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Sentenza

Cassazione, Sez. VI, 7 settembre 2010, n. 32723. Giudice penale. Travisamento  della prova. natura e presupposti dell
Cassazione, Sez. VI, 7 settembre 2010, n. 32723. Giudice penale. Travisamento della prova. natura e presupposti dell
1.In tema di travisamento della prova in virtù della nuova formulazione dell'art. 606 lett. e) c.p.p., la giurisprudenza di questa Corte si è attestata saldamente nel ritenere che, per effetto di tale nuova formulazione, la Corte, nel valutare la motivazione del giudice a quo, deve verificare oltre che la rispondenza ai consueti parametri della effettività , della non manifesta illogicità  e della non contraddittorietà , anche la non incompatibilità  con atti del processo (specificamente indicati dal ricorrente).

2.In quest'ultima (nuova) ipotesi, si deve trattare di atti dotati di una autonoma forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli (proprio per la inesatta percezione di essi da parte del giudice) l'intero ragionamento svolto dal giudicante e determini, al suo interno, radicali incompatibilità  cosa da vanificare o radicalmente inficiare sotto il profilo logico la motivazione. Ciò che equivale a dire che l'atto o gli atti indicati dal ricorrente devono potere inficiare o compromette in modo decisivo la tenuta logica e l'interna coerenza della motivazione.

3.Ma ciò significa non solo, in positivo che il travisamento della prova ricorre, quando il giudice abbia affermato in sentenza un fatto clamorosamente smentito da una risultanza probatoria in modo tale che l'eliminazione di quel fatto e la ristabilita verità  abbia da sola, di per sè, la capacità  di stravolgere la motivazione della sentenza, ma significa anche, in negativo, che detto travisamento non ricorre (non risponde cioè alla fattispecie astratta prevista e voluta dal legislatore) quando il fatto che si assume falsamente affermato in sentenza per travisamento della prova, debba e possa essere valutato insieme con altre risultanze probatorie di segno contrario e diverso, al punto di implicare una rivalutazione di tutto il materiale dimostrativo già  acquisito al processo.

4.In quest'ultima ipotesi si finisce inammissibilmente per richiedere al giudice di legittimità  una rivalutazione delle prove non consentita, dovendosi nuovamente confrontare dichiarazioni tra di loro contrastanti. Ed è noto che il processo davanti al giudice di legittimità  non è certo uno spazio giurisdizionale in cui si possa chiedere e procedere a una siffatta operazione.

 

 

Cassazione, Sez. VI, 7 settembre 2010, n. 32723

(Pres. Ippolito  Rel. Colla)

 

 

Fatto e diritto

1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte d'appello di Milano confermava quella del Tribunale di Monza del 2 marzo 2006 appellata da G. Z. condannata in primo grado alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione per i reati di millantato credito e di calunnia in danno di C.M. e M. C.(in Cologno Monzese, nel febbraio 2004).

2. Secondo la tesi accusatoria e la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, l'imputata si era presentata alla M. e al C.millantando credito presso funzionari dell'INPDAP e adducendo di essere contitolare del contratto di locazione quale conduttrice, insieme con N. M., dell'appartamento INPDAP indicato in imputazione; ai predetti prospettava la possibilità di estendere loro la locazione, ventilando anche la eventualità  di essere preferiti nell'acquisto dell'immobile in caso di alienazione da parte dell'ente. La Z. aveva chiesto in cambio il pagamento di 8.000 euro somma determinata anche in ragione delle spese che aveva sostenuto. Raggiunto l'accordo, l'imputata consegnava ai predetti M. e C.- i quali avevano chiesto e ottenuto un finanziamento bancario per far fronte all'impegno - le chiavi dell'appartamento, le bollette delle utenze per le volture ed il contratto di locazione. C.e M. non erano riusciti a ottenere il trasferimento di residenza nella abitazione, rifiutato loro dall'ufficio di anagrafe, e invitavano quindi la Z. a chiarire la posizione con l'ufficio comunale competente. Prosegue la sentenza nel senso che in quell'occasione l'impiegata comunale, accertato che l'imputata non era stata delegata dalla M. ad agire in suo nome, aveva affermato che ella stava truffando le persone offese. I due non avevano pagato alcunchè. La Z. quindi presentava querela il 25 febbraio 2004, denunciando il C.e M. per il loro ingresso fraudolento e abusivo nell'appartamento.

