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Sentenza

La partecipazione all'associazione per delinquere richiede che ogni singolo partecipe abbia la consapevolezza di far parte del gruppo e la volontà di apportare il suo contributo.
La partecipazione all'associazione per delinquere richiede che ogni singolo partecipe abbia la consapevolezza di far parte del gruppo e la volontà di apportare il suo contributo.
Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 21 febbraio – 22 luglio 2014, n. 32384
Presidente Cortese – Relatore Magi

Ritenuto in fatto

1. Con ordinanza emessa in data 13.5.2013 il Tribunale di Catania, decidendo in sede di riesame ai sensi dell'art. 309 cod.proc.pen., confermava l'ordinanza cautelare emessa dal GIP del locale Tribunale in data 8.4.2013 nei confronti di M.A. .
La misura cautelare della custodia in carcere risulta disposta in relazione alla imputazione provvisoria di partecipazione ad associazione mafiosa (art. 416 bis cod.pen.), in particolare al clan Santapaola, operante in Catania, nel quartiere denominato Villaggio Sant'Agata, con l'aggravante del ruolo direttivo dal 30 settembre al 22 ottobre del 2008 e dal luglio 2009 in poi.
Nell'esaminare le doglianze difensive, in quella sede formulate, il Tribunale osserva in primis che:
- non può dirsi sussistente alcuna nullità del titolo genetico per integrale riproduzione dei contenuti della richiesta applicativa inoltrata dal Pubblico Ministero. Il GIP, infatti, pur utilizzando una tecnica di massiccia incorporazione dei contenuti della richiesta nel corpo dell'atto - tecnica di per sé consentita in presenza di determinate condizioni - aveva in ogni caso operato il dovuto vaglio critico, come è dimostrato dal rigetto di talune richieste operate;
- non poteva dirsi ricorrente l'ipotesi di inefficacia per l'omessa trasmissione al Tribunale di un atto già sottoposto alla valutazione del GIP, consistente -secondo la difesa - in un verbale di dichiarazioni rese da T.S. il 15 maggio 2009. Ciò perché, in sostanza, il GIP utilizza in motivazione il verbale reso dal T. alla P.G. il giorno precedente, ovvero il 14 maggio 2009 e da semplicemente atto del fatto che il giorno successivo tali dichiarazioni vennero confermate innanzi ali1 A.G.. Dunque l'ipotetica omissione relativa al verbale del giorno 15 (che non vi è prova sia stato effettivamente trasmesso al GIP in sede di richiesta) riguarderebbe, in ogni caso, un atto dal contenuto del tutto irrilevante ai fini dell'adozione della misura;
- non può dirsi, inoltre, sussistente alcuna inutilizzabilità dei verbali relativi alle dichiarazioni rese da L.C.S. , posto che è indiscusso l'avvenuto rispetto delle regole di documentazione di cui all'art. 141 bis cod.proc.pen.. Il deposito dei verbali riassuntivi risulta pertanto pienamente legittimo e gli stessi possono essere posti a fondamento delle valutazioni cautelari.
Quanto alle doglianze relative alla operata valutazione di gravità indiziaria, il Tribunale riteneva corretto il percorso argomentativo contenuto nel titolo genetico e ne argomentava le ragioni.
Non viene ignorata la circostanza della intervenuta condanna del M. con sentenza definitiva per analoga contestazione mossagli fino all'anno 1996, nonché in primo grado con altra sentenza GUP del 26 aprile 2007.
Né viene trascurata la circostanza dell'intervenuto rigetto nell'anno 2012 di nuova ordinanza cautelare, non essendo stati ritenuti gli elementi allora prodotti dall'accusa sufficienti ad integrare un grave quadro indiziario.
Si ritiene però che gli elementi sopravvenuti - valutati unitamente a quelli già acquisiti - consentano la formulazione della prognosi di condanna per il periodo aprile 2007/aprile 2010, non coperto dal precedente giudicado e dal diverso procedimento in corso.
In particolare, il Tribunale sottopone a valutazione i contributi narrativi resi dai collaboranti T.S. , B.I. , S.E. , L.G. , D.G. , L.C.S. , M.G. e M.P. .
Di particolare rilievo, dato il ruolo direttivo svolto, viene indicato il contributo di L.C.S. .
