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Sentenza

Non sussiste, per l'imprenditore, alcun obbligo di indicare il luogo di fabbricazione del prodotto creato, importato o commercializzato. Lo ha stabilito la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza 25 ottobre 2010, n. 37818
Non sussiste, per l'imprenditore, alcun obbligo di indicare il luogo di fabbricazione del prodotto creato, importato o commercializzato. Lo ha stabilito la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza 25 ottobre 2010, n. 37818
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III PENALE

Sentenza 23 settembre - 25 ottobre 2010, n. 37818

Svolgimento del processo

Con la sentenza in epigrafe la corte d'appello di Genova concesse il beneficio della non menzione e confermò nel resto la sentenza 15.11.2006 del giudice del tribunale di Genova, che aveva dichiarato D.B.S. colpevole del reato di cui alla L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49, e art. 517 c.p., per avere importato prodotti con segni distintivi nazionali atti ad indurre in inganno il compratore sull'origine e la provenienza del prodotto, condannandolo alla pena di mesi due di reclusione.

In particolare l'imputato aveva presentato alla dogana cartoni contenenti portafogli di pelle confezionati in Cina, con impressa sulla pelle la dicitura "Vera Pelle Italy" e solo in un angolo in basso un piccolo adesivo con la dicitura "Made in P.R.C.". La corte d'appello accertò che si trattava effettivamente di pelle italiana, acquistata in Italia ed inviata in Cina per la confezione dei portafogli. Osservò però che la scritta impressa sulla pelle poteva ingannare l'acquirente sul luogo di produzione del portafogli e che non era sufficiente l'apposizione di un cartellino indicante che il luogo di fabbricazione era in Cina perchè tale cartellino era costituito da un mero adesivo mentre l'indicazione avrebbe dovuto essere stampigliata a fuoco sul prodotto.

L'imputato propone ricorso per cassazione deducendo erronea interpretazione ed applicazione della L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49.

Rileva che la disposizione tutela l'affidamento dei consumatori circa la provenienza del prodotto da una data azienda, che ne assicura la qualità, e non da un determinato luogo. La dicitura "vera pelle Italy" stampata sul portafogli era vera, trattandosi di pelle italiana, e non poteva ingenerare confusione sull'origine del prodotto.

Motivi della decisione

Il ricorso è fondato perchè effettivamente la sentenza impugnata è viziata da violazione di legge nonchè da motivazione in parte apparente ed in parte manifestamente illogica.

Deve invero ricordarsi che questa Corte, prima dell'entrata in vigore della L. 23 luglio 2009, n. 99, ha con giurisprudenza costante ripetutamente affermato che, ai sensi dell'art. 517 c.p., e della L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49, (anche a seguito della modificazione apportata dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 1, comma 9), relativamente ai prodotti industriali, per "provenienza ed origine" della merce non deve intendersi (ad eccezione delle specifiche ipotesi espressamente previste dalla legge) la provenienza della stessa da un certo luogo di fabbricazione, totale o parziale, bensì la sua provenienza da un determinato imprenditore che si assume la responsabilità giuridica, economica e tecnica della produzione e si rende garante della qualità del prodotto nei confronti degli acquirenti (Sez. 3^, 7 luglio 1999, Thum, m. 214.438; Sez. 3^, 21 ottobre 2004, n. 3352/05, Scarpa, m. 231110; Sez. 3^, 17.2.2005, n. 13712, Acanfora, m. 231831; Sez. 3^, 19.4.2005, n. 34103, Tarantino, m. 232397; Sez. 3^, 2 marzo 2005, n. 23043, Dewar, m. 234468; Sez. 3^, 24.1.2007, n. 8684, Emili, m. 236087; Sez. 3^, 15 marzo 2007, n. 27250, Contarmi, m. 237812; Sez. 3^, 28.9.2007, n. 166/08, Parentini, m. 238560; e da ultimo Sez. 3^, 10.2.2010, Beltrame; Sez. 3^, 9.2.2010, Follieri).