3. Propone ricorso per cassazione l'imputata personalmente deducendo, con un primo motivo inosservanza della legge penale e mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione all'art. 368 c.p. In ordine a tale reato mancavano del tutto gli elementi costitutivi della consapevolezza della innocenza e della attribuzione di un fatto non vero, mentre era del tutto evidente che aveva accusato C.e M., conformemente al vero, di avere occupato abusivamente dell'immobile che era di proprietà  INPDAP, a nulla rilevando il suo consenso. Con un secondo mezzo, deduce mancanza, contraddittorietà  o manifesta illogicità  della motivazione poichè la ritenuta configurabilità  del reato di millantato credito sarebbe frutto di travisamento della prova testimoniale. M. e C.non avevano mai detto che l'imputata aveva dichiarato che la somma di euro 8.000 costituiva compenso per la mediazione presso funzionari INPDAP. Bensì la M. aveva detto che “i soldi dovevano essere dati perchè la signora aveva avuto delle spese per questo appartamento e voleva un risarcimento... Erano tutti per risarcimento perchè aveva pagato l'affitto, aveva avuto delle spese e voleva un risarcimento per questo appartamento  (pag. 18 della trascrizione). Con il terzo motivo, deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato di millantato credito. Ella si era limitata ad affermare che era locataria (insieme con la M.) del contratto di affitto e aveva chiesto la somma per sublocare (sia pure illecitamente) l'immobile.

4. Il ricorso non può trovare accoglimento.

5. Circa il primo motivo, relativo al reato di calunnia, non è fondato sostenere, come assume la difesa dei ricorrenti, che non potesse configurarsi il reato di calunnia per avere l'imputata affermato nella denuncia un fatto illecito vero, costituente reato, con la conseguenza che non era neppure configurabile, sotto il profilo del dolo, la certezza della innocenza delle persone offese. La Z., nella sua esposizione della notizia di reato, non si era doluta del fatto affermando che le parti civili avevano invaso un appartamento di proprietà  pubblica, così ledendo l'interesse della pubblica amministrazione. L'imputata, al contrario, ha omesso di dichiarare che le parti civili si trovavano nell'interno dell'appartamento con il suo consenso, addirittura convalidato dalla consegna delle chiavi, proprio al fine di far abitare l'immobile al C.e alla M., i quali non avevano affatto iniziato ad occupare i locali impadronendosi delle chiavi o con altro mezzo fraudolento. Il significato oggettivo della dichiarazione accusatoria della Z. era quello di sottolineare la lesione di un suo diritto posta in essere dalla parti civili attraverso un atto arbitrario perchè in contrasto con il suo diritto di locataria di abitare l'immobile con esclusione di qualsiasi altra persona. Gli elementi oggettivo e soggettivo del reato di calunnia vanno ricostruiti verificando ciò che il denunciante vuole effettivamente fare apparire all'autorità  giudiziaria (nel caso violazione del diritto della Z. per invasione dell’immobile che solo lei poteva abitare) e non valutando ciò che implicitamente le dichiarazioni del denunciante potrebbero anche avere, ma che l'autore della calunnia non ha inteso minimamente denunciare (lesione dell'interesse pubblico a che un immobile pubblico sia abitato da chi non ne è il legittimo detentore). Nel caso, conclusivamente, va affermato che la Z. ha denunciato sostanzialmente un fatto non vero, ben sapendo che gli imputati erano nel diritto di fare ciò che hanno fatto in virtù del rapporto contrattuale tra loro intercorso, sia pure privo di effetti nei confronti dell'ente pubblico. Le implicazioni ulteriori, sotto il profilo penale, che potevano derivarne nei confronti dell'INPDAP, non hanno alcun rilievo al fine di escludere i profili oggettivo e soggettivo del reato di calunnia commesso dalla Z..

6. I motivi secondo e terzo possono essere congiuntamente esaminati risolvendosi in due diversi aspetti della stessa questione giuridica.

7. La ricorrente introduce il tema del travisamento della prova per contrarietà  di quanto affermato in sentenza rispetto alla deposizione della M. la quale non avrebbe mai sostenuto che l'imputata avrebbe richiesto l'importo sopra indicato per la sua opera di mediazione con impiegati INPDAP al fine di favorire il loro subentro nel contratto di locazione, ma si sarebbe limitata a dire che la somma era richiesta per le spese che lei aveva sostenuto per l'appartamento, in quantoaveva avuto delle spese; i denari “erano tutti per risarcimento perchè aveva pagato l'affitto; aveva avuto delle spese e voleva un risarcimento.