Detti contributi, riportati in sintesi, vengono ritenuti convergenti nella indicazione di M.A. come appartenente al clan Santapaola, con ruolo direttivo svolto nel gruppo di Villaggio Sant'Agata tra il 2009 e il 2010 (sia pure in posizione sottoposta alla autorità di A.F. e di altri soggetti in quel periodo detenuti).
Le dichiarazioni rese da M.G. e M.P. vengono inoltre richiamate a “chiarimento” di un colloquio intercettato durante la loro detenzione nel 2011 ove si faceva riferimento al fatto che .. quello che si chiama come noi, Villaggio, è rimasto isolato ... Ciò consente di valorizzare i contenuti della captazione in questione - ritenuta non sufficientemente chiara nel 2012 – come ulteriore elemento indiziante, confermativo dell'inserimento e del ruolo del M. all'interno del gruppo.
Vengono altresì ritenute significative le risultanze di altri procedimenti penali in corso (ove sono state elevate contestazioni per reati aggravati dail'art. 7 l. n. 203 del 1991) e le accertate frequentazioni con altri soggetti ritenuti inclusi.
2. Avverso detto provvedimento ha proposto ricorso per cassazione - a mezzo del difensore - M.A. , articolando distinti motivi.
Con il primo si ripropone la questione di nullità del titolo genetico (ordinanza GIP) e si assume l'erroneità della decisione impugnata per mancato rilievo di detto vizio.
Ad avviso del ricorrente risulta violata, nel titolo genetico, la disposizione normativa di cui all'art. 292 cod.proc.pen. non essendovi stata alcuna elaborazione autonoma, nei confronti del M. , da parte del GIP circa la consistenza degli elementi di prova allegati dal Pubblico Ministero.
A fronte di tale dato, comportante inesistenza del percorso argomentativo, non poteva il Tribunale del Riesame integrare la motivazione ma avrebbe dovuto dichiarare la nullità dell'ordinanza. Il potere integrativo da parte dell'organo dell'impugnazione cautelare può infatti sussistere solo a fronte di una motivazione carente ma non a fronte di una motivazione meramente apparente.
Con il secondo motivo si riproponeva la richiesta di declaratoria di inefficacia del titolo cautelare genetico ai sensi degli artt. 309 co.5 e co. 10 per mancata trasmissione al Tribunale del Riesame del verbale di dichiarazioni rese dal T. il 15 maggio 2009, contestandosi la validità della motivazione espressa nel provvedimento impugnato.
Ad avviso del ricorrente l'atto in questione è stato certamente trasmesso e utilizzato dal GIP e l'omissione successiva non potrebbe essere superata dalla pretesa irrilevanza del contenuto.
Con il terzo motivo si ripropone la questione di inutilizzabilità dei verbali contenenti le dichiarazioni di L.C.S. .
Ad avviso del ricorrente non vi sarebbe l'osservanza della norma di cui all'art. 141 bis cod.proc.pen. essendo stato redatto il solo verbale riassuntivo.
Con il quarto motivo si deduce vizio di motivazione e violazione di legge in relazione alla ritenuta sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza.
Si contesta, in particolare, la sussistenza di una reale convergenza tra i diversi contributi narrativi - specie sulla tempistica e il contenuto del preteso ruolo direttivo svolto - e si rappresentano talune contraddizioni tra le affermazioni rese da T.S. e B.I. .
Si rappresenta altresì che lo stesso Ufficio di Procura ha indicato, per il periodo in questione, altri soggetti di vertice, diversi dal M. .
Ed ancora si contesta la mancata individuazione, tra le diverse condotte di cui all'art. 416 bis co.2 di quella effettivamente posta a carico del M. .
I contributi sarebbero pertanto generici e inidonei a determinare una effettiva gravità indiziaria, rottamente intesa.
L'ipotesi della permanenza del vincolo associativo, pur dopo le precedenti condanne, risulta dunque del tutto congetturale e sfornita del necessario livello dimostrativo imposto dall'art. 273 cod.proc.pen..

Considerato in diritto

1. Il ricorso è infondato e va pertanto rigettato.
1.1 Quanto ai vizi procedurali denunziati, gli stessi non sussistono.
Con il primo motivo si è infatti riproposto il tema della nullità del titolo genetico e della correlata impossibilità per il Tribunale di porvi rimedio.
