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Sentenza

Art. 348 codice penale - Esercizio abusivo di una professione
Art. 348 codice penale - Esercizio abusivo di una professione
1. Oggetto giuridico - 2. L'elemento oggettivo del reato - 3. Casistica - 4. Elemento soggettivo - 5. Normativa comunitaria

1. Oggetto giuridico

La figura delittuosa in commento intende tutelare l'interesse generale a che determinate professioni, in ragione della loro peculiarità e della competenza richiesta per il loro esercizio, siano svolte solo da chi sia provvisto di standard professionali accertati da una speciale abilitazione rilasciata dallo stato (Contieri, Esercizio abusivo di professioni, arti e mestieri, in ED, XV, Milano, 1966, 606; D'Ambrosio, Note sull'esercizio abusivo della professione, in GM, 1986, 2, 392). Il legislatore, con l'art. 12, 1° co., L. 11.1.2018, n. 3, in vigore dal 15.2.2018, ha elevato significativamente il livello di tutela al bene protetto, prevedendo che la pena della reclusione di sei mesi che, fino all'entrata in vigore della novella, costituiva il massimo edittale, sia ora il minimo, con possibilità di irrogare una pena detentiva fino a 3 anni. A questa si aggiunge la pena pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro.

La stessa legge, ha introdotto, all'art. 348, un 2° e un 3° co. Il 2° co. prevede la pena accessoria della pubblicazione della sentenza di condanna, le sanzioni disciplinari e la confisca diretta delle cose che servirono e furono destinate a commettere il reato. Quanto alle sanzioni disciplinari, l'art. 348, 2° co., stabilisce che, laddove il soggetto attivo del reato sia un professionista o comunque un soggetto che esercita un'attività che comporta l'inserimento in un albo o in un registro, sia trasmessa la sentenza di condanna all'Ordine competente ai fini dell'applicazione della interdizione da uno a tre anni dalla professione regolarmente praticata. Potrebbe essere questo il caso del dottore in giurisprudenza, praticante avvocato, inserito nel Registro conservato dall'Ordine del territorio, il quale eserciti abusivamente la professione di avvocato.

Infine l'art. 348, 3° co., sanziona il reato proprio commesso dal professionista che determina altri a commettere l'esercizio abusivo ovvero diriga l'attività delle persone che sono concorse nell'esercizio abusivo.

Quanto alla titolarità del predetto interesse, la giurisprudenza ha ripetutamente precisato che, trattandosi di un interesse a carattere generale, lo stesso spetta alla P.A., e non agli ordini professionali o alle associazioni di categoria volta a volta interessate (C., Sez. II, 12.10.2000; C., Sez. VI, 18.10.1988). Questi ultimi soggetti possono tuttavia costituirsi parte civile nel procedimento penale relativo al reato in commento, chiedendo il risarcimento del danno patrimoniale subito a causa della concorrenza sleale subita in quel determinato contesto territoriale dai professionisti iscritti all'associazione (C., Sez. VI, 1.6.1989).

Nel senso che anche il singolo possa costituirsi parte civile nel relativo procedimento penale, C., Sez. V, 18.11.2004. Comunque, la circostanza che il bene tutelato sia rappresentato dall'interesse generale a che determinate professioni vengano esercitate soltanto da soggetti in possesso di una speciale autorizzazione amministrativa non esclude che possano assumere la veste di danneggiati dal reato quei soggetti che, in via mediata e di riflesso, abbiano subito un pregiudizio dal reato, ma non consente di riconoscere in capo ad essi la qualità di persone offese, che spetta solo allo Stato; ne consegue che il privato danneggiato dal reato non è legittimato a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione (C., Sez. VI, 18.4.2007). Circa la mancata qualificazione del privato come persona offesa dal reato in questione (e, dunque, della sua non titolarità a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione) v. C., Sez. V, 14.3.2017, n. 32987.

L'individuazione del bene protetto della norma incriminatrice consente anche di meglio cogliere i contorni della fattispecie: se, infatti, oggetto della tutela predisposta dell'art. 348 è l'interesse della P.A. che determinate professioni vengano esercitate soltanto da chi, avendo conseguito una speciale abilitazione amministrativa, risulti in possesso della qualità morali e culturali richieste dalla legge, ne deriva che la tutela in esame si estende soltanto agli atti propri o tipici delle suddette professioni, in quanto alle stesse riservati in via esclusiva, e non anche agli atti che pur essendo in qualche modo connessi all'esercizio professionale difettano di tipicità nel senso anzidetto, perché suscettibili di essere posti in essere da qualsiasi interessato (C., Sez. II, 17.6.2016, n. 38752).
2. L'elemento oggettivo del reato

Come chiaramente evidenziato dalla semplice lettura della disposizione in commento, il delitto di abusivo esercizio di una professione risulta integrato dall'esercizio di una professione in assenza dei requisiti richiesti all'uopo dalla legislazione statale. Trattasi dunque di una norma penale in bianco, che presuppone e rimanda ad altre disposizioni che determinano le condizioni oggettive e soggettive in difetto delle quali non è consentito, ed è quindi abusivo, l'esercizio dell'attività protetta (C., Sez. VI, 10.5-18.7.2018, n. 33464; C., Sez. II, 7.3.2017, n. 16566 che pure esclude un vizio della norma sotto il profilo della sufficiente determinatezza e della tassatività; cfr. anche C., Sez. VI, 3.4.1995).

In dottrina, sul punto, Ariolli, Bellini, L'esercizio abusivo della professione fra esigenze di tutela e di rispetto del principio di tassatività, in CP, 2004, 8.

È stato giustamente evidenziato che l'individuazione delle attività costituenti esercizio di una professione protetta non può prescindere dal dato normativo, ed ogni eventuale lacuna non può essere colmata dal giudice ( C., Sez. VI, 11.5.1990). Se la determinazione delle materie di competenza di determinate professioni fosse ammissibile anche in assenza di un dato normativo, si avrebbe effettivamente una violazione dell'art. 25 Cost., oltre ad attribuirsi ai singoli professionisti ed alle loro corporazioni il potere di denotare, tramite l'estensione dei contenuti dell'attività professionale, l'area di applicazione del delitto in esame.