In particolare, è stato più volte affermato che quando il marchio corrisponda effettivamente alla ditta che si assume la responsabilità e la garanzia della qualità della merce, è poi irrilevante che la ditta italiana sia stata solo importatrice o abbia anche partecipato alla produzione della merce, dal momento che essa si è comunque resa garante della qualità della merce stessa nei confronti degli eventuali acquirenti (Sez. 3^, 21 ottobre 2004, n. 3352/05, Scarpa, m. 231110; Sez. 3^, 17.2.2005, n. 13712, Acanfora, m. 231831; Sez. 3^, 19.4.2005, n. 34103, Tarantino, m. 232397; Sez. 3^, 2 marzo 2005, n. 23043, Dewar, m. 234468; Sez. 3^, 15 marzo 2007, n. 27250, Contarmi, m. 237812; Sez. 3^, 28.9.2007, n. 166/08, Parentini, m. 238560; Sez. 3^, 13 maggio 2008, Mazza), stato peraltro specificato che il reato è astrattamente configurabile solo quando, oltre al proprio marchio o alla indicazione della località in cui ha la sede, l'imprenditore apponga anche una dicitura con cui attesti espressamente che il prodotto è stato fabbricato in Italia o comunque in un paese diverso da quello di effettiva fabbricazione (paese da individuare secondo le disposizioni del codice doganale Europeo). In questi casi, invero, la falsa apposizione del marchio "made in Italy" o "prodotto in Italia" sarà punita ai sensi della L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49, mentre la falsa attestazione che il prodotto è stato fabbricato in un altro paese sarà comunque punita ai sensi dell'art. 517 c.p.. In questi casi, infatti, non ha più rilievo la provenienza da un dato imprenditore che assicura la qualità del prodotto, ma il fatto che la falsa specifica attestazione che il prodotto è stato fabbricato in un determinato paese è comunque idonea ad ingannare il consumatore e ad incidere sulle sue scelte (egli potrebbe indursi, per i più diversi motivi, ad acquistare o non acquistare un prodotto proprio perchè fabbricato o non fabbricato in un determinato luogo).

Con la precisazione che ciò può verificarsi solo quando sul prodotto sia apposta la specifica indicazione del suo luogo di produzione, e questo sia falso alla stregua dei criteri indicati dal codice doganale Europeo. Non è invece sufficiente l'indicazione di un marchio, o del nome della ditta o dell'impresa, o anche della località in cui ha sede questa impresa, o simili indicazioni, quando non sia indicato che il prodotto è fabbricato in Italia o in un altro determinato paese. Nè sono sufficienti indicazioni pubblicitarie che si riferiscono all'impresa e non al luogo di produzione.

Questa Corte ha anche ripetutamente affermato che è erronea la tesi che le disposizioni in esame (ossia la L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49, come modificato dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 1, comma 9, convertito dalla L. 14 maggio 2005, n. 80) avrebbero imposto agli imprenditori italiani, che commercializzano in Italia beni da essi o per essi prodotti all'estero, un obbligo di positiva indicazione del luogo in cui i beni importati sono materialmente prodotti.

Invero, almeno sulla base delle disposizioni di legge dianzi ricordate, non esiste alcun obbligo per l'imprenditore di indicare il luogo di fabbricazione del prodotto (anche se commercializzato con il suo marchio).

La suddetta tesi, del resto, non solo non trova fondamento nella lettera e nella ratìo delle disposizioni in questione, ma deve essere disattesa anche per la necessità di dare alle disposizioni stesse una interpretazione adeguatrice, che non rischi di porle in contrasto con i principi dell'Unione Europea e con quelli costituzionali (Sez. 3^, 2 marzo 2005, n. 23043, Dewar, m. 234468).

Ed invero, qualora un siffatto obbligo fosse posto unilateralmente soltanto dal legislatore nazionale e non anche dagli altri paesi della Comunità, potrebbe prospettarsi un pericolo di non conformità con i principi comunitari relativi alla libera circolazione dei beni e servizi ed alle misure di effetto equivalente. Un obbligo del genere potrebbe infatti avere l'effetto di scoraggiare i rapporti tra imprese situate in Stati membri diversi, potendo indurre l'impresa che deve far realizzare da altri i propri prodotti apponendovi il suo marchio, a rivolgersi all'industria nazionale invece che ad imprese situate in altri Stati membri. Del resto, proprio in applicazione di tali principi, gli organi dell'Unione Europea e la Corte di Giustizia si sono più volte espressi con disfavore in ordine alla marcatura di origine dei prodotti.

Un obbligo del genere, inoltre, potrebbe, in contrasto con gli artt. 3 e 41 Cost., portare ad una ingiustificata disparità di trattamento tra gli imprenditori nazionali e ad una compressione della libertà di iniziativa nei confronti di alcuni imprenditori nazionali. Ed invero, sarebbe consentito solo agli imprenditori nazionali che si rivolgono, per la realizzazione dei propri prodotti, ad altri produttori nazionali, di omettere la indicazione della origine e provenienza, mentre tale indicazione sarebbe obbligatoria a prescindere da ogni incidenza sulla qualità del prodotto qualora i prodotti fossero realizzati, a parità di condizioni qualitative, all'estero. Inoltre, poichè in ambito comunitario vige il principio che il prodotto legalmente commercializzato in uno Stato membro deve poter essere commercializzato negli altri Stati membri (a meno che non ricorrano esigenze imperative quali la tutela della salute, la lealtà dei rapporti commerciali, i diritti di privativa industriale, nella specie non configurabili) e poichè non risulta l'esistenza di norme comunitarie che impongano l'indicazione della origine e provenienza del prodotto in casi come quello in esame, potrebbe ipotizzarsi un caso di discriminazione alla rovescia. Invero, l'operatore nazionale potrebbe trovarsi discriminato a favore dell'operatore di altro Stato membro, perchè ad esso sarebbe imposto l'obbligo di indicazione della origine della merce prodotta all'estero, mentre all'operatore di altro stato membro (ovviamente libero di commercializzare sul mercato italiano) tale obbligo non sarebbe imposto. Ulteriori profili di irrazionale disparità di trattamento potrebbero ravvisarsi nell'ipotesi che l'obbligo di indicazione della fabbricazione all'estero sussistesse solo per i prodotti cui sono apposti marchi o diciture italiane o che li facciano apparire come prodotti in Italia e non anche quando siano apposti marchi o diciture di altri Stati dell'Unione.