Va sul punto evidenziato che l'oggetto della verifica di legittimità non è rappresentato dal provvedimento emesso dal GIP ma dall'ordinanza emessa ai sensi dell'art. 309 cod.proc.pen. dal Tribunale.
Da ciò deriva la impossibilità di operare, nella presente sede, diretta verifica sul fatto - affermato dal ricorrente - rappresentato dalla mera “riproduzione” da parte del GIP nell'ordinanza emessa ai sensi dell'art. 292 dei contenuti investigativi, senza alcuna valutazione critica.
In ogni caso, se ciò fosse - in ipotesi - avvenuto, il Tribunale avrebbe dovuto comunque esercitare i suoi poteri valutativi di merito (e non limitarsi a dichiarare la nullità dell'ordinanza) come di recente affermato da Sez. II n. 30696 del 20.4.2012, rv 253326, decisione da ritenersi del tutto condivisibile.
In tale arresto, questa Corte di legittimità ha valorizzato la natura autonoma del giudizio spettante al Tribunale del Riesame in un contesto normativo (art. 309 cod.proc.pen.) che da un lato “svincola” la peculiare impugnazione de qua dalla necessaria indicazione dei motivi (effetto integralmente devolutivo) dall'altro trasferisce sull'istante anche il rischio di una diversa argomentazione posta a sostegno del titolo cautelare (il Tribunale può confermare il provvedimento anche per ragioni diverse da quelle indicate nella motivazione del medesimo).
Dunque in presenza di una ordinanza cautelare che, seppur recependo in modo acritico l'impostazione di accusa, riporti i dati oggetto di valutazione ed esprima le conseguenze di tale “adesione”, non risulta possibile per il Tribunale emettere un provvedimento di “annullamento” (che residua per i soli casi di totale mancanza dell'iter argomentativo) del titolo cautelare, proprio in virtù dell'ampiezza dei poteri/doveri che a tale organo sono attribuiti.
Del resto, tale orientamento - oltre a tradurre in realtà applicativa i contenuti precettivi dell'art. 309 cod.proc.pen. - risulta condivisibile anche sul piano della logica dimostrativa, non apparendo possibile (e sul punto si concorda, con l'opinione del ricorrente) individuare in concreto, in presenza di una “condivisione” da parte del GIP dei contenuti di un atto di parte (quale è la richiesta cautelare) se tale condivisione sia davvero espressiva di un maturato convincimento (espresso in termini sintetici e adesivi alle opzione dell'accusa) o di una trascuratezza comportamentale ed etica (che si ipotizza sempre lì dove si afferma che la scelta di adesione del GIP sia ascrivibile a mera comodità e risparmio di tempi).
Gli indici rivelatori circa la ricorrenza della prima o della seconda ipotesi (presenza di un rigetto con argomentazioni necessariamente diverse, nell'ambito di un titolo cumulativo) ben possono essere in realtà fallaci (il rigetto di una delle richieste non esclude la passiva accettazione delle altre) e pertanto, non potendosi esplorare il percorso interiore seguito dall'estensore monocratico, ciò che rileva - a ben vedere - è la capacità di resistenza e tenuta logica dell'apparato motivazionale, per come espresso, di fronte alle critiche della parte, formulate innanzi a un giudice “per definizione” diverso e che alimenta la sua decisione dal contraddittorio (rappresentato dal Tribunale del Riesame).
In tal senso, lo strumento del riesame è - di per sé - sanante di qualsiasi forma di pigrizia espressiva del primo giudice, risultando strutturato come seconda valutazione di merito sulla valenza dimostrativa degli elementi raccolti e posti a sostegno della limitazione di libertà.
Nel caso in esame, dunque, il Tribunale non soltanto ha escluso l'acritica ricezione dei contenuti della richiesta del P.M. da parte del GIP ma - ciò che più conta - ha autonomamente rielaborato i dati dimostrativi ed ha formulato le sue valutazioni rispondendo alle critiche mosse dall'attuale ricorrente.
In ciò si è dato luogo, in ogni caso, ad una “rinnovata motivazione” che non manifesta alcun vizio in tema di nullità, per quanto sinora detto.
1.3 Quanto al secondo motivo di ricorso, incentrato sulla pretesa violazione della disposizione di cui all'art. 309 comma 5 cod.proc.pen., del tutto condivisibile ed immune da vizi risulta la motivazione espressa dal Tribunale.
