ecologiche e pedoclimatiche (art. 20-bis, di recepimento dell'articolo 16 della Direttiva 2001/53/CE). Ai sensi di questa legge, inoltre, il Ministro delle politiche agricole e forestali può chiedere alla Commissione Europea di essere autorizzato a vietare t'impiego di una varietà OGM iscritta nel Catalogo comune qualora, ad esempio, sia appurato che la coltivazione di tale varietà possa risultare dannosa dai punto di vista fitosanitario per la coltivazione di altre varietà o specie, oppure qualora in base ad esami ufficiali in coltura si sia constatato che la varietà non produce, in nessuna parte del territorio di tale Stato, risultati corrispondenti a quelli ottenuti con un'altra varietà comparabile ammessa nel suo territorio o se è notorio che la varietà, per natura e classe di maturità, non è atta ad essere coltivata in alcuna parte del territorio di detto Stato membro (articolo 20-ter, di recepimento dell'articolo 18 della Direttiva 2001/53/CE).
Proprio facendo leva su queste prerogative, la Commissione Europea, con la decisione 2006/338/CE dell'8 maggio 2006, ha autorizzato la Repubblica di Polonia a vietare sul proprio territorio l'impiego di alcune varietà di granturco iscritte al catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole per ragioni legate a fattori chinatici ed agricoli.
6. Infondata deve ritenersi pure la prospettata necessità di verificare la qualificazione dell'autorizzazione prescritta dall'art. 1 del D.Lgs. n. 212/2001 come “regola tecnica” che, ai sensi delle Direttive Europee 83/189/CEE e 98/34/CEE, dovrebbe essere notificata dallo Stato alla Commissione della Comunità Europea (con la conseguenza che, non essendosi provveduto a tale notifica, la disciplina che prescrive il provvedimento autorizzatorio) non potrebbe essere fatta valere nei confronti dei privati e dovrebbe essere disapplicata dal giudice nazionale).
Va osservato in proposito che:
- Gli artt. 8 e 9 della Direttiva 98/34/CEE impongono agli Stati membri, da un lato, di comunicare alla Commissione delle Comunità Europee i progetti di “regole tecniche” che rientrano nell'ambito di applicazione della direttiva in parola (secondo le tre categorie di cui all'art. 1, punto 11), salvo che si tratti del semplice recepimento integrale di una norma internazionale o Europea.
- L'autorizzazione prescritta dall'art. 1 del D.Lgs. n. 212/2001, però, si pone proprio quale recepimento del principio di coesistenza di derivazione comunitaria e della relativa disciplina Europea (art. 26 bis della Direttiva 2001/18/CE e Raccomandazione 2010C200/01 del 13 luglio 2010, atto quest'ultimo non vincolante emanato proprio in una situazione in cui la Commissione Europea ha ritenuto di dovere soltanto fornire orientamenti per l'elaborazione delle misure nazionali a fronte di norme vincolanti già esistenti).
Non si configura, pertanto una questione di interpretazione da sottoporre alla Corte Europea di Giustizia.
7. Secondo la giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte Suprema, nei procedimenti incidentali aventi ad oggetto il riesame di provvedimenti di sequestro:
- la verifica delle condizioni di legittimità della misura da parte del Tribunale non può tradursi in una anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità dell'indagato in ordine al reato o ai reati oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra fattispecie concreta e fattispecie legale ipotizzata, mediante una valutazione prioritaria ed attenta della antigiuridicità penale del fatto (Cass., Sez. Un., 7.11.1992, ric. Midolini);
- “l'accertamento della sussistenza del fumus commissi delicti va compiuto sotto il profilo della congruità degli elementi rappresentati, che non possono essere censurati in punto di fatto, per apprezzarne la coincidenza con le reali risultanze processuali, ma che vanno valutati così come esposti, al fine di verificare se essi consentono di sussumere l'ipotesi formulata in quella tipica. Il Tribunale, dunque, non deve instaurare un processo nel processo, ma svolgere l'indispensabile ruolo di garanzia, tenendo nel debito conto le contestazioni difensive sull'esistenza della fattispecie dedotta ed esaminando sotto ogni aspetto l'integralità dei presupposti che legittimano il sequestro” (Cass., Sez. Un., 29.1.1997, n. 23, ric. P.M. in proc. Bassi e altri).
Alla stregua dei principi dianzi enunciati e della ricostruzione dei fatti operata dal Tribunale, deve rilevarsi che, nella fattispecie in esame, sussiste sicuramente il “fumus” della contravvenzione ipotizzata.
L'ulteriore approfondimento e la compiuta verifica spettano al giudice del merito ma, allo stato, a fronte dei prospettati elementi, della cui sufficienza in sede cautelare non può dubitarsi, le contrarie argomentazioni del ricorrente non valgono certo ad escludere la legittimità della misura adottata.
8. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Depositata in Cancelleria il 22.03.2012
26-03-2012 00:00
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