L'abusività dell'esercizio sussiste allorquando l'agente sia sfornito del titolo, ovvero non abbia adempiuto alle formalità prescritte, oppure si trovi temporaneamente interdetto o inabilitato dall'esercizio della professione.

In ogni caso, secondo la giurisprudenza, l'esame circa la sussistenza delle condizioni sopra menzionate va effettuato in concreto, verificando se, in relazione all'attività effettivamente svolta, il soggetto poteva dirsi legittimato secondo la legislazione statale. È stato così riconosciuto che per la sussistenza del reato de quo è sufficiente l'esercizio in concreto di una attività per cui è richiesta una particolare abilitazione non posseduta, non rilevando l'attribuzione formale della attività ad un altro professionista abilitato (C., Sez. VI, 10.3.1989), e, nel contempo, la sussistenza del reato non è esclusa dalla iscrizione all'Albo professionale, ove tale titolo sia invalido ovvero risultino mancanti i requisiti sostanziali prescritti per lo svolgimento della professione ( C., S.U., 26.4.1990; C., Sez. VI, 18.11.1994). Si noti comunque che le Sezioni Unite sopra citate hanno rilevato come la norma in esame non sanzioni le ipotesi in cui, nell'ambito della professione per la quale la persona è abilitata, siano assenti particolari qualità richieste per lo svolgimento di peculiari funzioni, delegabili ad altri soggetti.

In ogni caso, per atto di esercizio della professione deve intendersi quello tipico ed esclusivo di chi esercita quella determinata attività protetta, non potendo la norma essere applicata in presenza del semplice compimento di atti non tipici realizzabili da chiunque, anche se abbiano connessione con quelli professionali (C., Sez. VI, 11.5.1990). In proposito, tuttavia, la giurisprudenza è oscillante posto che se da un lato si ritiene che, perché sussista il delitto occorre che l'agente abbia concretamente posto in essere atti inerenti la professione abusivamente esercitata, non essendo perciò rilevante l'iscrizione nell'albo professionale, né l'allestimento di uno studio, trattandosi di meri atti prodromici (C., Sez. V, 18.2.2002; C., Sez. VI, 3.10.2001, con riferimento alla condotta di chi - senza esercitare abusivamente la professione di biologo, avendo messo a disposizione del pubblico un apparecchio per autodiagnosi, esegua in luogo dell'interessato quelle operazioni materiali necessarie per il funzionamento dello strumento, in quanto in questo caso l'acquisizione e la valutazione dei dati e la conseguente formulazione della diagnosi avvengono attraverso procedure informatiche che prescindono da qualsiasi intervento umano), dall'altro vi sono diverse pronunce secondo cui non si necessita, per la sussistenza della fattispecie, dell'adozione di comportamenti riservati, in via esclusiva, a soggetti dotati di speciale abilitazione - i c.d. atti tipici della professione - essendo sufficiente anche la realizzazione di condotte caratteristiche a condizione che vengano compiute in modo continuativo e professionale (C., Sez. VI, 8.10.2002, con riferimento alle attività cosiddette libere relative alla professione di ragionieri e periti commerciali, di cui all'art. 1, prima parte, D.P.R. 27.10.1953, n. 1068). Da ultimo questo secondo indirizzo è stato confermato da C., Sez. IV, 12.2-2020, n. 12282, pur con la precisazione che, ove l'esercizio abusivo consista nello svolgimento di atti non attribuiti esclusivamente ad una determinata professione, tali atti siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuità, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato.

Va detto comunque che anche le pronunce più severe subordinano l'esistenza del reato alla circostanza che l'attività posta in essere dall'agente abbia assunto rilevanza esterna (C., Sez. VI, 4.5.2000, con riferimento allo svolgimento di mansioni tecnico-burocratiche nell'istruttoria di pratiche di condono edilizio a supporto dell'Ufficio comunale).

Tutelando il reato non l'affidamento del singolo sulle capacità professionali e tecniche del soggetto cui si rivolge per lo svolgimento di attività inerenti professioni protette, bensì l'interesse generale indicato al par. 1, il delitto in parola è ritenuto sussistente anche in caso di possesso, in capo al soggetto non legittimato, dei requisiti tecnici ed attitudinali richiesti per l'esercizio della professione, quando non accertati e documentati mediante l'iscrizione all'apposito albo professionale, o tramite il possesso dell'abilitazione (C., Sez. VI, 10.3.1989), ovvero nel caso in cui il soggetto, pur avendo superato l'esame di Stato necessario a conseguire la relativa abilitazione, non sia comunque iscritto nel relativo albo professionale (C., Sez. VI, 5.3.2004). Per la medesima ragione, si ritiene sussistente l'illecito anche in caso manchi lo scopo di lucro in capo all'agente (C., Sez. II, 22.8.2000; C., Sez. VI, 29.11.1983. Contra, tuttavia, C., Sez. VI, 8.10.2002), ovvero allorquando l'attività esplicata si sia esaurita in un solo atto (C., Sez. VI, 10.10.2007. Contra, C., Sez. VI, 5.7.2006).

C., S.U., 15.12.2011-23.3.2012, n. 11545 ha di recente chiarito che costituisce esercizio abusivo della professione il compimento senza titolo, anche occasionalmente e gratuitamente, di atti attribuiti in via esclusiva a una determinata professione così come il compimento di atti che pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva siano univocamente individuati come di competenza specifica di una data professione ed eseguiti con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare le oggettive apparenze di un'attività professionale. In termini analoghi v., di recente, C., Sez. V, 13.1.2017, n. 7630 e C., Sez. VI, 3.11.2016, n. 51362.

Nello stesso senso si è espressa più volte la dottrina, con particolare riferimento all'esercizio della professione medica (Cerri, Esercizio abusivo della professione medica ed inosservanza delle norme regolanti il rapporto di lavoro, in GI, 1983, 206).