L'atto che si ipotizza non trasmesso - dichiarazioni rese dal T. al P.M. il 15 maggio 2009 - è pacificamente un atto privo di contenuto autonomo, essendosi in tale circostanza il T. espressamente riportato ai contenuti già espressi in data 14 maggio 2009 in sede di dichiarazioni spontanee rese alla P.G. (e circa la presenza di tale atto non vi è questione) e rappresenta, pertanto, esclusivamente una conferma di utilizzabilità di detti contenuti, riportata nell'ordinanza emessa dal GIP.
Ciò consente di ritenere rispettata - in conformità all'orientamento interpretativo emerso nella presente sede di legittimità e citato dal Tribunale - la sequenza normativa descritta dai commi 5 e 10 dell'art. 309 cod.proc.pen..
Da un lato, infatti, va affermato che l'atto successivo - sia pure privo di contenuti dichiarativi - risulta sostanzialmente riprodotto nel titolo cautelare e ciò assicura la formale validità dell'atto precedente, peraltro autonomamente utilizzabile in sede cautelare ai sensi dell'art. 350 comma 7 cod.proc.pen., dall'altro va preso atto dell'assenza di nuovi contenuti narrativi, il che assicura circa l'avvenuta utilizzazione delle sole informazioni rese in data 14 maggio 2009, oggetto di deposito e di trasmissione.
Da qui la possibilità di ribadire - nel caso in esame - l'orientamento emerso, tra le altre, in Sez. III n.37009 del 7.7.2011, rv 251392, per cui l'inefficacia di cui all'art. 309 comma 10 cod.proc.pen. è correlata anche alla omessa trasmissione di un solo atto che sia stato tuttavia ritenuto “determinante” ai fini dell'applicazione della misura.
Ciò che rileva, in effetti, al fine di esercitare il controllo difensivo sulla provvista cognitiva utilizzata in sede di emissione del titolo è il contenuto narrativo (reso in data 14 maggio e trasmesso) e non l'atto di successiva conferma, che può dirsi, a tal fine, irrilevante.
Da ciò il rigetto del motivo qui in trattazione.
1.4 Quanto alla pretesa violazione della norma che impone la fonoregistrazione degli interrogatori resi da soggetti in stato detentivo (art. 141 bis) il motivo risulta generico. Ciò perché il Tribunale ha precisato che la fonoregistrazione è stata operata ed è pacifico che la stessa rappresenta la condizione di validità dell'atto, pur senza il necessario deposito della relativa trascrizione (essendo la stessa prevista solo su richiesta di parte). Nel riproporre la questione, dunque, il ricorrente avrebbe dovuto fornire adeguata dimostrazione del mancato rispetto della norma, cosa che non è avvenuta.
2. Sulla motivazione dell'ordinanza. Vanno premesse all'esame delle doglianze in punto di adeguatezza della motivazione talune considerazioni di ordine generale.
2.1 La prima riguarda l'ambito del sindacato di questa Corte sui vizi di motivazione del provvedimento impugnato, rappresentato - nel caso di specie - da una ordinanza in tema di libertà personale.
Dando ormai per scontata la traduzione della espressione “gravi indizi di colpevolezza” utilizzata dal legislatore nel corpo dell'art. 273 cod. proc. pen. nel senso di “elementi di conoscenza idonei a far ragionevolmente presumere, allo stato degli atti, la qualificata probabilità di condanna” è evidente che non può venire in rilievo - in quanto tale - in sede di legittimità la violazione della suddetta norma, quanto l'attribuzione di una effettiva “valenza indiziante” ai singoli elementi oggetto di valutazione, nell'ambito del percorso giustificativo della decisione adottata.
Trattasi dunque di esaminare la correttezza dei passaggi argomentativi contenuti nel provvedimento di merito, anche in rapporto ai contenuti della norma incriminatrice di riferimento (nel caso di specie rappresentata dall'art. 416-bis cod. pen.) secondo i canoni imposti dalla norma di cui all'art. 606 comma 1 lettera e), su cui vi è copiosa elaborazione giurisprudenziale maturata in questa sede.