Questa interpretazione è altresì confermata dalle modifiche apportate alla L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49, con la L. 23 luglio 2009, n. 99, art. 17, comma 4, lett. a). E infatti solo con questa disposizione avente chiaramente natura innovativa e non interpretativa è stato introdotta nel suddetto comma 49, una disposizione che prevede che qualora sugli oggetti fabbricati all'estero siano apposti marchi di aziende italiane debba anche essere apposta "l'indicazione precisa, in caratteri evidenti, del loro paese o del loro luogo di fabbricazione o di produzione, o altra indicazione sufficiente ad evitare qualsiasi errore sulla loro effettiva origine estera". L'introduzione di questa nuova disposizione conferma che in precedenza non vi era obbligo di indicare il luogo di fabbricazione per gli oggetti prodotti all'estero, quand'anche sugli stessi fossero apposti marchi di aziende italiane, che quindi l'imprenditore era libero di usare anche su oggetti prodotti all'estero senza alcuna altra specificazione.

Sennonchè la suddetta L. 23 luglio 2009, n. 99, art. 17, comma 4, (con la disposizione da esso inserita nella L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49) dopo due mesi dalla sua entrata in vigore è stato abrogato dal D.L. 25 settembre 2009, n. 135, art. 16, comma 8, convertito con L. 20 novembre 2009, n. 166.

Il D.L. 25 settembre 2009, n. 135, medesimo art. 16, comma 6, peraltro, ha inserito nella L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, il comma 49 bis, il quale ora prevede che "costituisce fallace indicazione l'uso del marchio, da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana ai sensi della normativa Europea sull'origine, senza che gli stessi siano accompagnati da indicazioni precise ed evidenti sull'origine o provenienza estera o comunque sufficienti ad evitare qualsiasi fraintendimento del consumatore sull'effettiva origine del prodotto, ovvero senza essere accompagnati da attestazione, resa da parte del titolare o del licenziatario del marchio, circa le informazioni che, a sua cura, verranno rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto. Il contravventore è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 10.000 ad Euro 250.000".

Pertanto, attualmente, un obbligo di indicazione della origine estera del prodotto sussiste soltanto nell'ipotesi di uso del marchio con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia di origine italiana. Peraltro, anche in questo caso, non è indispensabile l'indicazione del paese di fabbricazione, essendo sufficienti altre indicazioni che evitino fraintendimenti del consumatore sull'effettiva origine del prodotto ovvero una attestazione sulle informazioni che verranno in seguito rese in fase di commercializzazione sulla effettiva origine estera del prodotto.

Il mancato adempimento di tale obbligo, peraltro, non è previsto come reato e costituisce solo un illecito amministrativo.

Poichè queste ultime disposizioni richiamate non devono comunque essere applicate nel caso in esame - perchè sui portafogli in questione non è stato apposto alcun marchio da parte del titolare o del licenziatario - sono nella specie irrilevanti eventuali profili di non conformità delle stesse ai principi comunitari o costituzionali.

In conclusione, secondo la costante giurisprudenza di questa Suprema Corte, che deve essere qui confermata, ai sensi della L. 24 dicembre 2003, n. 350, art. 4, comma 49, non sussiste alcun obbligo dell'imprenditore che produce o importa o commercializza di indicare sul prodotto il luogo in cui esso è stato fabbricato. Vi è solo l'obbligo, qualora decida di indicare che il luogo di fabbricazione (da individuarsi ai sensi del codice doganale Europeo) in Italia, di non dare una falsa o fallace indicazione. E' evidente che, se il suddetto obbligo non potrebbe essere legittimamente previsto nemmeno dal legislatore nazionale, in quanto occorrerebbe una norma Europea, l'obbligo stesso non può nemmeno essere indirettamente introdotto - come in realtà è avvenuto nella specie - da una giurisprudenza, per così dire, creativa.