Alla mancanza del titolo di abilitazione, viene equiparata, oltre all'ipotesi di invalidità dello stesso ( C., Sez. VI, 5.6.2006), l'interdizione temporanea dall'esercizio della professione (C., Sez. VI, 15.2.2007), conseguente tanto ad una condanna per i delitti commessi con l'abuso di una professione (C., Sez. VI, 6.3.1995), quanto all'esistenza di una situazione di incompatibilità derivante dalle condizioni soggettive dell'agente (con riferimento al possesso di status di dipendente pubblico, C., Sez. VI, 10.6.1986), ma non l'esercizio della professione in violazione delle regole di competenza territoriale (C., Sez. VI, 18.2.1983). Come detto, non rileva - per escludere l'esistenza del reato - che il soggetto abbia superato l'esame di Stato necessario a conseguire la relativa abilitazione, laddove lo stesso non sia comunque iscritto nel relativo albo professionale (C., Sez. VI, 5.3.2004).

Si noti come, in riferimento alle ipotesi di violazione dell'interdizione temporanea all'esercizio della professione risulti inequivocabilmente diverso l'oggetto giuridico protetto. La circostanza che il soggetto sia in possesso del titolo, pur non potendo esercitare la professione per ragioni diverse da quelle connesse alla mancanza della necessaria abilitazione, fa sì che la condotta illecita realizzi una lesione di un bene giuridico diverso rispetto a quello protetto in via generale dell'art. 348. In particolare, riteniamo che l'interesse effettivamente tutelato nelle ipotesi in parola vada identificato con la finalità che intende perseguire prevedendo determinate cause di incompatibilità all'esercizio di una professione (ad es., relativamente al dipendente pubblico, il dovere di fedeltà nei confronti della P.A., datore di lavoro. Nello stesso senso Carinei, Sull'esercizio abusivo di attività professionale da parte dei dipendenti pubblici, in CP, 1997, 2110).

Con riferimento ai rapporti fra il reato in discorso e la condotta di "abuso della professione", di cui all'art. 31, si veda C., Sez. VI, 17.11.1999.

La giurisprudenza riconosce la possibilità di un concorso di persone nel delitto in commento, C., Sez. VI, 27.2-14.5.2012, n. 18154; C., Sez. VI, 9.4.2009, n. 17893. Così di recente anche C., Sez. VI, 24.4.2013, n. 21220.

L'esercizio abusivo della professione è un reato solo eventualmente abituale, in quanto lo stesso può essere integrato dal compimento anche di un solo atto tipico o proprio della professione. Ne consegue che per tale tipo di reati - i quali, per la loro stessa configurazione giuridica, postulano una ripetizione di condotte analoghe, distinte tra loro, ma sorrette da un unico elemento soggettivo ed unitariamente lesive del bene giuridico tutelato - è possibile operare una scissione della condotta del soggetto in singoli episodi delittuosi, i quali ben possono rientrare fra i reati scopo di un'associazione per delinquere (C., Sez. II, 15.11.2011, n. 43328).

Trattandosi di reato solo eventualmente abituale, la reiterazione degli atti tipici dà luogo ad un unico reato, il cui momento consumativo coincide con l'ultimo di essi, vale a dire con la cessazione della condotta (C., Sez. VI, 19.4.2016, n. 20099). Circa la qualifica di reato solo eventualmente abituale v. C., Sez. III, 5.10.2017-31.1.2018, n. 4562.

In merito alla unicità o pluralità di atti, C., Sez. VI, 25.1.2017, n. 6664 ha recentemente affermato che il motivo per cui non può ritenersi configurabile nell'esercizio abusivo della professione la causa di esclusione della punibilità di cui all'art. 131 bis è dato dal fatto che il delitto presuppone una condotta che, in quanto connotata da ripetitività, continuità o, comunque, dalla pluralità degli atti tipici, è di per sé ostativa al riconoscimento di tale causa di non punibilità. Nello stesso senso v. C., Sez. VII, ord., 12.1.12017, n. 13379.

Secondo C., Sez. II, 13-22.11.2018, n. 52619 non può applicarsi al delitto in commento la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131 bis, in quanto l'esercizio abusivo presuppone una condotta che, in quanto connotata da ripetitività, continuità o, comunque, dalla pluralità degli atti tipici, è di per sé ostativa al riconoscimento della causa di non punibilità. Più precisamente C., Sez. VI, 4.2-25.2.2021, n. 7514 ha affermato che, fermo restando che il reato di abusivo esercizio di una professione può assumere carattere istantaneo oppure essere commesso con una condotta reiterata, tale da qualificare la fattispecie in termini di abitualità (eventuale), l'unicità dell'atto, pur non impedendo il perfezionamento del reato, può incidere sull'applicazione dell'art. 131 bis, che presuppone che sia ravvisabile la particolare tenuità dell'offesa e che non ricorra un comportamento abituale (come è quello connotato da condotte plurime, abituali e reiterate) con la conseguenza che la causa di non punibilità è esclusa non genericamente in presenza di un reato eventualmente abituale, ma in ragione dell'effettiva reiterazione della condotta tipica.
3. Casistica

Decisamente imponente la produzione giurisprudenziale in tema di modalità con cui può realizzarsi il delitto di abusivo esercizio di una professione.

Particolare attenzione è stata dedicata alla professione di geometra, nel tentativo di differenziarne i caratteri rispetto alle competenze dell'ingegnere, da un lato, e dell'architetto, dall'altro. In proposito, la giurisprudenza ha ritenuto precluso per il geometra procedere alla progettazione e realizzazione di edifici con strutture di cemento armato (C., Sez. VI, 12.2.2003; C., Sez. II, 26.9.2000; C., Sez. VI, 10.10.1995), nonché procedere al restauro conservativo di un edificio sottoposto a vincolo (C., Sez. VI, 13.12.1994).

Non integra esercizio abusivo della professione di geometra (ma, è da ritenersi di una professione tout court) la presentazione al cliente di un preventivo di parcella, trattandosi non già di un atto espressivo della competenza e del patrimonio di conoscenze tutelati dal legislatore attraverso l'individuazione della professione protetta, ma solo di un atto conseguente ed utile a quello tipico abusivamente posto in essere, che non assume autonomo rilievo qualora l'attività illecita non sia connotata da continuità e professionalità (C., Sez. VI, 5.2.2014, n. 7086).