Va dunque - sia pure in sintesi - ricordato che in sede di controllo sulla motivazione va realizzata una:
- verifica circa la completezza e globalità della valutazione operata in sede di merito, non essendo consentito operare irragionevoli parcellizzazioni del materiale indiziario raccolto (in tal senso, tra le altre, Sez. II n. 9269 del 5.12.2012, Della Costa, Rv. 254871) né omettere la valutazione di elementi obiettivamente incidenti nella economia del giudizio (in tal senso Sez. IV, n.14732 del 1.3.2011, Molinario, Rv 250133 nonché Sez. I, n.25117 del 14.7.2006, Stojanovic, Rv 234167);
- verifica circa l'assenza di evidenti errori nell'applicazione delle regole della logica tali da compromettere passaggi essenziali del giudizio formulato (si veda in particolare la ricorrente affermazione della necessità di scongiurare la formulazione di giudizi meramente congetturali, basati cioè su dati ipotetici e non su massime di esperienza generalmente accettate, rinvenibile di recente in Sez. VI n. 6582 del 13.11.2012, Cerrito, Rv 254572 nonché in Sez. II n. 44048 del 13.10.2009, Cassarino, Rv 245627);
- verifica circa l'assenza di insormontabili contraddizioni interne tra i diversi momenti di articolazione del giudizio (c.d. contradditorietà interna);
- verifica circa la corretta attribuzione di significato dimostrativo agli elementi valorizzati nell'ambito del percorso seguito e circa l'assenza di incompatibilità di detto significato con specifici atti del procedimento indicati ed allegati in sede di ricorso (c.d. travisamento della prova) lì dove tali atti siano dotati di una autonoma e particolare forza esplicativa, tale da disarticolare l'intero ragionamento svolto dal giudicante (in tal senso, ex multis, Sez. I n. 41738 del 19.10.2011, Rv 251516, ove si è precisato, sul punto, che “.. non è, dunque, sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente contrastanti con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità, né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica l'analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l'individuazione, nel loro ambito, di quei dati che - per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un'unica spiegazione - sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. È, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l'esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l'intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione..”).
Al giudice di legittimità resta, pertanto, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa (si veda, ex multis, Sez. VI n. 11194 del 8.3.2012, Lupo, Rv 252178). Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell'ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l'iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.
2.2 Ciò premesso, va anche compiuta una considerazione - sia pur sintetica - circa il significato da attribuirsi alla nozione normativa di “partecipazione” ad una associazione avente le caratteristiche descritte dal legislatore all'art. 416 bis cod. pen., stante la necessità di fissare alcuni concetti utili alla ricostruzione della posizione del ricorrente.
Il ricorrente si duole, infatti, del riconosciuto ruolo direttivo (in alcuni periodi) ma ancor prima di affrontare il tema occorre interrogarsi circa la ricorrenza o meno degli indicatori partecipativi.
È notorio, infatti, che con la particolare formulazione dell'articolo 416 bis cod. pen. il legislatore ha adottato un modello descrittivo dell'illecito tratto dalla concreta esperienza criminologica, essendo stata compiuta una valorizzazione di taluni elementi caratterizzanti della fattispecie (in particolare l'avvalersi della forza di intimidazione del vincolo associativo e delle correlate condizioni di assoggettamento e di omertà) desunti da dati “fenomenologici” riscontrati in alcune realtà territoriali del nostro paese.
Ciò, come rilevato anche in dottrina, ha comportato una sorta di alterazione dell'ordinario metodo di incriminazione delle fattispecie orientate alla tutela dell'ordine pubblico (art.416 cod. pen.) e basate sul rilievo penalistico del solo accordo finalizzato alla commissione indeterminata di delitti (cui si accompagni un minimum di substrato organizzativo), atteso che il carattere “tipico” dell'associazione che possa dirsi mafiosa è riscontrabile solo nella misura in cui all'accordo tra più soggetti sia oggettivamente ricollegabile - per il metodo operativo seguito, per la qualità soggettiva degli associati, per il radicamento criminale sul territorio - un concreto effetto di “intimidazione ambientale”, tale da rendere possibile il perseguimento dei particolari fini (alterazione delle regole del mercato, alterazione dei rapporti tra privati e pubbliche amministrazione nell'aggiudicazione di appalti, o realizzazione di profitti ingiusti mediante lo svolgimento di attività illecite) previsti dalla norma.