8. Orbene, in tema di travisamento della prova in virtù della nuova formulazione dell’art. 606 lett. e) c.p.p., la giurisprudenza di questa Corte si è attestata saldamente nel ritenere che, per effetto di tale nuova formulazione, la Corte, nel valutare la motivazione del giudice a quo, deve verificare oltre che la rispondenza ai consueti parametri della effettività, della non manifesta illogicità e della non contraddittorietà, anche la non incompatibilità con atti del processo (specificamente indicati dal ricorrente). In quest’ultima (nuova) ipotesi, si deve trattare di atti dotati di una autonoma forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli (proprio per la inesatta percezione di essi da parte del giudice) l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini, al suo interno, radicali incompatibilità così da vanificare o radicalmente inficiare sotto il profilo logico la motivazione (Sez. 6, Sentenza n. 10951 del 15/03/2006 Cc. - dep. 29/03/2006, Casula, Rv. 233708). Ciò che equivale a dire che l’atto o gli atti indicati dal ricorrente devono potere inficiare o compromette in modo decisivo la tenuta logica e l’interna coerenza della motivazione.

9. Ma ciò significa non solo, in positivo, come ora detto, che il travisamento della prova ricorre, quando il giudice abbia affermato in sentenza un fatto clamorosamente smentito da una risultanza probatoria in modo tale che l’eliminazione di quel fatto e la ristabilita verità abbia da sola, di per sé, la capacità di stravolgere la motivazione della sentenza, ma significa anche, in negativo, che detto travisamento non ricorre (non risponde cioè alla fattispecie astratta prevista e voluta dal legislatore) quando il fatto che si assume falsamente affermato in sentenza per travisamento della prova, debba e possa essere valutato insieme con altre risultanze probatorie di segno contrario e diverso, al punto di implicare una rivalutazione di tutto il materiale dimostrativo già acquisito al processo. In quest’ultima ipotesi si finisce inammissibilmente per richiedere al giudice di legittimità una rivalutazione delle prove non consentita, dovendosi nuovamente confrontare dichiarazioni tra di loro contrastanti. Ed è noto che il processo davanti al giudice di legittimità non è certo uno spazio giurisdizionale in cui si possa chiedere e procedere a una siffatta operazione.

10. Ora, va messo in chiara evidenza, anzitutto, che nella stessa pag. 18 del verbale stenotipico della udienza del 9 gennaio 2006, subito dopo le specifiche frasi sopra riportate tra virgolette, citate dalla ricorrente, la M. dice che la Z. aveva affermato di essere stata funzionaria INPDAP (ora in pensione), aveva mostrato il contratto di locazione e aveva detto “che in un secondo momento, tramite conoscenze che lei aveva, poteva, o farci mettere il nominativo del contratto, cioè farci avere il contratto a nome nostro, oppure se mettevano l’appartamento in vendita, lei faceva una rinuncia, visto che aveva il nominativo, e avremmo potuto acquistare noi l’appartamento, perché lei rinunciava”.

11. Non solo. Sulla questione ha deposto anche il Capano. Egli ha affermato che la Z. dopo aver chiesto il compenso di 8.000 euro per fare entrare lui e sua moglie nell’appartamento, e dopo aver precisato che il contratto era intestato a lei e ad altra signora (Norma M.) che si trovava in clinica, ha affermato: La Zanetti “avrebbe fatto aggiungere altri due nomi sopra il contratto - riferendosi evidentemente a quelli del C.e della M., n.d.e. - con le conoscenze che aveva, e in futuro loro avrebbero rinunciato all’acquisto dell’appartamento per agevolare noi nell’acquisto” (pag. 4 dello stesso verbale). E ancora. A domanda del difensore che chiedeva al teste se sapesse che gli immobili INPDAP non possono essere “gestiti da coloro che li abitano, e bisogna eventualmente accedervi tramite richiesta formale”, il C.ha risposto: “Sì, ma la signora ci aveva garantito che tramite conoscenze che aveva... Ci ha detto che aveva conoscenze, e l’INPDAP non l’abbiamo interpellato, tramite le conoscenze che aveva, ci ha detto che era riuscita a fare...” (pag. 12 e 13 del verbale).

12. Da tutto quanto sopra discende che le dichiarazioni della M. richiamate dalla difesa non sono affatto decisive per scardinare la motivazione della sentenza. Esse sono addirittura contraddette da altre dichiarazioni della stessa M. di segno opposto e sono contraddette anche dalle dichiarazioni di Capano. La Corte d'appello non ha affatto travisato le prove ma le ha valutate ritenendo, nell'ambito dei suoi poteri discrezionali, di cui ha dato conto, che la somma richiesta dalla Z. era domandata, quanto meno, anche per mettere in evidenza nei confronti del C.e della M. una sua opera di mediazione nei confronti di imprecisati funzionari INPDAP per fare intestare il contratto anche alle persone offese. Tale valutazione delle prove non è sindacabile da parte della Corte di cassazione. Deriva da tutto ciò, infine, anche la piena configurabilita del reato di millantato credito di cui ricorrono tutti gli estremi oggettivi e soggettivi.
Il ricorso va conseguentemente rigettato e al rigetto consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Avv. Antonino Sugamele

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