Anche la dottrina presenta diversi contributi in proposito (Amato, Sulla competenza professionale del geometra, in CP, 1993, 1934; Cicala, Legislazione circa le costruzioni in cemento armato ed ordine professionale degli ingegneri, in GM, 1997, 2, 137; Gallucci, Brevi note sulle competenze professionali dei geometri, in CP, 1996, 795).

Altra professione protetta, i cui caratteri sono stati oggetto di analisi a parte della giurisprudenza è quella medica, che si è inteso differenziare attentamente da ogni altra attività ad essa connessa.

In proposito, si è chiarito che solo al medico compete l'attività di visita e diretto intervento sul paziente, essendo dunque la stessa vietata per l'odontotecnico (C., Sez. VI, 12.12.2008, n. 4294; C., Sez. IV, 8.5.2007), come è vietato al biologo ed all'infermiere generico effettuare prelievi ematici sul paziente ( C., Sez. VI, 27.6.2005; C., Sez. VI, 6.12.1996). Peraltro va ricordato come l'iscrizione all'albo dei medici abiliti il singolo non solo allo svolgimento delle principale attività professionali sanitarie, ma anche allo svolgimento di quelle ausiliarie per le quali non è richiesto il possesso di apposito titolo (C., Sez. VI, 25.9.2003). Così è configurabile il delitto ex art. 348 a carico dell'assistente di poltrona che coadiuvi un mero odontotecnico in atti riservati all'attività di odontoiatra (C., Sez. VI, 2.10.2012, n. 117).

Ancora con riferimento alla professione di odontoiatra, per C., Sez. VI, 13.11.2013, n. 47532, lo svolgimento dell'attività di odontoiatra da parte dei cittadini dell'Unione europea in possesso del diploma rilasciato da uno Stato dell'Unione non configura gli estremi del reato previsto dall'art. 348 solo se l'interessato abbia presentato domanda al Ministero della Sanità e questo, dopo aver accertato la regolarità dell'istanza e della relativa documentazione, abbia trasmesso la stessa all'ordine professionale competente per l'iscrizione. (Fattispecie in cui è stata confermata la condanna di un soggetto che aveva esercitato la professione di odontoiatra mentre era in corso la procedura di riconoscimento dei titoli rilasciati da altro paese membro dell'Unione europea). Di recente la Suprema Corte ha ritenuto responsabile di esercizio abusivo della professione il laureato in medicina e chirurgia che, pur avendo conseguito due master specialistici all'esito di una poderosa attività tecnico-pratica, aveva eseguito interventi di odontostomatologia (visite, estrazioni, otturazioni, applicazione a fissaggio di capsule ed implantologia) senza essere iscritto all'Albo, istituito con L. 24.7.1985, n. 409, di coloro che sono abilitati all'esercizio della professione di odontoiatra (C., Sez. VI, 9.11.2017-22.1.2018, n. 2691).

Sempre di competenza esclusiva di chi sia in possesso della qualifica di medico è l'attività di diagnosi e cura, anche sotto forma di mero consiglio, del paziente, il che rende necessario il conseguimento della laurea per l'esercizio delle attività di agopuntura (C., Sez. VI, 27.3.2003; C., Sez. VI, 6.4.1982), di pranoterapia e di psicoterapia o psicoanalista (C., Sez. VI, 23.3.2011, n. 14408; C., Sez. III, 24.4.2008; C., Sez. VI, 29.10.2007), ovvero per la prescrizione di farmaci (C., Sez. VI, 4.4.2005; C., Sez. VI, 8.2.2011, n. 13315) anche omeopatici (C., Sez. VI, 20.6.2007). Del pari, costituisce abusivo esercizio dell'attività medica la condotta dell'ottico, il quale prescriva lenti correttive di difetti diversi da quelli rinvenuti dal medico, senza la relativa prescrizione (C., Sez. VI, 3.7.1984. Va detto tuttavia che la violazione del disposto di cui all'art. 348 non sussiste con riferimento alla condotta dell'optometrista che abbia effettuato una correzione prismatica, in quanto si tratta di un'attività consistente nella semplice misurazione della potenza visiva con prescrizione di lenti correttive, che non implica necessariamente una diagnosi medico-oculistica diretta ad individuare malattie o imperfezioni dell'occhio per fini terapeutici, C, Sez. VI, 29.4.2009, n. 26609; C., Sez. VI, 24.6.2003. Conforme C., Sez. VI, 23.6.2016, n. 40745).

Peraltro la giurisprudenza rinviene il delitto in discorso anche laddove alcune attività mediche per il cui svolgimento si richiesta una particolare specializzazione vengano svolte da soggetti laureati sì in medicina ma privi del titolo specialistico richiesto (C., Sez. VI, 26.2.2009, n. 11004). Non così però in caso di mastoplastica additiva, dovendosi ritenere che la previsione contenuta all'art. 2 del D.M. 3 settembre 1993, in base alla quale l'utilizzo di protesi al silicone era consentita esclusivamente agli specialisti in chirurgia plastica, aveva la funzione di limitare l'utilizzo di tali protesi e non di circoscrivere l'ambito di esercizio della professione medica (C., Sez. VI, 12.11.2015, n. 50012).

Quanto all'attività di chiropratico, non è richiesta alcuna speciale abilitazione. Tuttavia, può riscontrarsi in tali ipotesi l'abusivo esercizio della professione medica laddove il soggetto agente proceda al compimento di operazioni riservate alla professione medica, quali l'individuazione e diagnosi delle malattie, la prescrizione delle cure e la somministrazione dei rimedi, anche se diversi da quelli ordinariamente praticati (C., Sez. VI, 10.4.2003).

Integra il delitto di cui all'art. 348 colui che pratica la circoncisione rituale senza essere abilitato all'esercizio della professione medica (C., Sez. VI, 22.6-24.11.2011, n. 43646).