Pur non richiedendo, pertanto, la norma in parola la necessaria consumazione di delitti-scopo e prevedendo la punibilità anche per le sole condotte associative di per sé considerate (data la natura di reato di pericolo - sia pure concreto - in rapporto al bene protetto), è infatti evidente (ed in tal senso si parla di reato associativo a struttura mista) che i caratteri tipici dell'associazione in parola, prima evidenziati, rendono necessario un minimo di operatività o comunque postulano l'esistenza di una concreta carica intimidatoria (sul punto, di recente, Sez. I n. 35627 del 18.4.2012, Amurri, rv 253457) derivante dal modo di atteggiarsi o di comportarsi (anche pregresso) da parte di quei soggetti che rendano con chiarezza riconoscibile all'esterno tale fondamentale caratteristica. In altre parole, va detto che una associazione può essere qualificata in sede giudiziaria come “di stampo mafioso” esclusivamente ove risulti che il suo modus operandi sia fortemente caratterizzato da un uso (almeno potenziale) della violenza o minaccia, tale da generare quel senso di timore e insicurezza per la propria persona o i propri beni che induce la generalità dei consociati a piegarsi alle diverse richieste di vantaggi provenienti dagli associati.
Ciò posto, e richiamando i requisiti tipici delle condotte partecipati ve, va osservato che negli ormai più di trenta anni di vigenza della fattispecie in parola la dimensione applicativa ha fortemente risentito, come sovente accade, della particolarità delle vicende oggetto di giudizio, degli aspetti ambientali correlati alle stesse e degli specifici materiali dimostrativi portati all'attenzione dei diversi soggetti giudicanti.
Sul punto, occorre anzitutto ricordare che questa Corte (a partire dalla decisione Sez. I del 13.6/87, Altivalle) richiede per la punibilità a titolo di partecipazione la verifica dimostrativa della ricorrenza di un duplice aspetto: sul terreno soggettivo va riscontrata l'affectio societatis, ossia la consapevolezza e volontà del singolo di far parte stabilmente del gruppo criminoso con piena condivisione dei fini perseguiti e dei metodi utilizzati; sul piano oggettivo, non potendosi ritenere sufficiente la mera ed astratta “messa a disposizione” delle proprie energie (dato che ciò, oltre a costituire un dato di notevole evanescenza sul piano dimostrativo, si porrebbe in contrasto con il fondamentale principio di materialità delle condotte punibili di cui all'art.25 Cost.) va riscontrato in concreto il “fattivo inserimento” nell'organizzazione criminale, attraverso la ricostruzione - sia pure per indizi - di un “ruolo” svolto dall'agente o comunque di singole condotte che - per la loro particolare capacità dimostrativa – possano essere ritenute quali “indici rivelatori” (mediante l'applicazione di ragionevoli massime di esperienza) dell'avvenuto inserimento nella realtà dinamica ed organizzativa del gruppo.
Così, ben può dirsi che tale “inserimento” prescinde da formalità o riti che lo ufficializzano, potendo risultare per facta concludentia, attraverso cioè un comportamento che sul piano sintomatico sottolinei la partecipazione, nel senso della norma, alla vita dell'associazione (Sez. I n. 1470 del 11.12.2007, Addante, rv 238839 ove si ribadisce che la partecipazione alla associazione di stampo mafioso può essere desunta da indicatori fattuali dai quali - sulla base di attendibili regole di esperienza - possa logicamente inferirsi l'appartenenza del soggetto al sodalizio, purché si tratti di indizi gravi e precisi).
In altre parole, ciò che va ritenuto decisivo ai fini della valutazione in sede giudiziaria di “appartenenza” ad un gruppo avente le caratteristiche prima illustrate non è la mera indicazione circa la qualità formale di affiliato (pur se tale dato costituisce uno dei possibili indizi a carico) quanto la possibilità di attribuire al soggetto in questione, mediante l'apprezzamento delle specifiche risultanze probatorie, la realizzazione di un qualsivoglia “apporto” alla vita dell'associazione, tale da far ritenere avvenuto il suo inserimento con carattere di stabilità e consapevolezza soggettiva (tra le altre, Sez. VI, 5.10.2000, Di Carlo, ove si richiede espressamente l'individuazione, da parte del giudice di merito, di puntuali e pertinenti elementi di fatto, logicamente indicativi di un perdurante inserimento dell'imputato nella organizzazione mafiosa, atteso che al fine della affermazione di penale responsabilità non rilevano mere situazioni di status, ma la fattiva partecipazione del soggetto ad un sodalizio, nonché la compiuta definizione espressa da Sez. U. n. 33748 del 12.7.2005, Mannino, rv 231670 per cui la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l'interessato “prende parte” al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell'ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi).