Venendo infatti alla fattispecie in esame, è stato accertato in fatto che i portafogli in questione avevano impresso a fuoco sull'esterno la scritta "Vera Pelle Italy". E' stato però anche accertato dal giudice del merito che tale scritta - che se non veritiera sarebbe stata idonea ad ingannare gli acquirenti sulla qualità della merce - non era invece nè falsa nè fallace, bensì perfettamente corrispondente al vero perchè i portafogli erano stati realmente fabbricati con pelle italiana, precedentemente acquistata dall'imprenditore dalla conceria Nuova Grenoble s.r.l. e poi inviata in Cina dove era manufatta secondo le indicazioni della ditta italiana. L'apposizione di detta scritta sull'esterno dei portafogli, quindi, non integra in alcun modo il reato contestato, in quanto la stessa fornisce esclusivamente una informazione (veritiera) sulla provenienza della pelle, mentre non fornisce, nemmeno indirettamente, alcuna informazione sul luogo dove con tale pelle sono stati fabbricati i portafogli.

Inoltre, l'imputato non solo non ha apposto sul prodotto nessuna indicazione che lo stesso fosse stato fabbricato materialmente in Italia, ma addirittura ha inserito nei portafogli un piccolo cartellino o adesivo con la scritta "made in PRC", così indicando espressamente - conformemente al vero - che gli oggetti erano stati fabbricati in Cina. Ossia, non solo non vi è stata nessuna falsa o fallace indicazione del luogo di fabbricazione, ma addirittura era presente un cartellino che indicava esattamente il vero luogo di fabbricazione.

La corte d'appello ha però ritenuto sussistente il reato perchè accanto alla indicazione che si trattava di vera pelle italiana non era stato reso "immediatamente percepibile il dato relativo al luogo ove il prodotto è confezionato (Cina)"; perchè larga parte della potenziale utenza avrebbe avuto difficoltà "di comprendere immediatamente il senso della sigla PRC"; e infine perchè "l'indicazione del luogo della fabbricazione non è stampigliata a fuoco sul prodotto, ma è affidata ad un mero adesivo" che potrebbe essere eliminato dal venditore. Si tratta di motivazione appunto viziata da manifesta illogicità e da violazione di legge. Invero, è manifestamente illogico ritenere che una corretta informazione avrebbe imposto di stampigliare a fuoco sull'esterno dei portafogli oltre all'indicazione della qualità del materiale anche il luogo di fabbricazione, costituendo un dato di comune esperienza che all'esterno di prodotti del genere viene stampigliata la natura e qualità del materiale e non anche il luogo di fabbricazione, che solitamente viene appunto indicato in un cartellino o adesivo posto all'interno. Il fatto che il cartellino potesse essere in un futuro rimosso dal venditore costituisce pure illazione ed avrebbe potuto comunque semmai avere rilievo se lo stesso fosse già stato rimosso al momento dell'accertamento. Il fatto che gli eventuali acquirenti possano non comprendere il significato della sigla "made in PRC" rappresenta anch'esso una mera illazione, per giunta manifestamente illogica ai fini della motivazione, perchè quand'anche la sigla "made in PRC" non facesse comprendere a qualcuno che il prodotto non è stato fabbricato in Cina essa fa sicuramente comprendere a tutti che il prodotto comunque non è stato fabbricato in Italia, il che è sufficiente perchè non sia integrato il reato. Nè si riesce a comprendere come la corte d'appello abbia potuto ritenere che, sulla base della scritta "made in PRC", l'acquirente potrebbe desumere che il prodotto sia stato realizzato in Italia.

La motivazione della sentenza impugnata è peraltro anche erronea in diritto. E' invero pacifico che la scritta "Vera Pelle Italy" stampigliata sui portafogli era corrispondente al vero. La stessa quindi non poteva integrare il reato contestato. L'imputato non aveva poi alcun obbligo di apporre sui portafogli ulteriori indicazioni, tanto meno di indicare il luogo di fabbricazione. Aveva solo l'obbligo di non indicare falsamente che il prodotto era stato fabbricato in Italia o comunque di non dare indicazioni false o fallaci sul luogo di fabbricazione. Nella specie, è pacifico che l'imputato non ha apposto il marchio "made in Italy" o "prodotto in Italia" nè ha dato alcuna indicazione falsa o fallace sul luogo di fabbricazione. E' quindi evidente che il reato non potrebbe mai essere ritenuto sussistente per la considerazione che la scritta "made in PRC" era piccola o non comprensibile da tutti o rimovibile, perchè da ciò non potrebbe mai derivare che la scritta abbia falsamente indicato che il prodotto era stato fabbricato in Italia.

Come si è dianzi rilevato, infatti, non vi è alcun obbligo di indicare il luogo di produzione e la mancata indicazione di tale luogo non integra il reato.

In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio essendo evidente che il fatto contestato non sussiste.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non sussiste.
Avv. Antonino Sugamele

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