A proposito dello svolgimento della professione medica, si veda ancora C., Sez. VI, 24.4.2013, n. 21220, secondo la quale il responsabile di uno studio medico, per la peculiarità della funzione posta a tutela di un bene primario, ha l'obbligo di verificare, in via prioritaria ed assorbente, non solo i titoli formali dei suoi collaboratori, curando che in relazione ai detti titoli essi svolgano l'attività in relazione alla quale risultino abilitati, ma ha, altresì, l'ulteriore, concorrente e non meno rilevante obbligo di verificare in concreto che, al formale possesso delle abilitazioni di legge, corrisponda un accettabile standard di conoscenze e manualità minimali, conformi alla disciplina ed alla scienza medica in concreto praticate. In ipotesi di mancato rigoroso adempimento degli obblighi di verifica formale dei titoli abilitanti il concreto esercizio della professione, pertanto, il direttore dello studio medico risponde non solo del concorso nel reato di cui all'art. 348 con la persona non titolata, ma altresì, ex art. 113 a titolo di cooperazione colposa, degli illeciti prevedibili secondo l'id quod plerumque accidit, derivati dalla mancata professionalità del collaboratore la cui competenza formale e sostanziale non sia stata convenientemente verificata. C., Sez. VI, 8-22.7.2020, n. 21989 è tornata sul tema affermando che risponde di concorso nel delitto di esercizio abusivo della professione medica il responsabile di uno studio medico che consenta o agevoli lo svolgimento dell'attività da parte di soggetto che egli sa non essere munito di abilitazione.

Resta fermo che l'imperita prestazione svolta dall'abusivo medico odontoiatra se comporta pregiudizio per il danneggiato dà luogo al risarcimento del danno (C., Sez. VI, 11.4.2014, n. 23929).

Secondo C., Sez. VI, 16.9.2015, n. 50063, il reato di abusivo esercizio della professione è integrato anche dalla condotta consistente nell'effettuazione di massaggi a pagamento, su richiesta di persone che prospettino problemi inerenti a dolori o a patologie varie, trattandosi di attività professionale rientrante in quella di massofisioterapista della riabilitazione e di massaggiatore.

Per C., Sez. VI, 15.3.2016, n. 13213 risponde del reato di esercizio abusivo della professione, previsto dall'art. 348, colui che, senza aver conseguito la laurea in medicina e la relativa abilitazione professionale, eserciti l'attività di massaggiatore a scopo curativo, posto che la professione sanitaria di massaggiatore abilita solo a compiere trattamenti finalizzati a migliorare il benessere personale su un soggetto sano e integro e non il compimento di attività che presuppongono competenze mediche, teraupetiche o fisioterapiche. (Nella specie, i massaggi eseguiti dall'imputata - cui i malati si rivolgevano ottenendone promessa di guarigione - erano preceduti da un colloquio con finalità anamnestico-diagnostiche, e seguiti da una benedizione con imposizione delle mani). Sul tema si è espressa infine C., Sez. VI, 12.2-20.4.2020, n. 12539, ribadendo che la pratica del massaggio da parte del soggetto privo dell'abilitazione professionale richiesta può rilevare come esercizio abusivo solo quando il massaggio abbia una specifica finalità curativa. Il delitto non è invece integrato quando si tratti di manipolazioni per dispensare benessere, inteso in senso lato, anziché a curare una patologia o a lenirne gli effetti. Ancora con riferimento all'esercizio abusivo della professione medica, la Suprema Corta ha ritenuto che il naturopata, consapevole della diagnosi oncologica di una paziente, in caso di decesso di quest'ultimo risponde della morte come conseguenza del delitto di abusivo esercizio della professione (art. 586) e non a titolo di dolo eventuale; infatti, l'assenza di competenze mediche impedisce al soggetto attivo del reato di essere consapevole del fatto che l'accesso alle terapie indicate dalla scienza medica fosse necessario e indifferibile (C., Sez. I, 10.7-28.9.2020, n. 26951).

Esercita abusivamente la professione di dietista o di biologo colui che, non abilitato all'esercizio di tali professioni, prescriva programmi alimentari, elargendo generici consigli alimentari, svolgendo attività di educazione alimentare (C., Sez. VI, 30.3.2017, n. 20281).

La giurisprudenza ha rinvenuto il delitto in questione anche con riferimento alla professione di psicologo, anche laddove svolta da un pranoterapeuta, sostenendo che l'attività di dialogo con i propri clienti, volta a chiarire gli eventuali disturbi di natura psicologica ed anche a fornire consigli costituisce un'attività di diagnosi e di terapia intimamente connessa alla professione di psicologo, costituendo espressione della specifica competenza e del patrimonio di conoscenze della psicologia (C., Sez. VI, 29.10.2007; C., Sez. VI, 3.3.2004).

Per C., Sez. VI, 15.5.2013, n. 23843, integra il reato di esercizio abusivo della professione lo svolgimento, da parte del sociologo clinico, di atti di competenza dello psichiatra, dello psicologo o dello psicoterapeuta con modalità tali, per continuità, onerosità ed organizzazione, da creare l'oggettiva apparenza di un'attività professionale posta in essere da persona con competenze specifiche e regolarmente abilitata. (Fattispecie in cui l'imputato aveva compiuto interventi diagnostici e trattamenti terapeutici relativi a balbuzie e depressione). Per C., Sez. VI, 28.6.2017, n. 39339 integra il reato di esercizio abusivo della professione di psicoterapeuta qualunque attività, svolta da un soggetto non qualificato, che, a prescindere dall'impiego di una delle metodologie proprie di tale professione, abbia come presupposto la diagnosi di disturbi psichici del paziente e come obbiettivo la loro cura.

Per C., Sez. VI, 15.3.2016, n. 16562, posto che l'attività di counseling psicologico non pare per sua natura, anche in relazione alla intrinseca delicatezza e complessità dell'ambito di intervento, difforme da quella propria dello psicologo, incorre nel reato di esercizio abusivo della professione ex art. 348 lo psicologo che, qualificandosi come "psicosomatista di impresa", esercita l'attività senza la necessaria iscrizione al relativo albo professionale.

Integra il reato di esercizio abusivo della professione medica anche l'espletamento, da parte di tecnico di settore addetto alla camera mortuaria, di operazioni di dissezione senza la presenza del sanitario (C., Sez. VI, 29.3.2007).