Ciò tuttavia, è bene ribadirlo, non comporta certo l'adesione ad un pieno modello “causale” di definizione della partecipazione, analogo a quello elaborato in sede di definizione della punibilità del concorso esterno nel reato associativo. In effetti va precisato che il comportamento - di volta in volta - elevato ad “indice rivelatore” del fatto punibile, che qui resta l'avvenuto inserimento del soggetto nel gruppo criminoso in modo stabile, non deve necessariamente possedere - di per sé - una elevata carica di apporto causale alla vita dell'intera associazione (potendo consistere anche in un contributo di carattere morale e psichico, se oggettivamente apprezzabile, come ritenuto da Sez. I n. 6819 del 31.1.2013, Fusco, rv 254503) atteso che lo stesso funge - a ben vedere - da elemento “visibile” della esistenza del rapporto posto a monte, intercorso tra il soggetto e il gruppo, che resta l'oggetto specifico della dimostrazione. In tal senso, risulta condivisibile l'approdo cui è di recente pervenuta, sul tema, la decisione Sez. VI n. 38117 del 9.7.2013, rv 256334 che richiede in sede cautelare - ed al fine di ritenere integrato il presupposto della gravità indiziaria - l'esistenza, tra le plurime dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia, di almeno una che tra esse risulti indicativa di atti o comportamenti che, seppure non necessariamente forniti di autonoma rilevanza penale, risultino comunque indicativi del consapevole apporto dell'accusato al perseguimento degli interessi della consorteria. La ricostruzione indiziaria, infatti, al di là delle generiche indicazioni di “appartenenza” provenienti da soggetti ritenuti inclusi nel gruppo - che pure possono svolgere funzione ausiliaria di riscontro, lì dove convergenti nel loro nucleo essenziale - si alimenta necessariamente di un dato cognitivo capace di illustrare almeno una condotta specifica, rivelatrice (sul piano logico) della esistenza dello stabile rapporto tra il soggetto ed il gruppo di riferimento.
2.3 La decisione impugnata fa corretta applicazione dei principi di diritto e delle regole valutative sin qui esposte e non risulta affetta da alcun vizio in punto di completezza e logicità dei passaggi argomentativi.
Anche in tal caso, infatti, il confronto del ricorso con i motivi espressi nell'ordinanza è solo parziale.
Il ricorrente, infatti, omette di considerare il rilievo attribuito dal Tribunale alla captazione ambientale del novembre 2011, alla luce delle precisazioni fornite da M.G. e M.P. .
Da tale captazione si evince che il M.A. in quel periodo non solo era concretamente inserito nel gruppo ma aveva subito un “isolamento” in virtù di una crisi interna alle diverse articolazioni del clan. Non risulta, pertanto, irragionevole ed arbitraria la valutazione congiunta dei diversi contributi narrativi, posto che la stessa si salda ad un dato ulteriore, rappresentato dalla suddetta captazione. Significativo, infatti, è il termine utilizzato nel colloquio intercettato, posto che l'isolamento presuppone una precedente capacità di aggregazione di più persone intorno a sé, il che riscontra non solo l'appartenenza ma anche un ruolo dirigenziale, per nulla contraddetto dalla esistenza di altri soggetti più elevati in grado, essendo notorio che le organizzazioni mafiose diversificano i livelli di comando sia su base territoriale che in ragione dei periodi detentivi sofferti dagli esponenti di vertice.
Non possono accogliersi le critiche in punto di indeterminatezza del ruolo direttivo attribuito (nelle varie forme previste dalla norma incriminatrice), trattandosi - in tutta evidenza - di questione qualificativa derivante da ulteriori valutazioni in fatto che ben possono trovare esplicazione in sede di merito.
Ciò che rileva - nella presente fase - è infatti la descritta convergenza tra le plurime fonti esaminate dal Tribunale che sostiene ampiamente la valutazione di gravità indiziaria.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell'Istituto penitenziario, ai sensi dell'art. 94 disp. att. c.p.p. comma 1 ter.
Avv. Antonino Sugamele

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