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Sentenza

SEGRETI D'UFFICIO. CAMBIO DI SESSO RIVELATO: IL RESPONSABILE DELL'UFFICIO ANAGRAFE RISCHIA LA CONDANNA
SEGRETI D'UFFICIO. CAMBIO DI SESSO RIVELATO: IL RESPONSABILE DELL'UFFICIO ANAGRAFE RISCHIA LA CONDANNA
Cassazione, sez. VI, 16 settembre 2011, n. 34249

(Pres. Mannino – Rel. Calvanese)

 

 

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Catanzaro, in accoglimento dell'appello proposto dall'imputato P.M.S. avverso la sentenza del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Vibo Valentia che, all'esito di giudizio abbreviato, lo aveva condannato per il reato di rivelazione di segreti di ufficio, lo assolveva dal reato a lui ascritto per non aver commesso il fatto.

Secondo il primo giudice, il P., violando i doveri inerenti le proprie funzioni di responsabile dell'Ufficio Anagrafe del Comune di … e abusando del proprio ufficio, in epoca prossima all'(omissis) aveva rivelato a terzi non legittimati e segnatamente a G.A..S., l'avvenuta rettifica, a seguito di sentenza del tribunale, dell'attribuzione del sesso ad un parente di quest'ultimo.

Secondo la Corte di appello, pur risultando altamente probabile che la notizia in possesso dello S. era stata appresa attingendo ai dati in possesso dell'Ufficio Anagrafe del Comune, non risultava invece certo che fosse stato proprio l'imputato a rivelarla illecitamente a terzi, avendo avuto anche altri impiegati del medesimo Comune - in caso di assenza del P.    o per ragioni di protocollazione - accesso agli atti in questione.

I giudici a quibus ritenevano non rilevante la circostanza rivelata da alcuni parenti della parte civile - ovvero che, durante una riunione, lo S. avrebbe riferito loro di essere in grado di dimostrare l'avvenuto cambiamento di sesso, con la produzione di copia della sentenza di rettifica dell'attribuzione di sesso - in quanto costui, sentito a sommarie informazioni, non aveva dato riscontro alle suddette dichiarazioni, negando sia di conoscere personalmente il P. sia di aver contattato personale del Comune per attingere notizie sulle vicende personali della cognata. Con la conseguenza - secondo la Corte distrettuale - che non era possibile effettuare una valutazione comparativa tra le deposizioni in contrasto, dovendosi procedere alla valutazione probatoria, secondo i canoni generali, soltanto della deposizione diretta, rimanendo quelle de relato un “mero elemento indiziario privo di credibile riscontro”.

2. Avverso la suddetta sentenza, ricorre per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello di Catanzaro, chiedendone l'annullamento per il seguente motivo:

- la violazione dell'art. 195 c.p.p., con conseguente erronea applicazione dell'art. 326 c.p., e la violazione di cui all'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p..

Secondo il ricorrente, qualora il teste di riferimento sia stato citato e non abbia confermato le propalazioni della fonte mediata non si pone un problema di utilizzabilità, ma soltanto della valutazione dell'attendibilità del dichiarante de relato. Nel caso in esame, i giudici dell'appello, anziché procedere suddetta alla valutazione, si sarebbero limitati ad affermare che la deposizione indiretta rimaneva un mero elemento indiziario privo di credibile riscontro.

Con memoria depositata il 25 maggio 2011, il difensore di P.    ha chiesto che il ricorso sia rigettato o dichiarato inammissibile, avendo il giudice dell'appello correttamente applicato i principi di diritto in materia di valutazione delle dichiarazioni de relato.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato nei termini di seguito indicati.

2. Le dichiarazioni del teste de relato, secondo l'art. 195 c.p.p., sono inutilizzabili solo nella ipotesi in cui, sulla richiesta di parte, il giudice non chiami a deporre anche il teste diretto. Ma al di fuori di questa ipotesi, la norma non pone alcuna limitazione al valore probatorio delle testimonianze c.d. indirette. Queste, per conseguenza, devono essere configurate, al pari di ogni altra prova storica, come rappresentazione dello stesso fatto determinato che si assume di voler provare, sia pure soggettivamente mediata attraverso il testimone indiretto, e non già come una prova logica o indizio, che ha per oggetto un fatto diverso dal quale si può logicamente dedurre il fatto determinato che deve essere accertato.

L'art. 195 c.p.p. quindi non stabilisce alcuna “gerarchia” tra la testimonianza diretta e quella de relato, privilegiando l'uno mezzo di prova a scapito dell'altro, spettando al giudice - per il principio generale del libero convincimento - la scelta, ovviamente critica e motivata, della versione dei fatti da privilegiare.

Ciò comporta nel caso che, chiamato a deporre il teste di riferimento, detta persona abbia escluso la veridicità di quanto riferito dal teste de relato, il giudice può valutare le due deposizioni, dando attendibilità a quella “indiretta” piuttosto che alla fonte cui il teste abbia fatto riferimento (Sez. 3, n. 2010 del 30/11/2007, dep. 15/01/2008, Vitiello, Rv. 238626). Può solo convenirsi che la valutazione della testimonianza de relato deve essere condotta con particolare cautela e deve essere supportata da adeguata motivazione, pur dovendosi escludere che la stessa necessiti di elementi di riscontro a fini probatori.

3. Fatta questa premessa, deve constatarsi che i giudici a quibus non hanno fatto buon governo delle regole probatorie stabilite dal codice di rito, in quanto hanno svalutato a mero indizio le dichiarazioni aventi ad oggetto le circostanze apprese dallo S..

Tale errore, peraltro, non deriva nel caso di specie da un'erronea applicazione dei principi sopra richiamati, quanto piuttosto dal fatto che la Corte di merito, nell'applicare l'art. 195 c.p.p., non ha considerato la posizione assunta nella vicenda de qua dallo S.. La stessa sentenza impugnata invero ritiene che la rivelazione della notizia riservata sia stata “il risultato di sollecite ed invadenti ricerche” da parte di costui presso il Comune. Pertanto, il giudice, una volta constatato che, al momento in cui aveva reso le dichiarazioni alla polizia giudiziaria, questi non era effettivamente estraneo alle ipotesi accusatone allora delineate, non poteva applicare la disciplina di cui all'art. 195 c.p.p. (Sez. 5 n. 32906 del 31/05/2007, Capriati, Rv. 237117; Sez. 6 n. 49517 del 03/12/2009, Gandolfo, Rv. 245658), con la conseguenza che le dichiarazioni de relato - non essendo vietata la deposizione sulle dichiarazioni, aventi anche contenuto confessorio, rese, al di fuori della specifica sede processuale, a soggetti non preposti istituzionalmente a raccogliere le dichiarazioni degli indagati o imputati - erano suscettibili di libero apprezzamento da parte del giudice di merito.

Conclusivamente, l'errore di diritto in cui è incorso il Giudice della sentenza impugnata nella valutazione delle dichiarazioni aventi ad oggetto le circostanze apprese dallo S. ne determina l'annullamento, con conseguente rinvio, per nuovo giudizio, che tenga conto dei principi come sopra affermati, ad altra Sezione della Corte di appello di Catanzaro.

 

P.Q.M.

 

Annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra Sezione della Corte di appello di Catanzaro per nuovo giudizio.
Avv. Antonino Sugamele

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