In dottrina, Alberton, De Leo, Pranoterapia ed esercizio abusivo della professione medica, in RIML, 1987, 845; Brunetti, Riabilitazione della funzione visiva ed esercizio abusivo della professione medica, in RIML, 1996, 1, 877; Introna, L'agopuntura come attività sanitaria, in RIML, 1981, III, 847; Macchiarelli, La psicoterapia come atto medico, in RIML, 1983, I, 66; Pecori, Applicazione di lenti c.d. "a contatto" da parte dell'ottico e violazione dell'art. 348 c.p., in RIDPP, 1980, 352; Scoca, Sul contrasto di giurisprudenza in ordine alla legittimazione dei medici all'esecuzione delle analisi ad accertamento diagnostico, in GI, 1989, II, 89; Terrusi, Professione medica ed analisi di laboratorio: profili penalistici, in GM, 1989, 2, 417; Vecchi, Abuso della professione medica, in ND, 1999, 7-8, 2, 567; Viganò, Ancora sul caso "optometria": tre recenti sentenze della Cassazione penale e del TAR Puglia e considerazioni di un giusprivatista sulla rilevanza giuridica delle professioni emergenti, in RP, 2004, 361.

Nell'ambito delle professioni sanitarie, si ritiene tutelata dall'art. 348 anche la professione di infermiere (C., Sez. II, 3.6.2009, n. 26269; C., Sez. VI, 16.10.2008, n. 41183).

Esercizio abusivo della professione può aversi anche con riferimento alla professione di farmacista, quando esercitata da un privato che venda medicinali (C., S.U., 29.11.2005; C., Sez. VI, 5.7.2006), come nel caso del diplomato in erboristeria che venda al minuto prodotti erboristici ricompresi nella tabella merceologica affermandone gli scopi terapeutici ed indicandone la posologia (C., Sez. VI, 13.5.1981), ovvero dalla commessa di una farmacia che interpreti una ricetta medica e venda specialità medicinali (C., Sez. VI, 27.10.1981). Non sussiste invece l'ipotesi delittuosa laddove si sia in presenza di un erborista che si limiti alla coltivazione e raccolta di piante, nonché alla loro preparazione industriale e commercializzazione, senza che nel corso della sua attività attribuisca ai prodotti posti in vendita funzioni di medicamento (C., Sez. VI, 7.2.2003).

Tra il reato di commercio di sostanze dopanti attraverso canali diversi da farmacie e dispensari autorizzati, punito dall'art. 9, 7° co., L. 14.12.2000, n. 376, e quelli di esercizio abusivo della professione di farmacista, di cui all'art. 348, e di somministrazione di medicinali in modo pericoloso per la salute pubblica, di cui all'art. 445, sussiste un rapporto di specialità, in quanto chi commercia farmaci e sostanze dopanti in difetto della prescritta abilitazione professionale realizza altresì, con la medesima condotta, il compimento di attività riservate alla professione di farmacista, ulteriormente ponendo in essere, qualora le sostanze medicinali non corrispondano in specie, qualità o quantità alle ordinazioni mediche, il comportamento sanzionato dal predetto art. 445 (C., Sez. III, 28.2.2017, n. 19198).

La possibilità di un esercizio abusivo della professione di farmacista è ammessa anche in dottrina (Collacci, Commesso di farmaci ed esercizio abusivo della professione di farmacista, in ScP, 1972, 98).

È escluso comunque rientri nell'attività sanitaria l'attività di tatuaggio, consistente nell'introdurre pigmenti all'interno del derma medianti aghi elettrici ( C., Sez. VI, 29.5.1996; C., Sez. VI, 25.1.1996).

In questo senso anche Gallucci, Esercizio abusivo della professione sanitaria ed attività di tatuaggio, in CP, 1997, 1704.

Altro settore interessante la definizione dell'ambito di applicazione dell'art. 348 è quello relativo alla definizione dei rapporti fra le diverse professioni di consulente del lavoro, ragioniere e commercialista (C., Sez. VI, 23.1.2007; C., Sez. VI, 7.5.2004, secondo cui comunque non sussiste illecito allorché il professionista, iscritto negli albi degli avvocati, dei dottori commercialisti, dei ragionieri e periti commerciali, assuma o svolga adempimenti in materia di lavoro, previdenza ed assistenza sociale dei lavoratori dipendenti, senza avere previamente dato la prescritta comunicazione agli ispettori del lavoro delle province nel cui ambito territoriale intende svolgere tali adempimenti, atteso che l'omissione di tale comunicazione non rileva ai fini della integrazione della fattispecie penale, ma unicamente ai fini amministrativi e disciplinari). In generale, la Cassazione ha riconosciuto che non occorre la qualifica di ragioniere o di commercialista, essendo sufficiente l'abilitazione quale consulente del lavoro per la tenuta della materia fiscale e della contabilità, traducendosi in un mero rilevamento, annotazione, catalogazione, accorpamento di dati, senza di necessità di particolare competenza tecnico-contabile ( C., Sez. VI, 14.2.2001; C., Sez. VI, 21.6.1993; C., Sez. VI, 28.2.1985. Contra, C., Sez. VI, 25.2.2011, n. 10100); tuttavia, non è legittimato all'esercizio della professione di consulente del lavoro chi sia abilitato per la diversa professione di revisore contabile, giacché tra tali attività professionali esiste una obiettiva diversità di competenze (C., Sez. VI, 16.5.2007). Con riferimento all'attività di redazione dei bilanci, C., Sez. VI, 21.10.1999, ha escluso che tale condotta rientri nel novero di quelle protette, attribuite in via esclusiva o riservata alle figure professionali dei dottori commercialisti, ragionieri e periti commerciali.

C., S.U., 15.12.2011-23.3.2012, n. 11545, ha chiarito che le condotte di tenuta della contabilità aziendale, redazione delle dichiarazioni fiscali ed effettuazione dei relativi pagamenti, non integrano il reato di esercizio abusivo delle professioni di dottore commercialista o di ragioniere e perito commerciale, quali disciplinate, rispettivamente dal D.P.R. 27.10.1953, n. 1067 e dal D.P.R. 27.10.1953, n. 1068, anche se svolte, da chi non sia iscritto ai relativi albi professionali, in modo continuativo, organizzato e retribuito, tale da creare, in assenza di indicazioni diverse, le apparenze di una tale iscrizione. Ad opposta conclusione, in riferimento alla professione di esperto contabile, deve, invece, pervenirsi se le condotte in questione siano poste in essere, con le caratteristiche descritte, nel vigore del D.Lgs. 28.6.2005, n. 139.

Commette il reato di esercizio abusivo della professione il commercialista che, successivamente alla sua cancellazione dall'albo, si occupi per vari anni, reiteratamente, della tenuta e della trasmissione di documentazione fiscale, attività esplicitamente riservate ai professionisti iscritti all'albo, dovendosi, peraltro, escludere la buona fede dell'imputato alla luce della qualifica professionale specializzata del medesimo, il quale ben avrebbe potuto accertare, presso gli organi competenti, i requisiti indispensabili per il legittimo svolgimento dell'attività professionale abusivamente esercitata (C., Sez. VI, 27.4.2017, n. 30827).

Per C., Sez. VI, 21.2.2013, n. 9725 integra il reato di esercizio abusivo della professione l'attività di colui che curi la gestione dei servizi e degli adempimenti in materia di lavoro, previdenza ed assistenza sociale (nella specie, occupandosi in particolare della compilazione della busta paga per conto di numerose aziende) in mancanza del titolo di consulente del lavoro e dell'iscrizione al relativo albo professionale, a nulla rilevando la sua qualità di socio di una società partecipata da un'associazione di categoria, che può eccezionalmente provvedere a tali compiti solo mediante suoi dipendenti, a norma dell'art. 1, 4° co., L. 2.11.1979, n. 112 (recte 11 gennaio 1979, ndr) senza possibilità di delega a terzi.

Ancora con riferimento alla professione di commercialista, commette il reato di esercizio abusivo della professione chi, non in possesso del titolo di studio e abilitativo idoneo all'attività di commercialista, effettui le prestazioni di elaborazione dati, raccolta fatture attive e passive, registrazione corrispettivi, liquidazione IVA e situazioni contabili periodiche con prospetti di costi e ricavi (C., Sez. VI, 24.5.2016, n. 26617).

In dottrina, Dell'Anno, La professione di dottore commercialista non è protetta?, in CP, 1996, 2928; Granelli, Ancora sull'esercizio della professione di tributarista da parte dei consulenti del lavoro, in BT, 1987, 516; Iadecola, L'esercizio abusivo della professione di dottore commercialista, in GP, 1986, II, 48.

Come è ovvio, anche l'abusivo esercizio della professione di avvocato può ben integrare gli estremi del delitto in discorso (C., Sez. VI, 19.1.2011, n. 27440, secondo cui integra il delitto di esercizio abusivo della professione di avvocato la condotta di chi, conseguita l'abilitazione statale, provveda all'autenticazione della sottoscrizione del mandato difensivo prima di aver ottenuto l'iscrizione all'albo professionale. Nello stesso senso C., Sez. V, 6.11.2013, n. 646. L'esercizio abusivo è integrato anche quando il reo adotti lo stratagemma di far firmare l'atto tipico, da lui predisposto, da un legale abilitato: C., Sez. II, 16.12.2020-18.1.2021, n. 1931; C., Sez. VI, 7.10-14.12.2016, n. 52888). Tuttavia, in proposito l'orientamento della giurisprudenza non sembra improntato a particolare severità. Infatti, se si ritiene che sussista la fattispecie criminosa in caso di presentazione di un'istanza al P.M. volta a sollecitare detto ufficio a richiedere l'archiviazione nell'interesse di un imputato (C., Sez. VI, 4.7.2003), nonché nella condotta del praticante procuratore che compia atti tipici della professione legale ordinaria, atteso che gli è consentito l'esercizio della professione forense in un ambito ristretto e temporaneo (C., Sez. VI, 23.11.2000), vi sono diverse decisioni assai più largheggianti (C., Sez. VI, 9.12.2003, secondo cui non sussiste il delitto in parola con riferimento alla condotta del praticante avvocato, abilitato al patrocinio, il quale abbia assunto la difesa di un minore nell'udienza di convalida dell'arresto; C., Sez. VI, 11.3.2003, secondo cui non commette il reato di abusivo esercizio della professione di avvocato il soggetto che rediga una relazione di consulenza, su carta intestata "Studio legale internazionale", in ordine ad un procedimento penale, in quanto la consulenza non rientra tra gli atti tipici per i quali occorre una speciale abilitazione, ma è un'attività libera, solo strumentalmente connessa con la professione forense); C., Sez. VI, 13.12.2004, secondo cui non sussiste il reato in commento nel caso di assistenza di un soggetto davanti al giudice di pace per una causa civile di valore inferiore al milione di lire, stante il fatto che in tal procedimenti le parti, ove non intendano agire personalmente, possono farsi rappresentare da altra persona, senza necessità che il mandatario sia abilitato all'esercizio della professione forense. Contra, però, C., Sez. II, 6.4.2004, secondo cui l'esercizio abusivo della professione legale non implica necessariamente la spendita della qualità inesistente innanzi al giudice o ad altro pubblico ufficiale, sicché il reato si perfeziona per il solo fatto di curare pratiche o redigere ricorsi qualificando innanzi al clienti come avvocato.

Con riferimento alla professione forense, C., Sez. VI, 25.5.2017, n. 32952 ha ritenuto che non commette abusivo esercizio della professione di avvocato il legale che, nonostante il provvedimento di sospensione assunto dal Consiglio dell'ordine, rediga un esposto-denuncia nell'interesse di un cliente, provvedendo al deposito dello stesso davanti ad un organo di polizia giudiziaria, laddove si tratti di una prestazione isolata, in quanto tale non sintomatica di un'attività svolta in forma professionale, non rilevando la circostanza che l'esposto sia redatto su carta intestata dello studio legale. Da ultimo sul tema è intervenuta C., Sez. II, 26.9-19.11.2019, n. 46865, secondo cui l'abusiva e diffusa spendita dell'inesistente titolo professionale di avvocato, accompagnata dallo svolgimento di una protratta attività di consulenza e mediazione legale fino alla liquidazione dei danni relativi a due sinistri, costituisce condotta integrante il reato di abusivo esercizio della professione laddove l'attività illecita sia sostenuta dall'artificiosa creazione e dal successivo mantenimento di un rapporto fiduciario con i clienti, avente le caratteristiche di continuità, onerosità e prestazione di mezzi e asserite competenze tipiche dell'esercizio della professione legale.

Con riferimento allo svolgimento di attività di consulenza, si veda C., Sez. II, 25.10.2011, n. 42967, secondo la quale ai fini della configurazione del delitto di esercizio abusivo della professione, il compimento di un atto di consulenza caratteristico e strumentale ai c.d. atti tipici dell'attività forense non è sufficiente dovendo tale contegno rivestire i connotati della continuatività e professionalità. Con riferimento alla necessità dello svolgimento degli atti tipici per la consumazione del delitto di esercizio abusivo della professione v. C., Sez. VI, 26.1.2016, n. 8885 (professione medica) e C., Sez. VI, 8.9.2015, n. 15957 (maestro di sci).

Sul tema, si v. anche C., Sez. V, 6.11.2013, n. 646, secondo cui l'esercizio abusivo della professione legale non implica necessariamente la spendita al cospetto del Giudice o di altro pubblico ufficiale della qualità indebitamente assunta. Il reato, infatti, si perfeziona per il solo fatto che l'agente curi pratiche legali dei clienti, ovvero predisponga ricorsi anche senza comparire in udienza qualificandosi come avvocato, tale che nell'ipotesi in cui la condotta da ultimo menzionata si accompagni alla prima, deve ritenersi leso anche il bene giuridico della fede pubblica tutelato dall'art. 495, con conseguente concorso dei reati.

Si v. anche C., Sez. VI, 21.1.2014, n. 18745, che ha ritenuto integrato il delitto punito dall'art. 348 nel caso di reiterazione di colloqui con il detenuto, effettuati nell'arco temporale in cui l'avvocato risultava sospeso dall'esercizio della professione, a titolo di sanzione disciplinare. Ancora in merito ai colloqui con i detenuti in carcere v. C., Sez. VI, 29.1.2015, n. 6467, secondo cui integra il reato di cui all'art. 348 il laureato in giurisprudenza, non abilitato all'esercizio della professione di avvocato, che effettui colloqui presso un istituto penitenziario con un detenuto che lo aveva preventivamente nominato difensore di fiducia, qualificandosi come avvocato al cospetto del personale di polizia penitenziaria.

In dottrina, Morone, Consulenza legale ed abusivo esercizio della professione, in GI, 2004, 1708.

Con riferimento all'attività di riscossione di tributi, C., Sez. VI, 21.3-16.5.2012, n. 18713 ha invece escluso l'integrazione del delitto previsto de quo nel caso di esercizio non autorizzato di tale attività per conto di un Consorzio di Bonifica, atteso che la stessa, secondo l'insegnamento della Corte di Giustizia (v. sentenza C. Giust. CE 11.10.2001 in causa C-267/99), non ha carattere intellettuale, né richiede il ricorso a valutazioni di livello elevato.
4. Elemento soggettivo

L'individuazione dell'elemento soggettivo non si presenta certo complessa, non essendovi dubbi circa la identificazione dello stesso con il dolo generico.

Assai dibattuta, invece, è la disciplina in caso di errore sulla normativa extrapenale, inerente cioè alla particolare abilitazione necessaria per lo svolgimento della singola professione.

La dottrina è nel senso di ritenere che l'errore in parola abbia ad oggetto una disposizione extrapenale non integratrice del precetto penale, con conseguente applicazione dell'art. 47, 3° co. (Contieri, 606; Putinati, L'errore inevitabile sul precetto e l'abusivo esercizio della professione medica, in IP, 1989, 460; Svariati, Assenza di dolo o ignoranza scusabile della legge penale, in GM, 1990, II, 1089).

Di opposto avviso, invece, la giurisprudenza secondo cui l'errore sulla normativa in tema di iscrizione all'albo professionale, ovvero sui requisiti necessari per l'esercizio dell'attività professionale non ha valenza scriminante ( C., Sez. VI, 10.11.2009, n. 47028).
5. Normativa comunitaria

Sull'ambito di applicazione della norma in commento incide fortemente la normativa comunitaria in tema di esercizio delle attività professionali nell'ambito degli Stati membri da parte di stranieri residenti in paesi della Comunità. In particolare, occorre ricordare la disposizione di cui all'art. 52 Trattato CEE, in tema di diritto di stanzionamento, ovvero il diritto del cittadino di uno Stato membro di esercitare in uno dei paesi della Comunità attività non salariate alle stesse condizioni del cittadino.

A tale disposizione del trattato, si riferiscono numerose direttive della Comunità europea, come ad esempio la direttiva CE 16.2.1998, n. 98/5 giusta la quale gli avvocati europei possono, mediante utilizzazione del proprio titolo di origine, esercitare in ciascun Stato membro tutte le attività che possono essere svolte dai professionisti che esercitano l'attività con il titolo dello Stato ospitante, sia sotto il profilo della difesa e consulenza legale, che sotto il profilo della rappresentanza in giudizio, salvo, sotto questo profilo, la possibilità dello Stato membro di procedere ad elezione di domicilio presso un avvocato locale, ovvero la direttiva 18.12.1978, n. 78/1026/CEE e la direttiva 18.12.1978, n. 78/1027/CEE, concernenti la professione di veterinario.

Lo stesso legislatore italiano ha dato attuazione al principio del diritto di stanzionamento con la L. 22.5.1978, n. 217, secondo cui anche al cittadino di Stato membro della CE è riconosciuto il titolo di medico e di medico specialista ed è consentito l'esercizio dell'attività professionale, alla duplice condizione che egli sia in possesso del diploma o del certificato o di altro titolo previsto dalla menzionata legge e che consegua il riconoscimento in Italia di medico e di medico specialista mediante l'autorizzazione rilasciata dal Ministero della sanità (C., Sez. VI, 28.11.1988).

Il tema in dottrina risulta affrontato da pochi autori (Salazar, L'esercizio in Italia della professione medica da parte di cittadini di altri Stati della Comunità Europea, in CP, 1990, 1, 1704).

Con riferimento ad altre previsioni di diritto internazionale, ed in particolare in relazione al Trattato fra l'Italia e gli Stati Uniti d'America, si veda C., Sez. VI, 12.7.2005.
Avv. Antonino Sugamele

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